Nell’eredità di precetti e insegnamenti che Italo Calvino lascia ai posteri e a quanti si occupano di letteratura vi è un legato che è bene ricordare in ogni tempo e in ogni spazio: «le fiabe sono vere» (Calvino,1988:19). È il 1956 e, dopo due anni di intenso lavoro, Calvino consegna le Fiabe italiane, che sono « nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita [...] sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco della casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano» (ibidem).
Speciali testimonianze in cui si cristallizzano e riverberano credenze e tradizioni, memorie e modelli, le fiabe sono parafrasi della vita umana, date una volta e per sempre; offrono a Calvino, suggestionato e affascinato dallo strutturalismo, la possibilità di giocare: è nel meccanismo di smontaggio, nel gioco di destrutturazione che si scoprono pieghe e nicchie, interstizi dove la storia, le variabili geografiche, i vissuti personali si infiltrano, si diramano e prendono corpo e vita, si inverano in forma di documenti storici. Sono occasione, irripetibile e irrinunciabile, di sperimentare l’ars combinatoria, sono congegno attraverso cui diviene possibile vagliare la molteplicità del reale e le sconfinate possibilità che a questo si sottomettono.
La lezione sulle fiabe è stata da monito per una giovane scrittrice italosomala, Ubah Cristina Ali Farah, la quale sembra essere consapevole che per gestire una materia molteplice si necessita di uno strumento che abbia natura molteplice, ed è così che ne Il comandante del fiume (2014, 66thand2nd) una fiaba somala è motore della storia.
Nata a Verona, da padre somalo e madre italiana, a tre anni si trasferisce a Mogadiscio dove rimarrà sino al 1991, anno dello scoppio della guerra civile. Trascorre alcuni anni a Pécs, in Ungheria, e ritorna in Italia, trasferendosi a Roma. Nel 2001 si laurea in Lettere presso l’Università La Sapienza. Il suo primo racconto Interamente viene pubblicato nel 2003 su El Ghibli, rivista e importante piattaforma di discussione dedicata alla letteratura della diaspora diretta da Pap Khouma, autore de Io venditore di elefanti considerato testo miliare della Letteratura di migrazione in Italia. Il suo romanzo d’esordio Madre piccola (Frassinelli, 2007) si aggiudica nel 2008 il premio Elio Vittorini. Nel 2006 vince il Concorso Nazionale Letterario Lingua Madre alla Fiera Internazionale del libro di Torino. Collabora con numerose riviste e testate giornalistiche, tra cui la Repubblica, Internazionale, Liberazione, Nigrizia, Carta, ed è responsabile dell’organizzazione di alcuni eventi letterari. In Italia i suoi racconti e poesie vengono pubblicati in diverse antologie e riviste, come Ai confini del verso. Poesie della migrazione in italiano (Le Lettere, 2006) curata da Mia Lecomte. Attualmente vive a Bruxelles.
Scrittrice attenta alle dinamiche migratorie e all’educazione interculturale, Ali Farah dedica la propria penna a quelle che, secondo la nomenclatura scientifica, vengono chiamate “seconde generazioni”, ambigua categoria in cui sono collocati i figli dei soggetti immigrati e che nell’interpretazione di Cristina Ali Farah va intesa non come mera etichetta, ma angolo visuale da cui osservare quei fenomeni perturbanti che agitano e scompongono le logiche e le dinamiche delle nostre società. Scrittrice essa stessa di seconda generazione, dichiara: «Questo tipo di etichette servono per indicare fenomeni e percorsi che sono naturalmente più complessi e articolati di quanto non dica la semplice definizione. La scrittura è un lavoro individuale, ma ciò di cui vuoi scrivere, le cose di cui ti capita di parlare nascono sempre in un contesto. Perciò è vero che ricorrere a delle categorie generali può risultare limitante ma, allo stesso tempo, indica in modo chiaro cosa sta accadendo nella società, il modo in cui la società stessa ha percezione dei cambiamenti che l’attraversano. Perciò in questo caso mettere l’accento sulle specificità di alcuni autori, specificità data dal loro vissuto, dal loro rapporto con la lingua o con la storia, significa anche rendere esplicito il modo in cui partecipano della cultura italiana di oggi […] » (Ali Farah, 2014).
Protagonista del romanzo è Yabar, un ragazzo come tanti, irrequieto e con poca voglia di studiare, nessun obiettivo se non la voglia di provocare, tanta rabbia in corpo e quel senso di incompletezza che si portano dentro tutti i giovani. Viene bocciato per la seconda volta al liceo e messo alle strette dalla madre, sarà spedito, secondo una «bizzarra abitudine» somala, a Londra, dalla zia materna, nella speranza che passando del tempo con i somali torni sulla retta via. Risalendo negli anni e nei ricordi attraverso una serie di flashback, Yabar tenta di narrare la propria «storia personale»: una biografia fatta di silenzi, assenze, tabù, occupata dalla musica che cela segreti, gravata da una storia più grande e più pesante, quella della Somalia. Una Somalia che assedia le pagine, con il colpo di Stato del 1991, con l’assurdità delle guerre claniche, e l’esperienza ingrombrante e inquietante dell’Italia colonizzatrice. Yabar è affascinato, tenta di ricostruirne i pezzi ma spesso i cocci rimangono frammenti inutilizzabili, manca sempre qualcosa e non basta Sissi, la sorellina adottiva, e nemmeno zia Rosa con i suoi consigli. Nell’anarchia dei pensieri a lenire turbamenti e demoni interiori, accorre e soccorre la fiaba e con essa l’ammonimento che scorta l’affabulazione: «Il segreto per acquistare il dominio di te stesso lo devi trovare da solo […] Devi imparare a controllare le emozioni, gli slanci d’ira. E quando serve, sopportare il dolore. Il male e il bene sono connessi, come ci mostra la favola del comandante. Non credi che non sia un caso se il popolo decide di convivere con i coccodrilli piuttosto che rinunciare all’acqua e nomina il comandante per regolare la vita del fiume?»
All’ inconsapevolezza interiore si accompagna un girovagare irrequieto per il quartiere Ostiense e lungo il corso del Tevere. Roma, con i crocevia protetti dalle edicole votive, il quartiere Testaccio con l’omonimo ponte e via Marmorata, l’isola Tiberina, Castel Sant’Angelo, il Trastevere con Porta Portese. Yabar descrive attardandosi in minuziose rappresentazioni dei milieux che lo circondano. Si sofferma, indugia, si emoziona per restituire immagini e colori, manifestando una competenza pittorica e riflessiva che si scontra con il carattere del protagonista, sempre turbolento e insofferente alle situazioni pratiche e quotidiane. Il soffermarsi di Ali Farah sul paesaggio romano sembra suggerire la speciale relazione densa di emozioni che con i luoghi della propria crescita umana intrattengono i giovani della seconda generazione. De Certau (2001: 176) ha messo in evidenza come la città, animata da pratiche quotidiane, venga continuamente ricreata e risemantizzata grazie al concetto di spazio. Nel rapporto dialettico tra luogo e spazio, il luogo corrisponde all’immobilità e staticità, mentre «lo spazio è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno. È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo temporalizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di prossimità contrattuali». In modo omologo, rispetto al luogo, lo spazio è «ciò che diviene la parola quando è parlata», nell’imperfezione esecutiva, nella declinazione modale e temporale: «Lo spazio è un luogo praticato», creato e ricreato dal soggetto che compie una semplice azione quotidiana: il camminare.
Muovendosi per la città Yabar se ne appropria, ridisegna il tessuto urbano, traccia una mappa fatta di topoi personali, sovrappone i luoghi di ricordi e significati, ne trasfigura i contorni. Avvicinando il qui e il là, scorge sulle rive del Tevere i coccodrilli, animali esotici di quella favola e di quella Somalia tante volte raccontata e mai esperita. E nel suo peregrinare su sampietrini e vie di antica memoria incontra altri giovani «con le mani nere come le sue», carichi di storie e che sperimentano un altro tipo di rapporto con la città. Libaan, abbandonato dal padre e lontano dalla madre, ha dimenticato come si pronuncia il proprio nome somalo, Ghiorghis il giovane etiope con il nome di San Giorgio, con gli occhi grandi e lucenti come quelli dell’iconografia sacra, ed è Ghiorghis che racconta del «mitico Big Burger di piazzale Flaminio. È lì che si riuniva la mia comitiva, anzi lì si riunivano quasi tutti i giovani stranieri di Roma. Quel piazzale era l’unico luogo che sentivamo nostro, eravamo liberi di dire quello che volevamo, non eravamo costretti a recitare nessuna parte. Smettevamo di essere come ci vedevano gli altri e non eravamo più il bisognoso, il drogato, lo sfigato, il superdotato, l’atletico, il ballerino, non eravamo più neri, eravamo semplicemente noi stessi. I ragazzi della comitiva potevano essere figli di immigrati o di ambasciatori, italiani o stranieri, vivere nelle periferie o nei quartieri residenziali, quello che ci accomunava era l’amore per l’hip hop, che per noi è un linguaggio universale». Ed è nell’aggettivo mitico che si palesa il senso, aggettivo certamente amputabile al linguaggio giovanile ma, che nasconde una sfumatura più profonda: è mitico perchè è spazio rivestito di sacralità, dove le coordinate temporali e spaziali vengono sospese, le gerarchie sociali ed etniche neutralizzate, luogo disinteressato e utopico in cui si possono fondare o creare nuove forme di socialità.
Michel Foucault (1994: 14) ha coniato l’espressione di “eterotopia” per indicare questi spazi particolari dal carattere quasi fiabesco: «Ci sono anche, e ciò probabilmente in ogni cultura come in ogni civiltà, dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili». Del resto, «è nella città che oggi si svolgono quegli incontri, quei meticciamenti, quelle fusioni, che permettono che gli altri, non debbano più essere rappresentati solo ed esclusivamente da noi, o solo ed esclusivamente secondo le nostre onnipotenti categorie scientifiche; è nella città che nascono le rappresentazioni miste dei musicisti, dei romanzieri, dei pittori, degli artisti nostri e loro. La città diviene oggi luogo privilegiato per l’elaborazione individuale e collettiva della cultura: la città intesa come luogo di produzione di simboli, come luogo di incontro e scontro di lingue, di codici, di tecniche, di valori, di norme diverse, di gruppi umani spesso conflittuali e opposti» (Callari Galli 1996: 94), è soprattutto in questi spazi liminali, nelle eterotopie, che diventa possibile osservare al microscopio quei processi di rielaborazione individuale, che i migranti sperimentano con la cultura altra e la città.
Giunti in un nuovo contesto il primo passo è quello di orientarsi in un luogo che non si conosce: l’appropriazione territoriale è tecnica di sopravvivenza e occupare e alterare lo spazio pubblico corrisponde ad un ancorarsi alla realtà, è tentativo di colmare i vuoti tra le distanze costruendo nuove forme di socialità, e così concorrendo alla definizione della identità individuale. «Nei parchi si consumano, infatti, pratiche sociali pregne di significati che permettono di ancorarsi e orientarsi in un contesto estraneo e spesso ostile, di rendere meno distanti il qui e il luogo d’origine, diventando una parte importante nel processo di ridefinizione della propria identità personale e collettiva. Lo spazio pubblico – il parco – diventa un’eterotopia, vissuto, cioè, come un’estensione della “casa”, intesa come lo spazio privato/interno in cui si risiede ma anche come il luogo geografico da cui si proviene. In altre parole, sono i processi simbolici e materiali insieme alle relazioni sociali che si concretizzano nelle pratiche quotidiane e che si consumano nello spazio pubblico a contribuire alla costruzione di un senso di casa in un luogo che è per i migranti ancora ostile ed estraneo» (Brivio, 2013: 40).
Eterotopici sono i luoghi del romanzo, da piazzale Flaminio a villa Borghese, passando per il ponte ferroviario lungo il Tevere, arredato dalle primule e da un pantagruelico affresco di «Tincaaro, la Regina dei giganti», terminando con la casa di zia Rosa rivestita e addobbata da «amuleti, statuette e stoffe africane». Ed è così che Ali Farah racconta di una realtà colorata da etiopi, somali, capoverdiani e italiani che hanno la capacità di trascendere differenze, di tessere relazioni umane, di reiventarsi creativamente, espugnando luoghi di una città che spesso esclude, rielaborando in modo inedito spazi e luoghi, dando risposta a quell’interrogativo, sempre inopportuno e imbarazzante, che è il chiedere «da dove vieni?», affermando, senza disagio o fastidio, quale sia la propria patria elettiva. Una capacità rielaborativa che, del resto, è connaturata alla stessa scrittrice: tra le pagine si insinua Cesare Pavese e La Luna e i falò, ultimo romanzo dello scrittore in cui il protagonista, dopo anni di lontananza dalla propria casa, comprende come il ritorno sia impossibile. Non fortuita presenza ma calcolato ribaltamento: opera di ricreazione letteraria in cui l’esito finale, dato da Pavese, viene sovvertito. Ali Farah dimostra di conoscere la tradizione letteraria, la applica al testo, facendone sostrato e humus, guadagnandosi così il merito di fertilizzare quel novello terreno che è la letteratura di migrazione.
In accordo con la materia favolistica e in consonanza con l’ispirazione di Pavese, il romanzo è gremito di simboli e archetipi: dalla presenza dei coccodrilli, metafora di quel duro cimento che è la costruzione del sé, al fiume Tevere, figura onnipresente nel romanzo allusiva del fluido scorrere degli eventi, che con le sue piene è latore di catastrofi e liti, alla ridondanza dei ponti come passaggi continui in corrispondenza del bisogno di congiungere il qui e l’altrove che ancora si stenta a raggiungere, fino ai collage surreali che spaziano dai disegni chimerici di Sissi, alla realizzazione di un pupazzetto con la testa di Will Smith attaccato al corpo di un guerriero muscoloso colorato da un pennarello marrone, alla fotografia picassiana del padre nascosta gelosamente come il più prezioso dei tesori.
Ubah Cristina Ali Farah racconta una bella favola postmoderna dove il protagonista non è un principe, ma un ragazzo comune alle prese con situazioni non comuni, coadiuvato da personaggi magici come la volontà, il libero arbitrio, la capacità duttile e dinamica propria dei giovani, strumenti con cui può fronteggiare quel drago monolitico che è la diffidenza e la differenza e quella bestia bicefala e feroce che è l’identità, il sapersi fare uomo e donna.
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Riferimenti bibliografici
Ali Farah C., Yabar, ragazzo alla ricerca di sé, intervista a cura di Guido Caldiron, in “Il Manifesto”, 22 novembre 2014
Brivio A., La città che esclude. Immigrazione e appropriazione dello spazio pubblico a Milano, in “Migrazione e asilo politico”, n 15, 2013: 39-62
Callari Galli M., Lo spazio dell’incontro. Percorsi nella complessità, Meltemi, Roma, 1996
Calvino I., Sulla fiaba, Einaudi, Torino, 1988
De Certau M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001
Foucault M., Eterotopie. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 1994
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e le reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.
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