Nel terzo libro dell’epica indiana, un potente spirito domanda al più anziano e saggio del Pandava quale sia il più grande dei misteri. Il saggio risponde: «Ogni giorno muoiono innumerevoli persone, eppure quelle che rimangono vivono come se fossero immortali». Un po’ come oggi, nel tempo della pandemia. Ma è stato ed è sempre così. Nonostante il tempo sia dolore, perché nel suo fluire entropico porta distruzione e morte, molti uomini perversi, ossessionati dalla bramosia e dal potere non perdono occasione per trasformare il tempo di vita dei loro simili in tempo di orrore. Il passato, tuttavia, non si cancella, resta nella nostra memoria e ci accompagna come nostalgia o amaro ricordo.
Ed è la memoria collettiva che indaga Maria Immacolata Macioti, nel suo ultimo libro Libertà e oppressione. Storie di donne del XX secolo (Guida editore, 2020), attraverso storie di donne che hanno avuto la sventura di dovere vivere sotto regimi di oppressione che hanno trasformato la loro vita in un incubo fatto di violenze di ogni genere. Infatti, come avverte l’autrice, si tratta di profili biobibliografici, in cui le autrici danno conto, con i loro scritti, dei tragici avvenimenti del Novecento, di cui sono state testimoni e vittime. Un lavoro a lei congeniale, essendosi occupata, per alcuni anni della sua vita, di raccolta di storie di vita e materiali autobiografici, proprio per la valenza che essi hanno per la conoscenza dell’esperienza personale e collettiva.
Il XX secolo, il cosiddetto ‘secolo breve’ di Eric J. Hobsbawm, così chiamato per l’accelerazione impressa agli eventi della storia e anche alle trasformazioni della vita, è stato caratterizzato da due guerre mondiali e da terribili dittature. Maria Immacolata Macioti coglie un nesso tra il colonialismo che l’Europa ha esportato nel mondo tra l’Ottocento e il Novecento e i tragici eventi delle dittature e delle guerre. Infatti, l’Europa, con la scusa di esportare la sua civiltà e il progresso scientifico, in verità ha operato uno sfruttamento di quei territori colonizzati, senza alcun rispetto delle culture radicate, imponendo a quei popoli il cambiamento dei loro usi e costumi con gravi violenze.
Certo, il colonialismo ha portato anche la scolarizzazione e questa ha fatto crescere la consapevolezza dei colonizzati e anche il dissenso che spesso si trasforma in rivolta, ma a che prezzo? L’autrice non può non ricordare Simone Weil e la dura critica da lei fatta al colonialismo e alla barbarie del nazismo e che l’hanno portata a un giudizio duro sui partiti politici, affermandone la loro tendenza autoritaria fino a chiederne la soppressione. Non può mancare neanche il riferimento ad Hannah Arendt, una delle maggiori studiose del totalitarismo, che cerca di capire razionalmente come siano potute accadere le atrocità del nazismo. Né poteva mancare il riferimento alla scuola di Francoforte (Adorno, Horkeimer) e al suo contributo sull’autoritarismo, da cui prende lo spunto per parlare del totalitarismo, non solo nazista ma anche in riferimento alla stalinismo. Ma lo sguardo si amplia anche verso le dittature della seconda metà del Novecento, come la dittatura militare in Argentina del 1976, con la violazione di tutti i diritti umani, la vicenda dei desaparecidos, dei rapimenti, delle torture e delitti, le madri di Plaza de Mayo, che vanno alla ricerca dei loro figli e dei nipoti.
Sulle dittature, sull’autoritarismo, sappiamo tante cose dagli storici, dai giornalisti, dagli psicologi, in particolare dagli psicoanalisti, e anche dagli oppositori, soprattutto uomini. La particolarità del lavoro di Maria Immacolata Macioti è che sceglie di riportare alla memoria il protagonismo delle donne, i loro vissuti e gli orrori subiti dalle dittature e dai totalitarismi. Donne di diverse culture e diversi contesti, impegnate nel costruire un mondo più giusto e più eguale anche nel rapporto uomo-donna. Da una parte, donne che sono nate e vissute in ambienti favorevoli e hanno avuto la possibilità di studiare, leggere e riflettere sulla condizione umana e sociale. Dall’altra, donne nate e vissute in contesti familiari e ambientali tradizionali.
Sono algerine le prime due donne di cui narra l’autrice, Djanila Bouhired e Assia Djebar, nel contesto del colonialismo perpetrato sull’altra sponda del Mediterraneo, in particolare l’Algeria, i cui colonizzatori sono stati i francesi. La prima è stata una dura combattente contro la Francia. Nel noto film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri, è una delle tre donne del Fronte Nazionale della Liberazione dell’Algeria, che mettono le bombe e per le quali viene condannata a morte e poi graziata dal presidente René Coty. La seconda narra nei suoi scritti la sofferenza e la brutalità del colonialismo. C’è poi una terza donna, Germaine Tillion, etnologa francese, impegnata, insieme alla madre, contro il nazismo, che soccorre ebrei in difficoltà, dando loro anche documenti.
La Macioti, a tal proposito, evidenzia l’importanza che ha lo studio per la maturazione di una coscienza critica. La Tillion ha potuto studiare con professori come Marcel Mauss, considerato una sorta di padre delle scienze antropologiche ed etnologiche, sulla scia di Émile Durhkeim, e ha maturato la convinzione dell’importanza della difesa dei diritti umani. Internata in un campo, tutto il suo lavoro è andato perduto. Uscita dalla detenzione, favorita dall’osservazione partecipante di una dolorosa esperienza vissuta in prima persona, con impegno costante ha potuto ricostruire gli avvenimenti vissuti. Germaine Tillion, a tal proposito, ha scritto: «Ho deciso di non occuparmi più di etnologia ma di concentrare tutti i miei sforzi a comprendere come mai un popolo europeo più educato del mio abbia potuto scivolare in una tale demenza». Contrariamente a Petain, Germain ha fatto la Resistenza contro i nazisti che hanno occupato Parigi. Tradita da un prete, finirà nel campo di Rovensbrûck.
Macioti, dopo avere messo in luce che l’ingresso nel mondo del lavoro ha determinato una svolta per le donne, mentre prima dipendevano dal marito o da un fratello per qualsiasi bisogno, si pone il problema della nascita della consapevolezza e della coscienza critica all’interno di una famiglia tradizionale o di una famiglia illuminata. Al primo contesto familiare appartiene Margarete Buber Neumann, scrittrice e giornalista tedesca, attivista comunista, che è stata imprigionata sia in un gulag, in Siberia dove muore il suo secondo marito Heinz Neumann, sia in un lager.
Margarete è stata educata in una famiglia di ceto medio borghese che vorrebbe vederla nel ruolo tradizionale di moglie e madre e, invece, insieme alle sue sorelle, sono diventate tutte socialiste convinte e si muovono con scelte in contrapposizione agli insegnamenti dei genitori e cercano ogni pretesto per abbandonare la casa paterna. Ciò significa che si possono maturare scelte democratiche sia quando si cresce in un contesto familiare aperto e democratico, sia quando si cresce in una famiglia di tipo tradizionale. Arriva in Russia con tante speranze ma ha visto la sua vita complicarsi sempre più fino all’arresto di Heinz, accusato di trotskismo. Entrambi, comunisti convinti, vivono un incubo, che avrà un finale tragico con l’uccisione del marito e l’internamento di lei in un gulag siberiano, prima di essere consegnata in un campo nazista, quello di Rowenbrüsk.
Anche la scrittrice olandese ebrea Esther Hillesum, detta Etty, è nata in una famiglia borghese e ha avuto sempre difficili rapporti con sua madre. Si è laureata in giurisprudenza, e ha acquisito una vasta cultura filosofica e letteraria, parlava, oltre l’ebraico, il francese, il russo e il tedesco e si è anche interessata alla psicologia analitica Junghiana. La Hillesum ha quindici anni più di Anna Frank, il cui diario è stato pubblicato dal padre, unico sopravvissuto della famiglia Frank, nel 1947. Anche Hetty ha tenuto un diario tra il 1941 e il 1943 che, nel 1981, sarà pubblicato prima in Olanda e poi in altre lingue e ci offre una dimensione e una visione culturale ampia e aperta all’universale. Nonostante abbia visto la condizione della propria famiglia e quella di tanti altri ebrei diventare sempre più difficili, non cederà mai all’odio verso i tedeschi ma farà sempre delle scelte altamente morali e finirà deportata con la sua famiglia nel campo di Auschwitz, dove morirà il 7 settembre del 1943.
Shirin Ebadi, contrariamente a Margarete Buber Neumann, è cresciuta in una famiglia liberale, il padre professore universitario era convinto che non dovevano studiare soltanto i figli maschi ma anche le figlie. Anche per lei gli studi si rivelano di grande importanza. Diventa avvocato e giudice, presidente di una sezione del tribunale di Teheran, lotta contro l’intolleranza religiosa e contro il clima intimidatorio in Iran. Obbligata a rinunciare al suo ruolo di giudice, non rinuncia a difendere le donne. Esercita il suo dissenso e lotta per la libertà di pensiero. È stata condannata alla sospensione e all’interdizione della professione di avvocata. Nel 2003 ottiene il premio Nobel per la pace e in Italia, nel 2007, il premio internazionale della fondazione “Vittorino Colombo”. Nel novembre 2009 la polizia di Teheran ha fatto irruzione nel suo appartamento picchiando il marito e sequestrando il premio Nobel per la pace conferitole nel 2003, mentre si trovava a Londra, dove ancora risiede, in una sorta di esilio autoimposto per sfuggire a un mandato d’arresto per l’accusa di evasione fiscale. Una chiara invenzione del regime, perché i premi non sono soggetti a tassazione in Iran.
Il libro della Macioti è una denuncia contro le dittature odierne con feedback sul nazismo e sullo stalinismo con la documentazione degli orrori perpetrati nelle prigioni, dove può avvenire di tutto, come violenze di ogni genere, torture e stupri. Leggere i racconti di alcune delle protagoniste e le punizioni e violenze subite procura brividi e fa accapponare la pelle. Un’esperienza difficile da vivere, come è avvenuta anche più recentemente nella guerra dei Balcani. Un libro molto utile in tempi molto minacciosi, in cui si avverte una recrudescenza di pulsioni populiste, nazionaliste, razziste e autoritarie, di cui l’ultimo esempio è stato Trump e l’assalto a Capitol Hill.
L’autrice annota tuttavia che nelle esperienze di sofferenza, di privazione della libertà, di violenze e orrori, nascono anche stati d’animo di attenzione e di solidarietà agli altri, come è avvenuto per le donne di cui abbiamo parlato, come Margarete che salva la Tillion nascondendola nel suo letto, mettendo a rischio la propria vita. Oltre che dalla Margarete Neumann, anche dalle memorie di Germain Tillion, ricaviamo tante notizie degli orrori dei campi. Eppure, tutte queste donne non si lasciano sopraffare dall’odio ma cercano di studiare, di capire e di fare comprendere cosa sia stata questa loro esperienza.
Maria I. Macioti affronta l’esperienza terribile delle dittature e dei totalitarismi, attraverso la vita dei suoi personaggi femminili anche dal punto di vista del tema sociologico dei viaggi e dell’esperienza dei mutamenti che possono indurre. Vi sono viaggi di fuga e viaggi di speranza, di andata verso mete di dolore e di ritorno a una desiderata normalità. Viaggi di piacere e di cultura per conoscere il mondo e viaggi per migrare da dittature, guerre e fame nel proprio Paese e trovare nuove opportunità di vita in un nuovo continente, come ad esempio durante il genocidio armeno dove chi può lascia l’Anatolia e le terre turche per andare in Francia e in Italia. Ma alcuni si spostano ancora più lontani, in Russia o verso le Americhe.
Hannah Arendt, ad esempio, era in Germania durante il nazismo e poi decise di lasciare la Germania e Heiddeger prima per la Francia e poi con lungimiranza per gli Stati Uniti. Ai viaggi di ricerca e di studio si iscrive quello di Germaine Tillion tra le popolazioni algerine. E poi ci sono i viaggi all’inferno come quelli nei gulag russi o nei lager hitleriani a cui fu costretta Margarete Buber Neumann cui seguì un viaggio di ritorno e di speranza verso la libertà e la sicurezza di una vita normale, attraverso peripezie varie tra l’arrivo dei russi da una parte e gli americani dall’altra, tra fatica, fame, incontri fortuiti e finalmente la gioia della libertà, del ritrovare la casa dei nonni e incontrare sua sorella e la madre. E poi c’è il viaggio senza ritorno come quello di Hetty Hillesum verso Auschwitz, dove morirà. E ancora Shirin Ebadi, che vive a Londra, tra riconoscimenti a livello internazionale per il suo impegno sociale, sui diritti umani e sulla pace, ma impossibilitata a rientrare in Iran. Lei scrive all’estero per evitare che scenda una cortina di silenzio sul dissenso.
Un altro tema affrontato da parte dell’autrice è quello della scrittura. Se la Tillion è una docente universitaria e la scrittura è il suo mestiere e da lei riceviamo una ricostruzione degli orrori dei lager nazisti, Margarete Neumann non si sente una intellettuale e non vuole scrivere. Ma durante la detenzione è cambiata, ha incontrato Milena che la convince a scrivere e una volta ritornata a casa da sua madre, si sente in debito con Milena e con il suo compagno Heinz Neumann morto nel gulag in Siberia. La scrittura, oltre a tenere viva la memoria collettiva, ha anche un effetto catartico. Anche per la Hillesum, la scrittura, pur se lei non l’ha potuta vedere, ha avuto gli stessi effetti del passato presentificato, come del resto il diario di Anna Frank
In conclusione Margarete Buber Neumann, Germaine Tillion e Shirin Ebadi hanno usato la scrittura per ricordare alle generazioni future quanto accaduto. Hetty Ellesum non ha potuto pubblicare i propri scritti ma ha scritto riflessioni, commenti, appunti che, grazie ad altri hanno visto la luce.
Ben vengano questi libri che perpetuano la memoria di quegli orrori, considerato che ancora si sono ripetuti e si ripetono nel mondo orrori e violenze di ogni genere e ancora oggi vi sono giovani che sventolano svastiche e fanno saluti nazifascisti. In questi giorni, sono usciti altri libri, autobiografie di donne che raccontano non solo le discriminazioni razziali e lo sterminio ma anche la resistenza al nazismo, come la riedizione di Ora che eravamo libere, di Henriette Roosenburg, Fazi editore, La libraia di Auschwitz di Dita Kraus, Newton Compton, Il mio nome è Selma di Selma van de Pierre, Mondadori, Il pane perduto, di Edith Bruck, La Nave di Teseo. Vale la pena rinnovare la memoria di quanto accaduto.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014); Siamo tutti politici (2018).
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