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Intellettuali ed etnografia tra impegno e sovversione

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I teatri chiusi, simbolo della stasi della produzione della cultura ai tempi del corona virus

per non ricominciare

di Giovanni Cordova

Nell’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei, Francesco Faeta dava vita a una vivace argomentazione polemica avente come bersaglio le correnti poetiche del ri-inizio, celebrate – prim’ancora di qualsivoglia ratifica fattuale – dal proclama: “Nulla sarà più come prima!”. Faeta esaminava in particolar modo le poetiche e le politiche del nuovo inizio post (forse, con più cautela, meglio dire infra) pandemico connesse alla produzione (e al consumo) della cultura. Teatri e musei sono ormai chiusi da diversi mesi; la filiera economica della produzione culturale langue, e a rimetterci sono gli attori collocati in posizioni di maggior debolezza all’interno di questo circuito: operai, piccoli librai, musicisti e attori non stabilmente contrattualizzati.

Il contributo critico di Faeta si rivolge però al ruolo della cultura (parlare di funzione forse suonerebbe troppo deterministico) del nostro tempo. Nel momento in cui la sua assenza assurge, nel discorso comune, a teorema della sua necessità per la catarsi morale e politica della società, occorrerebbe precisare che questa ‘cultura’ altro non è che erudizione gratificante circolante presso gli strati agiati, i cui momenti della produzione e del consumo altro non fanno che veicolare gerarchie globali del valore su cui ha diffusamente scritto Michael Herzfeld (2004). In questo scenario, il mondo della cultura non solo riflette la struttura economico-politica del capitalismo neoliberale, ma, assumendo una conformazione rigidamente elitaria, marca nuove gerarchie ed esclusioni sociali proprio mentre si riduce a istanza normalizzatrice dell’esistente e del divenire, traguardo distopico che trova realizzazione in molte kermesse dell’egemonia politico-culturale imperante, ben mediatizzate ma ristrette e selettive per auditorio, fruizione, potenziale immaginativo. Scrive Faeta:

«Dunque, che fine fanno le narrazioni e i discorsi scomodi? Restano nel salotto, tra amici. Quando vi era nel Paese una qualche forma di rappresentanza politica del dissenso intellettuale […], da tale salotto si sarebbero potuti trasferire nel circolo culturale, nella sezione del partito, nella cellula sindacale, nel vivo delle contraddizioni territoriali, e lì, persino, fecondare. Oggi no. Oggi, essi restano mugugno […]».

In estrema sintesi, l’autore auspica che il recupero della cultura nel nuovo inizio post-pandemico possa innestarsi su quel «valore maieutico del pensiero critico» che rende la cultura né (solo) erudizione né (solo) consumo nel mare magnum del mercato, ma azione sociale popolare volta al riscatto degli oppressi e alla loro liberazione.

«Insomma proviamo a immaginare una cultura che non ha alcuna erudizione da proporre come modello e come traguardo, che vada a sedersi, permanentemente e non occasionalmente, nello slargo della borgata. Che provi a costruire lì, assieme agli abitanti, un’idea più elevata del vivere, un modello per affrontare la miseria, l’emarginazione, la competizione con altri ancor più poveri e più miseri e con gli oscuri fantasmi che tale competizione scatena. Che provi a costruire insieme la strada per uscire fuori dal ghetto».

In questo senso, le parole di Faeta richiamano le tesi di un altro studioso, Arjun Appadurai, quando assegna alla cultura – da egli declinata tuttavia in un’accezione forse più propriamente antropologica – la capacità di aspirare all’emancipazione nel mondo contemporaneo. Per Appadurai, infatti, questa capacità – socialmente connotata e culturalmente informata – non è equamente distribuita: immaginare, prevedere, aspirare sono tecnologie sociali collettive, da cui possono derivare istanze civiche di riconoscimento e legittimazione, nonché complessi processi di soggettivazione, forieri di riconquistata visibilità politica. Inoltre, «la capacità di aspirare è una capacità culturale, nel senso che trae la propria forza dai sistemi locali di valore, di significato, di comunicazione di dissenso» (Appadurai 2014: 398).

Le argomentazioni di Faeta, volutamente polemiche, non si prefiggono di esplicitare la complessità e la reversibilità di relazioni e posizionamenti culturali (le risemantizzazioni e le rifunzionalizzazioni degli oggetti culturali; così come le imprevedibili appropriazioni di questi nell’ecumene globale anche da parte di gruppi e comunità che ne sono originariamente esclusi). Credo poi che il loro obiettivo non consista nel richiamare postulati francofortesi, bensì rischiarare il rapporto tra cultura, intellettuali, poteri e resistenze; in quanto tali, le suggestioni che dischiude sono molteplici.

Nei prossimi righi vorrei prendere in considerazione l’etnografia antropologica quale peculiare modalità di configurazione della produzione di conoscenza, sapere e cultura che pone più di un dilemma circa lo statuto della ricerca e le sue premesse morali, epistemologiche e politiche.

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Sir Edward Evan Evans-Pritchard, tra gli etnologi simbolo dell’antropologia coloniale

Decolonizzare gli sguardi

I manuali di storia dell’antropologia ricordano come tra il XIX e il XX secolo una nuova generazione di etnografi abbandonò definitivamente il comparativismo teorico con cui era nata la disciplina e che prediligeva le generalizzazioni astratte, in favore ora dell’attenzione a contesti particolari (Fabietti 2011). Tale mutamento pose le basi per l’affermazione dell’etnografia come momento chiave e imprescindibile della produzione della conoscenza antropologica: la ricerca sul campo – l’“essere stati là” della celebre espressione geertziana [1] – divenne fonte di legittimazione per l’antropologo che avrebbe parlato in vece di altri, impiegando la sua voce in sostituzione di quella degli attori locali, che spesso nemmeno conoscevano la lingua del ricercatore. L’etnografia, almeno quella classica, prende forma a partire da quel dislivello discorsivo secondo il quale l’altro è sempre un soggetto che non scrive, immerso nell’oralità; l’antropologo è invece colui che scrive e può tradurre l’orale in una descrizione culturale sintetica quale, appunto, l’etnografia (Fabietti, Matera 1997).

Ebbene, fare etnografia oggi è profondamente diverso. Non disponendo dello spazio necessario a ricostruire un quadro sinottico della storia dell’etnografia, mi limito a rievocare succintamente come le travagliate svolte che hanno attraversato l’antropologia a partire almeno dall’ultimo quarto dello scorso secolo hanno contribuito a disvelare la dissimulazione, propria dell’antropologia classica, delle strategie retoriche della scrittura etnografica e delle relazioni di potere – coloniale o post-coloniale – in cui prende forma il setting della ricerca.

Il gruppo di studiose e studiosi riuniti nell’ormai celebre seminario di Santa Fe, e dai quali prenderà forma il volume edito da James Clifford e George Marcus, Writing Cultures (1986), sottoporrà a radicale e implacabile decostruzione le monografie etnografiche classiche; verrà così messa in discussione l’autorità dell’antropologo a prendere la parola in luogo del ‘nativo’. Si incrina, dunque, il mito dell’oggettività etnografica, fondata sulla pretesa che l’antropologo possa, a partire dalle sue fonti, accedere a un livello oggettivo di conoscenza. Verrà denunciato il potere e il possesso unilaterale della scrittura da parte dell’etnologo; il suo prendere la parola al posto dell’altro si accompagna peraltro a un particolare stile rappresentativo ed espressivo, definito ‘realismo etnografico’ per le sue affinità col realismo letterario.

Conseguentemente, a partire dagli anni Ottanta del Novecento le etnografie diverranno palesemente dialogiche, e la comprensione del significato verrà intesa come il frutto di una costruzione intersoggettiva. È la stessa produzione del senso – la cultura – a risultare negoziata. Per questo motivo Clifford considera le etnografie alla stregua di finzioni culturali veritiere o, in altri termini, di verità parziali, dal momento che esse si basano su silenzi, omissioni – non solo dello studioso ma anche dell’Altro, dell’informatore, della fonte – e su strategie della traduzione del significato (uso di particolari figure espressive e retoriche) che ne comportano la selezione, la parzialità. Inoltre, l’insieme dei significati ri-costruiti dall’etnografia non può che costituire un’interpretazione temporanea, non definitiva. L’indesiderato correlato di questa consapevolezza corrisponde a ciò che Clifford Geertz (1988) avrebbe definito in termini di “ipocondria epistemologica”: una perdita di fiducia nella possibilità di scolpire il presente e di poter essere ‘autorizzati’, essere cioè autori di una rappresentazione scientifica che, sul modello delle scienze naturali, miri ad una mimesis etnografica.

dm-3Questo radicale riorientamento epistemologico e metodologico va addebitato certamente a una serie di concause storiche, prime fra tutte la decolonizzazione e la presa di parola di coloro che erano stati colonizzati. Lo sguardo europeo su un’alterità ricercata e incontrata, non senza alcune inquietanti complicità con le politiche d’epoca coloniale, subisce, a partire dalla metà del XX secolo, un pesante ribaltamento: l’Occidente non è più il solo produttore della conoscenza antropologica (Clifford 1988). L’etnografia si fa generalizzata ed emerge una sbalorditiva diversità di idiomi da cui scaturisce un’eteroglossia globale (Bakhtin 1953). I popoli colonizzati reclameranno il diritto ad autorappresentarsi, e gli studi post-coloniali incarnano proprio questa dislocazione insieme discorsiva e politica.

Il portato politico di questa svolta è contenuta, implicitamente, nella sempre maggiore presenza e presa di parola dell’altro nell’etnografia antropologica. Nella stagione dello ‘sperimentalismo etnografico’ si affermeranno tecniche e strategie del lavoro sul campo, nonché della sua testualizzazione, miranti ad adattare la produzione del sapere etno-antropologico alla mutata sensibilità scientifica. L’etnografia assume una configurazione dialogica; agli informatori viene attribuita per la prima volta un’identità; l’idiografico prevale sul nomotetico; le storie di vita – tecnica e fonte mutuata dalla storia orale – divengono miniere di conoscenze altrimenti inaccessibili; le reti di significato di cui la cultura è impregnata vengono svelate nel rapporto di collaborazione tra studioso e nativi. Esplode, in poche parole, il binomio ossimorico individuato da Malinowski come paradigma metodologico dell’antropologia: l’osservazione partecipante, a tutti gli effetti una contraddizione in termini dal momento che tenta di conciliare il ruolo e la partecipazione soggettiva del ricercatore con l’empirismo oggettivista di matrice positivista (Pavanello 2009).

Il mutamento cui l’antropologia è andata incontro è dipeso senz’altro dalla centralità che nella ricerca sul campo l’‘altro’ occupa nella produzione del sapere. Come scrive Kilani,

«la conoscenza antropologica è un lavoro di mediazione con la distanza e la differenza, lavoro che comincia già sul campo. In altri termini, il campo si definisce subito ed essenzialmente come un lavoro simbolico di costruzione di senso, nel quadro di una interazione discorsiva, di una negoziazione di punti di vista fra l’antropologo e i suoi informatori» (1997: 52, citato in Pavanello 2009: 59).

La produzione della conoscenza dell’antropologo (livello analiticamente ben diverso da quello della fruizione di tale sapere, la cui diffusione e circolazione può – come spesso accade – limitarsi a una cerchia ristretta di intellettuali ed esperti) si fa dunque con l’Altro, da cui non può in alcun modo prescindere. Attenzione, però. Siamo in presenza di un movimento che interessa forse più da vicino l’antropologia e la pratica etnografica per via della loro costituzione epistemica e metodologica, ma che affetta in egual misura il campo dell’impegno e della produzione intellettuale.

L’intellettuale gramsciano, organico alle classi subalterne, non è più il solo (se mai lo è stato) nell’imprimere la direzione del conflitto sociale. Nei movimenti e negli attivismi di varia matrice, egli è oggi affiancato da altre persone che gestiscono ruoli nella comunicazione e dunque nella rappresentazione politica e culturale che un gruppo – o un campo – sociale dà di sé all’esterno. La democratizzazione dell’autorità intellettuale all’opera nell’antropologia e nell’etnografia partecipa pertanto di un movimento diffuso in tanti altri ambiti della conoscenza e della vita sociale.

In altri termini, l’etnografia può presentarsi come un’articolazione democratica di scienza e conoscenza che, mi rendo conto, potrebbe però pericolosamente aprire la porta al sostegno di populismi demologico-culturali, tendenti alla valorizzazione – direi meglio, mitizzazione – di ciò che il popolo dice e fa (Dei 2020) e, con ciò, a un’ingannevole circolarità tra retoriche, discorsi, teoria (Sanò 2018). E tuttavia, riflettere sull’intimità che l’antropologo sul campo consegue nelle relazioni con gli attori sociali coi quali costruisce la ricerca appare centrale, non solo ai fini del ragionamento sviluppato in questo contributo, ma perché questa condizione partecipa della stessa definizione del setting etnografico.

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Manifestazione per chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni

Intimità e coinvolgimento

Secondo Clifford Geertz, la densità della descrizione antropologica è data dall’abilità del ricercatore di cogliere la complessa stratificazione dei processi di semiosi che rendono la cultura un documento agìto. Leggere la contrazione di una palpebra come un tic, un ammiccamento o una parodia di quest’ultimo – esattamente come prendere per una spia di berberi ribelli un ebreo degli altipiani del Marocco centrale di inizio Novecento, la cui vicenda aneddotica viene riportata da Geertz nel suo Interpretazione di Culture (1998) – definisce il lavoro ermeneutico dell’antropologo che, nell’etnografia, prova a farsi strada in una selva di inferenze e implicazioni sovrapposte da cui si diramano gerarchie di significati.

Per realizzare questa impresa l’antropologo non può non situarsi, nel lavoro di ricerca che compie sul campo, in una posizione il più possibile di intimità rispetto al contesto e agli attori sociali che lo attorniano. Cogliere la compattezza fenomenologica dei mondi degli altri (e anche dei nostri) richiede accortezza, sensibilità, lucidità.

Intimità può significare anche vedere ciò di cui non si vorrebbe essere testimoni: un rito cruento; un segreto che, condiviso, altera inevitabilmente i rapporti nel setting della ricerca; un comportamento moralmente riprovevole per l’etnologo messo in atto da un suo informatore; atti di vera e propria violenza. Così, quando durante una conferenza a inizio anni Novanta venne chiesto conto a Clifford Geertz del silenzio che aveva mantenuto rispetto alle violazioni dei diritti umani e alle violenze che si andavano compiendo in Indonesia durante gli anni del suo fieldwork, l’antropologo statunitense rispose che non aveva voluto impegnarsi in azioni di testimonianza o di denuncia per timore di una possibile distrazione dalla complessa speculazione teorica nella quale era impegnato (Beneduce 2008). L’intimità è una condizione – e una categoria, su cui ancora ha riflettuto Herzfeld (2003) – che credo possa essere ritrovata all’opera nella tragica vicenda che ha coinvolto Giulio Regeni.  

La tortura e l’assassinio di Giulio Regeni hanno inevitabilmente alterato prassi e modalità che presiedono all’allestimento di soggiorni di ricerca e all’organizzazione del lavoro sul campo. Ciò è vero soprattutto per quelle discipline che, come l’antropologia, costruiscono saperi e conoscenza entro un movimento di negoziazione permanente dei significati (Kilani 1997). Fare etnografia equivale a respingere un’eccessiva ipostatizzazione dei livelli di ‘soggetto’ e ‘oggetto’ della ricerca, senza per questo confidare ingenuamente in un annullamento dei dislivelli di potere e autorità che marcano le relazioni sociali, anche quelle prodotte dal e nel setting etnografico.

In una delle ultime testimonianze disponibili di Giulio Regeni prima che questi venisse rapito e torturato dai servizi segreti egiziani, il ricercatore friulano è impegnato in un’animata discussione con il rappresentante sindacale degli ambulanti del Cairo, Mohamed Abdallah, informatore di Regeni ma soprattutto dei servizi di sicurezza cairoti. Durante lo scambio, Regeni offre, suo malgrado, una lezione sulla trasparenza e la sincerità che dovrebbero animare il lavoro sul campo. Resiste alle pressanti richieste d’aiuto del sindacalista, il quale chiede con insistenza che almeno una parte dei soldi della Fondazione Antipode, istituto britannico pronto a finanziare per dieci mila sterline progetti a forte impatto sociale, finisca nelle sue tasche, per poter fronteggiare presunti problemi familiari. Il resto della storia è noto: quelle richieste sono un’esca per provare che Regeni intenda sostenere – anche finanziariamente – la causa politica dei lavoratori ambulanti.

«Non ho nessuna autorità. Io sono solamente uno straniero in Egitto. Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca-progetto. Io, Giulio, il mio interesse è questo. E mi interessa che voi come venditori ambulanti fruiate del denaro in modo ufficiale, come previsto dal progetto e dai britannici. Questo è l’importante per me».   

L’estratto completo della conversazione tra Regeni e Abdallah (https://www.agi.it/estero/in_un_video_lultimo_colloquio_di_regeni_con_abdallah-1400580/news/2017-01-23/) mi ha spinto a formulare alcune considerazioni. Le prime, ovviamente, di natura biografica ed esperienziale. La ricerca etnografica spinge ogni ricercatore a stabilire una relazione con le persone di cui ambisce a delineare mondi e spazi di vita, per quanto caduca possa essere l’opera. Se, come tante volte avviene, questa relazione attraversa ampi differenziali di potere, è più facile che la ricerca e la produzione della conoscenza subiscano distorsioni, suscitino reazioni e appropriazioni, generino risposte, attese e conseguenze non volute. In alcuni casi, corollario del lavoro di ricerca può essere il supporto a categorie vulnerabili, la cui espressione tangibile si spinge spesso ben oltre la sottrazione di soggetti e comunità posti ai margini della società dall’afasia cui sono abitualmente relegati dai rapporti di potere, generando advocacy politico-sindacale; impegno personale (del ricercatore) in reti di mutualismo; sostegno materiale o giuridico a persone in difficoltà.

Fare ricerca in alcuni contesti genera aspettative. Lo stesso ricercatore, per quanto accurato nella sua opera di creazione di una finzione di comunità (Geertz 1988) e nonostante la condizione economica tutt’altro che prospera o stabile che contrassegna la ricerca (perlomeno italiana) contemporanea, viene investito di un’alterità che, per quanto smussata dalla qualità di edificare intimità, richiama la grammatica del dono. Fare ricerca sul campo richiede l’accettazione del contesto nel quale ci si immerge: la fortuna (o la sfortuna) dell’impresa di ricerca è strettamente dipendente dagli esiti dell’accessibilità al campo. Laddove il portato di asimmetrie storiche e politiche, quasi sempre infarcite di eredità post-coloniali, è particolarmente evidente, l’antropologo deve stare molto attento a soppesare il suo grado di intervento con le aspettative generate nelle comunità da cui transita, facendo attenzione affinché la miscela non diventi mai esplosiva. Aspettative nutrite da scenari di ritorno economico, certo, ma anche politico – di investimento in carriere morali o di legittimazione agli occhi delle cerchie sociali di prossimità, e gli esempi di questo uso strumentale dell’etnografo non mancano nella storia della pratica antropologica.

Per questo non è biasimabile che alcune ricerche etnografiche, svolte in spazi/tempi tumultuosi e attraversati da frizioni complicate da controllare, prendano le mosse da una introduzione al campo mediata da reti fiduciarie di protezione, in modo che qualora gli imprevedibili tornanti subiti dalla ricerca possano inficiare l’integrità morale o financo fisica del ricercatore, una minima struttura di preservazione possa pur sempre essere attivata. Alcune volte, però, le ambiguità e le sovrainterpretazioni giungono a un livello tale da essere incontrollabili, in quanto si caricano di significati politici rispetto alla cui determinazione il ricercatore non è affatto responsabile.

Così, Giulio Regeni, intellettuale occidentale interessato ad approfondire il tema delle organizzazioni sindacali – e in particolare di una categoria, l’ambulantato – senza disdegnare un risvolto emancipatore e trasformativo della sua ricerca, ha finito per alimentare la trama di relazioni sociali incistate di sospetto, delazioni e gratificazioni tossiche che costituiscono l’ossatura delle strutture di esercizio del controllo e del potere in vari contesti oppressivi, come per l’appunto quello egiziano.

In cambio della partecipazione alla ricerca, Abdallah prova a calcolare i margini di guadagno personale, senonché questa ricerca di massimizzazione si inserisce in una torbida relazione con l’apparato securitario egiziano, cui Regeni viene ‘venduto’ perché adamantino nell’enucleare le ragioni della sua presenza in Egitto e, con ciò, nel rifiutare commistioni opache tra benefici pubblici della ricerca e opportunità private, cui ambiva il suo informatore.

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I movimenti sociali, come quello greco schieratosi contro le politiche europee di austerity, costituiscono uno dei terreni d’indagine dell’antropologia contemporanea

Missione dell’etnografia

Negli ultimi mesi, col procedere delle indagini e della contesa politico-giudiziaria tra Italia ed Egitto, tante sono state le occasioni di riflessione – oltre le iniziative di solidarietà e pretesa di verità e giustizia – suscitate da questa tragica e torbida storia.  Giulio Regeni doveva morire? Questo era il suo destino, inscritto nella missione salvifica della ricerca sul campo e della produzione intellettuale? Non credo Regeni volesse fare propria un’etica del sacrificio, come dimostra la sua postura saggiamente prudente rispetto al bilanciamento degli equilibri interni al lavoro di terreno. Trasformare la morte in fattore di testimonianza – e dunque politico – presuppone un principio di individualizzazione che non può prescindere se non proprio dall’esercizio di agentività, quanto meno da una pur velato accenno di consapevolezza.

Al tempo stesso fare etnografia è un atto di per sé sovversivo, indipendentemente dai temi e dai posizionamenti prescelti, e almeno per due ragioni. Da una parte, il disvelamento dello iato tra retoriche e pratiche, nell’atto di secernere «simboli, immagini, pratiche e poetiche che, […] muovendosi nel e agendo dal sottosuolo delle rappresentazioni, indirizzano i piani discorsivi e informano l’agency degli attori sociali» (Sanò 2018: 27). Dall’altra, la pratica antropologica assurge facilmente – e senza disporre in questa sede dello spazio per enucleare differenze possibili tra le varie configurazioni che l’etnografia assume secondo i diversi orientamenti disciplinari –   a critica culturale in quanto endoscopia degli imponderabili della vita sociale (Marcus, Fisher 1998), tendendo così a de-oggettivare il reale e lasciare intravedere possibili sentieri morali e collettivi alternativi, percorso che nell’antropologia italiana, noto en passant, si è fatto esplicito già da Ernesto de Martino.

Per farlo al meglio, e pur intravedendo i rischi apologetici e auto-compiacenti di una dark anthropology (Simonicca 2017), fare ricerca con l’altro/a significa percorrerne insieme gli itinerari; condividerne storie, speranze e paure; incrociarne i posizionamenti politici e gli interstizi sociali di oppressione, dominio e subalternità. Sovrapporsi – sebbene temporaneamente – alle vite degli altri comporta assumersi, anche solo in minima parte, le distonie e le aritmie della quotidianità nel suo farsi, con il suo stratificato essudato di dolore personale e sofferenza sociale – così come di imprevedibili gioie, acquisizioni progressive, trasformazioni emancipatrici. Certo non ogni etnografia comporta eguali assunzioni di rischio, e certamente il potere può essere esplorato anche dalla parte dei dominanti, dalla parte cioè di chi codifica e predispone testi, strategie e microfisiche del controllo. Inoltre, fare ricerca dalla parte dei subalterni non autorizza facili afflati mimetici, dal momento che non annulla la distanza negli status politici e sociali spesso marcatamente divergenti tra ricercatori e ricercati, sebbene negli ultimi anni non siano mancate occasioni in cui i primi hanno dovuto fronteggiare gli apparati repressivi delle istituzioni dello Stato come tributo all’attraversamento di contesti di lotta politica.

Se forse non tutta l’etnografia – compresa quella ‘critica’ – deve necessariamente essere militante (Koensler, Rossi, Boni 2020), determinandosi in senso immanente rispetto a prassi e strategie di movimenti e lotte che accompagna, difficilmente può però essere disimpegnata, né nelle sue premesse né nel suo farsi concreto, a meno di non assegnare all’alterità l’irriducibile ruolo di feticcio museale. 

L’impegno nell’etnografia – tema estremamente ampio e dalle plurime sfaccettature di cui in queste pagine non si è presentato altro che una breve e preliminare riflessione – non rappresenta un unicum nella storia della cultura e della militanza intellettuale. Quel che è diverso è forse lo scarto tra le posture degli intellettuali di ieri e di oggi, vale a dire una certa coincidenza, talvolta più marcata, talaltra più approssimativa, tra habitus e destini delle soggettività coinvolte nell’agone della ricerca. Fare ricerca ai nostri giorni, tanto più se nell’ambito delle scienze umane e sociali, significa fare ricerca in tempi di un’accademia inglobata nell’orizzonte del neoliberismo, cui negli anni si è progressivamente piegata introiettando nelle sue pratiche scientifiche e organizzative linguaggi aziendali, obiettivi di misurabili efficienza e produttività, procedure calcolatrici e rendicontative.

Una proporzione crescente di giovani e meno giovani ricercatori studia percorsi di mobilitazione migrante, di lotta per la casa e per i beni comuni, di difesa dei territori – solo per citarne alcuni – stabilendo relazioni di condivisione con le pratiche e gli esiti di quei sentieri di emancipazione. Questa connessione, credo, risiede in parte in una coincidenza esistenziale maturata nello spazio/tempo della ristrutturazione neoliberale del capitale. Lungi dall’essere una chiave esplicativa funzionalista o deterministica, la (ri)scoperta da parte dei ricercatori di una matrice politica attiva nel limitare opportunità di felicità personale e benessere collettivo tanto nelle proprie storie di vita quanto nelle sorti di coloro cui si consacra la ricerca, non è salutata come una semplice coincidenza: essa matura in una rinnovata consapevolezza delle necessità della riproduzione sociale nel suo farsi, chiamando a resistenze contro-egemoniche trasversali capaci di generare nuovi mondi possibili.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] «L’abilità degli etnografi nell’indurci a prendere sul serio ciò che dicono ha meno a che fare con il suo aspetto fattuale [...] che con la loro capacità di convincerci del fatto che essi, gli etnografi, sono penetrati davvero in [...] un’altra forma di vita, e che davvero sono “stati là”» (Geertz 1988: 12).
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.

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