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La pandemia, de Martino e l’inverno del nostro scontento

copertina

Albrecht Duhrer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1497-99

per non ricominciare

di Sergio Todesco

Pare veramente che sia la fine del mondo. In realtà, come sempre, è solo la fine di un mondo. Forse neanche quella…

Oltre mezzo secolo fa Ernesto de Martino ci ha insegnato che la fine del mondo è sempre in realtà soltanto la fine di un mondo. Adesso che con l’arrivo dei vaccini (sorta di nostre magnifiche sorti e progressive) la pandemia (che ci ha tenuti per un anno in una straniante e sognante bolla fatta di paure e solitudini, di spacconerie e silenziosi decessi…) inizierà – ci dicono – a regredire, è forse giunto il momento di interrogarsi sulla natura del mondo che, presumibilmente, dovrebbe finire.

Utilizzo il condizionale, perché non è ancora chiaro se tutti siano disposti ad abbandonare quel mondo e ad aprirsi a quello, indubbiamente più povero e con minori certezze del primo, che ci si potrebbe dipanare innanzi. Pare viceversa affermarsi un orientamento contrario.

Nel corso della pandemia abbiamo infatti assistito a una pluralità di esempi di come una buona fetta di società non si sia mostrata disponibile a predisporsi al mutamento. Si possono qui menzionare svariate tipologie di resistenza alla realtà, di negazione di quanto nel corso dell’anno si veniva svolgendo nell’intero pianeta, di contestazione radicale di quanto i governi cercavano faticosamente di contrapporre all’emergenza sanitaria al fine di attenuarne le cariche letali. Da quelli che in nome della libertà hanno odiato la mascherina e la necessità di indossarla (triste la tua idea di libertà se pensi che una mascherina te la possa togliere…) a quelli che, tout court, novelli Don Ferrante, negavano che una pandemia ci potesse essere, tacciandola come frutto di mitologie costruite a tavolino per consolidare poteri (e intanto si abbandonavano inerti a ben più astruse mitologie su fantascientifici complotti planetari) si è aperto un ventaglio pittoresco di resilienti. Qui, in casa nostra, dal triste generale Pappalardo a Vittorio Sgarbi, a Matteo Salvini il sonno della ragione generatore di mostri ha avuto la possibilità di dispiegare una straordinaria gamma fenomenologica. Una campionatura del genere umano (beninteso, in larga misura occidentale) di grande interesse antropologico in quanto ci consente di gettare uno scandaglio, cauto certamente ma alquanto attendibile, sul futuro che ci aspetta.

A buon diritto Francesco Faeta esprime, più che forti dubbi che una nuova cultura possa affermarsi sulla scorta dell’esperienza pandemica, l’assoluta certezza che il pianeta sia destinato a continuare a declinarsi secondo le regole, le retoriche e le narrazioni stabilite dalla realtà liberal-capitalistica alla cui prassi si adegua la torre di Babele in cui tutti oggi abitiamo.

La nostra è infatti un’epoca nella quale sempre più si è smarrito il senso della libertà, del saper bastare a se stessi. Chi può affermare, oggi, di conoscere quest’ultima dimensione? Nella modernità che ci avvolge come placenta, per una sorta di cieco destino cosmico siamo come condannati a percepire la realtà a noi esterna attraverso il filtro delle narrazioni imposte, delle dipendenze: da oggetti, da pulsioni, da desideri e da paure. Di fatto, siamo tutti, chi più chi meno, ormai resi impermeabili a un rapporto “naturale” con il mondo, incapaci di percepirne l’intima bellezza, le sfumature molteplici, le variegate modulazioni, quelle che ad esempio permettono a un indigeno dell’Amazzonia ma anche (ancora per quanto?) a un pastore dei Nebrodi di esperire, attraverso l’atto percettivo del silenzio e dell’attenzione, forme diverse di conoscenza sulla natura, gli animali e gli uomini che lo circondano.

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Albrecht Duhrer, Melancholia, 1514

Oggi siamo dunque diventati sordi e sostanzialmente indifferenti rispetto alle dimensioni gratuite dell’esistenza, refrattari a dispiegare  il nostro sguardo sui (ahimé ormai numerosi) coni d’ombra della modernità, e, ciò che è peggio, non siamo disposti, non lo siamo più, a conferire un qualche valore a tali dimensioni, a tali angoli oscuri di mondo che tanto turbano la nostre soporifere certezze quotidiane, forse perché per acquistare udito e cuore atti a percepirne l’essenza occorrerebbe esser pronti a sottoporsi a un duro regime, essendo condizione essenziale alla percezione di ciò che è silente – refrattario perturbante diverso – la capacità e la volontà di porre in discussione la propria loquacità, il proprio fatuo chiacchiericcio, i propri rumori.

Com’è noto a molti, negli anni ’20 del secolo scorso Sigmund Freud pubblicò una monografia, Al di là del principio del piacere, in cui, allontanandosi da quella che fino ad allora era stata la sua proposta ermeneutica, egli ipotizzava che accanto al principio del piacere (eros) nell’uomo fosse altrettanto fortemente, e forse ancor più fortemente, radicato un principio di morte (thanatos), una pulsione distruttiva, una “coazione a ripetere” che induceva gli esseri umani a rivivere ossessivamente episodi sgradevoli del proprio passato.

Forse proprio a tale istinto di morte è da ricondurre gran parte degli atteggiamenti che costellano la nostra esistenza quotidiana, fatta di dipendenze che, oltre a renderci schiavi, ci fanno anche infelici, tristi, chiusi agli altri, sostanzialmente incapaci di progettare e costruire “insieme”. L’attuale pandemia ha proprio evidenziato, casomai ce ne fosse bisogno, la persistente sterile autosufficienza del mondo globalizzato, i cui linguaggi hanno da tempo smesso di sillabare discorsi elementarmente umani e rimangono irretiti nella fitta trama delle dipendenze, delle diffidenze, delle ostilità. Parlando di dipendenze, si pensa solitamente a quelle relative alle sostanze stupefacenti; esiste però un altro gruppo – estremamente ampio e variegato – di dipendenze non riconducibili all’uso di droghe.

Cosa manca, a esempio, ai mille e più adolescenti che si cacciano come animali da circo in una trappola da loro chiamata discoteca che ne potrebbe contenere meno della metà, e si stordiscono di musica e pasticche in attesa che il tempo trascorra, plaudendo a un idiota che biascica sconcezze?

In questi ultimi anni sempre più spesso è emerso il problema di nuove dimensioni della dipendenza, di quelle cioè che vengono definite nel mondo anglosassone le “new addictions”. Si tratta – come ognuno potrà osservare direttamente dalla vita quotidiana – di comportamenti non sottoposti a censure di tipo giuridico, e anzi in genere socialmente accettati o tollerati: le dipendenze dal gioco d’azzardo, da internet, dallo shopping, dal lavoro compulsivo, dal sesso e dalle relazioni affettive scomposte, ovvero – come nel caso sopra richiamato della povera folla solitaria da discoteca – di un dérèglement de tous les sens che non possiede più neanche lo spessore della disposizione con cui il Poeta rimbaudiano intendeva raggiungere lo stato di veggenza. Si tratta infatti di realtà che, ricercate o esercitate in modo ossessivo, irrelato, privo di aperture verso valori da condividere e anzi compulsate in maniera solitaria e “avara” (nel senso che Don Milani attribuiva a tale termine), anziché svolgere un ruolo sociale, comunitario, finiscono con l’isolare l’individuo rendendolo schiavo. Ho citato le discoteche perché proprio queste sono state uno dei terreni di scontro che hanno visto cinici imprenditori del’intrattenimento spacciare per battaglie di libertà (sic) la scelta folle di tenerle aperte.

Non è dato acquisito a tutti che gli effetti derivanti da tali dipendenze siano altrettanto se non più devastanti di quelli che provengono dal consumo delle droghe. Si tratta infatti di dipendenze che anziché gratificare rendono “scontenti”, tristi, sostanzialmente incapaci di apprezzare l’esistenza e il mondo in cui si vive e, in termini demartiniani, di esercitare l’ethos del trascendimento della vita nei valori intersoggettivi.

In una lettera dal carcere in cui attendeva la morte che il regime nazista gli avrebbe inflitto, il teologo Dietrich Bonhoeffer scriveva:

«La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i legami, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente si radica, niente mette radici: tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi opere richiedono tempo, stabilità, memoria; altrimenti degenerano».

resistenza-e-resa-871x1024Qualcuno dirà certamente che non è più tempo di pistolotti nostalgici. Che senso ha richiamare le tristi vicende di un martire del XX secolo oggi che otto persone su dieci vivono alla giornata un’esistenza divenuta più “liquida” che mai? Il problema è proprio questo, la radicale scomparsa – nel nostro tempo – della memoria e dell’esperienza. Giorgio Agamben già lo denunciava nel suo Infanzia e Storia (Torino, Einaudi, 1978), ma ancora prima di lui Pier Paolo Pasolini lo aveva civilmente annotato.

Pasolini infatti, con lo spirito profetico che lo abitava, ci raccontò negli anni Sessanta che una mutazione antropologica di portata epocale, l’avvento della società dei consumi e la repentina scomparsa della cultura contadina, avessero per sempre sottratto la gioia alle giornate storiche degli italiani, e proprio in questo consistesse quello che lui chiamava il nuovo fascismo, luttuoso oltremodo come tutti i fascismi sanno essere. Tale cambiamento straziante questo lucido intellettuale volle adombrarcelo con la potente narrazione metaforica della scomparsa delle lucciole. Le lucciole avevano abbandonato i campi, non brillavano più, e i campi rimanevano dunque al buio. La società si scopriva fredda, dura, priva di ideali che non fossero quelli dello sviluppo senza progresso e del consumo illimitato.

Questa narrazione pasoliniana ha nutrito, consolato, indignato, depresso quanti come me hanno vissuto quel trapasso. Forse però – inizio oggi a interrogarmi – il suo terribile fatalismo ha finito col condizionare anche i cuori e le volontà di quanti, come tanti della mia generazione, avrebbero forse potuto e dovuto lottare di più perché la mutazione non fosse irreversibile, perché il buio non si facesse totale.

Un intellettuale dei nostri giorni, altrettanto lucido del nostro Pier Paolo, ci ha consegnato qualche anno fa un messaggio di diversa modulazione. Georges Didi-Huberman (Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2009) si esprime infatti così:

«Sarebbe questa, in conclusione, l’infinita risorsa delle lucciole: il loro ritirarsi, quando è ‘forza diagonale’ e non un ripiegarsi su se stesse; la loro comunità clandestina di ‘scintille di umanità’, quei segnali inviati per intermittenze; la loro essenziale libertà di movimento; la loro facoltà di fare apparire il desiderio come ciò che è indistruttibile per eccellenza. Sta a noi non vedere scomparire le lucciole. Ma per fare ciò dobbiamo acquisire la libertà di movimento, il ritirarsi che non sia ripiegamento su noi stessi, la facoltà di fare apparire scintille di umanità, il desiderio indistruttibile. Noi stessi – in disparte rispetto al regno e alla gloria, nella lacuna aperta fra il passato e il futuro – dobbiamo dunque trasformarci in lucciole e riformare, così, una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi».

2A me, a leggere queste parole, sono venuti i brividi! E ho riflettuto ancora una volta sulla necessità, per tutti noi, di non brancolare nel buio recitando struggenti giaculatorie nostalgiche ma di ricercare piuttosto sintonie, di creare reti, di esser disposti a mettere in comune visioni del mondo seppur non coincidenti ma tuttavia vocate al dialogo. Di non arroccarsi insomma nella miriade di torri d’avorio che ci hanno ridotti a sterili e ridicoli stilìti, sempre intenti a contemplarci l’ombelico e incapaci di scorgere il mondo disperato che ci ruota intorno. Un mondo, a me pare, ancora in cerca di liberazione.

In molti si cerca di intravvedere, a fronte di questa planetaria fine del mondo, il momento propizio per iniziare a costruire – con fatica – la fine di quel mondo cercando di dotarci di sguardi nuovi e di nuove passioni politiche in grado di farci meglio fronteggiare la barbarie che, a guisa di metastasi, pare raggiungere di giorno in giorno tessuti sani della società imbarbarendoli a loro volta.

Occorrerebbe forse che a tale desiderio corrispondesse una forte volontà di aggregazione capace di resistere alle lusinghe delle propagande identitarie, alle tentazioni di rinchiudersi nei propri comodi orticelli, alla pigrizia derivante da una vita comunque comoda (e sfido chiunque non viva ai margini della società a sostenere il contrario). All’incapacità, in sintesi, di costituirsi quali soggetti politici in grado di coltivare ancora forme di utopia.

Non siamo più purtroppo, come ci diceva Didi-Huberman, comunità del desiderio, comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. I nostri desideri non riescono a evadere dal cerchio magico del “particulare”, mentre i nostri bagliori si sono ridotti a quelli degli schermi televisivi o dei monitor dei cellulari dai quali siamo controllati a vista, e i pensieri da trasmettere sono rimasti quelli delle elucubrazioni intellettuali che tanta soddisfazione, tanti brividi ci procurano.

Sulle danze sorvolo, neanche Nietzsche ci soccorre oramai. Chi potrà salvarci? Serge Latouche, Jorge Luis Bergoglio, Lorenzo Milani o un Antonio Gramsci ancora di là da venire?

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021

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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020.

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