di Chiara Lanini
A partire dall’immaginario comune si potrebbe dire che la tutela, intesa in senso giuridico, non sia questione tematizzabile in termini culturali ma che, anzi, sia il dispositivo responsabile di garantire a tutti i/le minori il diritto «di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni» (art.315bis c.c.). In realtà il tema della genitorialità, anche nel contesto per certi versi estremo della tutela, può essere indagato come oggetto paradigmatico dell’incontro-reazione fra sistemi culturali, simbolici, normativi diversi, poiché alla famiglia, agenzia di socializzazione primaria, è attribuita la funzione di riproduzione di norme, valori e comportamenti propri del sistema simbolico nel quale si riconosce. Sulla scena dell’azione sociale (tanto più giuridica) queste alterità entrano in tensione, una in posizione dominante e l’altra minoritaria.
La domanda è: cosa succede quando tali, diversi, sistemi sono in contatto o in conflitto in un terreno delicato e istituzionalmente sensibile come quello della tutela dei minori? L’analisi vuole comprendere se e in quali termini il discorso sulla genitorialità pronunciato in sede di tutela, e i conseguenti provvedimenti, siano sensibili alla dialettica interculturale. L’azione valutativa è un processo complesso poiché interconnette dimensioni di ordine, peso, livelli di cogenza-urgenza, diversi: quella giuridico-normativa, quella psicologica, quella pedagogica-educativa, quella dell’intervento sociale, gli aspetti concreti e materiali delle condizioni di vita del minore. Tutte poggiano su uno stesso fondamento, da cui genera il processo deduttivo: l’attribuzione di significato ai comportamenti genitoriali e alla loro azione sullo stato di benessere o malessere del minore. L’obiettivo è quello di fare emergere i presupposti a partire dai quali si deduce che la condotta genitoriale sia più o meno adeguata e, nel caso in cui non sia ritenuta tale, a partire da quale punto di vista si identifichino le strategie di intervento.
A partire da un fascicolo giuridico
Il fascicolo esaminato tratta di una famiglia di non recente migrazione, formalmente integrata e radicata sul territorio in cui vive, la cui struttura riproduce il modello della famiglia borghese moderna (Donati, 2014; Zanatta, 1997), prevalente in Italia fino a qualche decennio fa [1]: una coppia coniugale, 3 figli di cui due gemelli primogeniti ora adolescenti, un maschio e una femmina, e un altro figlio più piccolo. Una buona situazione abitativa, madre dedicata alla famiglia, padre laureato in Italia con un buon lavoro impiegatizio stabile. I ragazzi vanno a scuola con profitto, le relazioni sono buone, la famiglia è coesa. In termini struttural-funzionalisti (Toscano, 2006) si potrebbe dire che funzioni, ed è quanto riferiscono gli stessi attori.
I problemi si manifestano quando l’unica figlia femmina, adolescente, che chiameremo M., intraprende una relazione con un ex compagno di scuola, più grande di lei di un anno. Questo evento darà luogo a una serie di atti che porteranno i genitori in tribunale e la ragazza in una comunità residenziale, dove rimarrà per più di un anno. Non entriamo nel merito dei provvedimenti perché non è oggetto di questo lavoro. Ciò che interessa qui rilevare è, attraverso l’analisi del discorso che si articola all’interno del fascicolo giuridico (unica fonte utilizzata), quali tipi di costrutti, logiche, paradigmi di significato, concorrano a costruire il senso di questa storia familiare, in termini di rappresentazione della genitorialità e, quindi, di intervento.
M. frequenta la scuola superiore con buoni risultati e pratica con costanza un’attività sportiva. Racconta che la mamma è musulmana, sebbene non praticante, che proviene da una famiglia aristocratica ed è molto legata alla propria cultura di origine, tanto da non essere mai riuscita ad integrarsi in Italia, anche volutamente. Dice che é molto sensibile al giudizio dei propri parenti, che tende a provare vergogna per ciò che ritiene potrebbe essere giudicato male da loro e che per questo tende a mettere in secondo piano le esigenze dei figli. La mamma fatica ad accettare i cambiamenti della figlia, quando sa che ha una relazione si dispera.
M. descrive il padre come meno legato al paese di origine e a particolari condizionamenti religiosi ma molto rigido, riferito ad una struttura familiare di tipo patriarcale, con grosse aspettative nei confronti dei figli, che non devono essere deluse. Di loro si occupa e si preoccupa molto, tiene che facciano sport e che, dal suo punto di vista, stiano bene. M. dice di essere sempre stata molto legata a lui, che è stato un papà molto affettuoso. È infastidita dal fatto che il padre si vergogni di ogni cosa davanti agli altri e gli attribuisce una forte ansia di controllo, dice che è molto chiuso, non gli piace mescolarsi con le persone, ha disprezzo per l’Italia.
L’ingresso di M. nell’adolescenza destabilizza l’equilibrio della famiglia, un equilibrio probabilmente rigido. Questo segmento di storia presenta il nucleo alle prese per la prima volta con un passaggio adolescenziale nel paese di migrazione. Si tratta di una fase che mette in tensione il sistema familiare introducendo un’istanza centrifuga, una spinta all’individualizzazione, che in una dimensione meticcia presenta una complessità aggiuntiva. Dicono Moro e Nathan: «Lui stesso non ha qualcuno che lo guidi per entrare in questo mondo sul quale sarà il primo ad investire. L’adolescente meticcio [2] possiede lo statuto di primo, e ciò non avviene senza una certa dose di angoscia e di incertezza» (Moro, Nathan, 1989: 280).
Moro presenta nei suoi studi una ricchissima clinica di adolescenti meticci che manifestano l’insorgenza di sintomatologie anche molto gravi (ibidem), pur non avendo in precedenza avuto problemi di questo tipo. Nel caso di M., che comunque accusa rilevanti sintomi di inappetenza, il segno più grave emerge nella dinamica familiare e in particolare nel comportamento dei genitori, determinando una situazione del tutto eccezionale nella loro storia e, per giunta, esclusivamente riferita alla figlia femmina. Per tutto il corso del procedimento non verrà mai messa in discussione l’adeguatezza dei genitori rispetto agli altri due figli, uno dei quali gemello di M.
Sempre Moro offre una cornice chiara a questo passaggio, avvicinandosi molto alle caratteristiche della situazione di cui stiamo trattando:
«La questione della scelta del partner rappresenta un momento di iscrizione quasi definitiva dell’adolescente nella comunità di accoglienza. Si pone la questione dell’appartenenza dei futuri figli e dei legami con la propria famiglia. È un momento di grande vulnerabilità per l’adolescente e di grande fragilità per la famiglia. Non è raro vedere il padre colpito da scompensi, sotto forma di nevrosi traumatica o di grave depressione. In generale è il padre minacciato da questa iscrizione…» (ivi: 281).
Il sistema simbolico normativo familiare
La famiglia dispone di un sistema simbolico-normativo che fornisce indicazioni molto chiare sul passaggio dall’infanzia all’età adulta ma che non è espressione del contesto in cui M. lo sta affrontando. Tale sistema, se praticabile, dovrebbe servire a smorzare l’impatto traumatico che questa metamorfosi potrebbe comportare.
«Uno stress è definito atipico se la cultura non dispone di alcuna difesa prestabilita – prodotta in serie, suscettibile di attenuare o di smorzarne l’impatto (G. Devereux, 1978: 8) – per questo motivo ogni cultura ha a sua disposizione rituali più o meno strutturati, o equivalenti dei rituali, che marcano questo passaggio dall’infanzia all’età adulta» (Moro, 2009: 278).
Il padre di M. ha le idee chiarissime su come crescere i propri figli. Un operatore riferisce: «Nelle aspettative del padre la scuola è una priorità assoluta, lui vorrebbe che la figlia andasse a studiare all’estero e che lavorasse per costruirsi una carriera, in particolare quella di medico». Ha un progetto forte per la figlia e teme che qualcosa possa metterlo a repentaglio. Il progetto di vita adulta pensato per M., d’altra parte, non è distante da quello che lei stessa prefigura: «vorrebbe fare l’ostetrica, un po’ condizionata dai genitori un po’ condizionata da un’esperienza di volontariato fatta in ospedale come interprete. Anche il papà fa il mediatore culturale volontario in ospedale». In questo senso sembra che la ragazza riesca a darsi un posto all’interno del sistema di filiazione (Moro 2009: 281), pur difendendo tenacemente il proprio desiderio di affiliazione, di cui la scelta del partner è momento tanto critico quanto fondamentale.
«In questa necessaria ridefinizione di sé stesso e dell’altro, che ogni adolescente deve compiere, il momento della scelta del partner sessuale, eventualmente proveniente da un mondo culturale differente da quello dei propri genitori, rappresenta un momento critico» (ibidem).
I due genitori amministrano aspetti diversi e complementari del sistema educativo. Il padre è molto concentrato sul progetto di adultità, la mamma porta in evidenza elementi della morale e dell’ethos familiare, ovvero le norme che regolano le relazioni sentimentali e sessuali, ed esplicita la logica che le sostiene: «Nel mio paese se due ragazzi si innamorano ed è il momento giusto si sposano. Il ragazzo avrebbe dovuto venire a casa a parlare con il papà [...] Il ragazzo non era cattivo ma M. voleva sempre uscire. Addirittura voleva andare a cena a casa di lui per Natale. Lui le ha comprato un braccialetto e io non ero contenta che avesse accettato il regalo». Un’operatrice riferisce: «Il modo di vivere degli italiani la preoccupa, per questo ha sempre cresciuto i figli tenendoli molto protetti, soprattutto S. che è femmina».
L’ irruzione del fantasma della sessualità produce all’interno di questo contesto normativo una reazione fuori controllo.
Il discorso sulla genitorialità
Il discorso sulla genitorialità costruito dagli operatori presenta alcune tematiche ricorrenti: l’autoreferenzialità dei genitori, la scarsa empatia del padre, la rigidità del modello educativo, lo scarso riconoscimento del supporto e dell’intervento dei servizi, la scarsa comprensione della situazione, correlate al livello di adesione e di collaborazione con i servizi.
Non è qui importante entrare nel merito delle valutazioni perché, come già chiarito, nella prospettiva di questo tipo di ragionamento sarebbe improprio. Si tratta piuttosto di rintracciare, sul piano della relazione dinamica che si snoda fra una cultura dominante e una minoritaria, quali modelli si confrontano e si scontrano e in quale misura lo facciano in termini consapevoli ed espliciti o meno.
L’autoreferenzialità, attribuita al padre, è intesa come tendenza a portare il discorso su di sé piuttosto che sulla figlia. Parla un’insegnante: «Durante tutto il colloquio il padre ha parlato molto di sé raccontando anche fatti personali della sua vita al punto che più volte ho cercato di fermarlo per ricordargli che il motivo per il quale lo avevo convocato era per parlare di M. e del difficile momento che stava oggettivamente attraversando». Tale connotazione rimanda ad una concezione delle relazioni familiari che vede nei figli il centro gravitazionale del sistema, inevitabilmente dipendenti ma quasi svincolati dalla trama della storia, dei valori, delle rappresentazioni che danno forma alla loro famiglia. Chi parla percepisce il dilungarsi del padre nel racconto di sé come un inopportuno occupare la scena, come se la storia del padre e il suo modo di trarne significato, indicazioni, teorie non facesse parte dello stesso discorso per il quale è stato convocato.
Gli elementi del contesto pedagogico che il padre fornisce vengono recepiti dall’interlocutore come segno di distrazione dell’attenzione dalla figlia e di scarsa empatia. I sistemi normativi e valoriali cui i genitori fanno riferimento non vengono letti come elementi strutturali delle pedagogie volte ad integrare i figli nel sistema culturale familiare, compito principale della socializzazione primaria, ma piuttosto come forze antagoniste, che tolgono centralità al minore in quanto in-dividuo, le cui inclinazioni, desideri, istanze vanno sostenute anche quando ciò significa tradire i modelli, i principi e le regole di appartenenza al e del gruppo cui si appartiene. Nel discorso dei genitori e in quello della stessa M. quando parla di loro, infatti, sono più volte evocati i temi della reputazione e della vergogna, dispositivi di controllo sociale che rimandano alla catena di riproduzione del sistema di valori che, per funzionare, richiede adesione e fedeltà, soprattutto a chi, lontano, è maggiormente esposto al rischio di tradire. Un’operatrice riferisce «la preoccupazione di essere considerato un buon genitore, di non esporsi a giudizi negativi da parte della comunità di appartenenza, di sentirsi apprezzato e valorizzato in quanto intellettuale e benestante, una progettualità di vita che non aveva mai previsto deviazioni o debolezze».
Quelle che da una parte i genitori ritengono essere capacità (e doveri) dall’altra vengono marcate in senso opposto, dando luogo ad un’impasse che li pone, soprattutto se alle prese con un problema rilevante, a scivolare in uno stato di anomia (Durkheim, 1897), poiché le strategie interiorizzate non sono agibili e quelle che il sistema imporrebbe non sono condivise, tanto meno interiorizzate.
Il programma di socializzazione ad una nuova e diversa genitorialità, adeguata, che nei casi come questo rientra nelle prescrizioni, poggia sul supporto instabile di un conflitto di significato, valori, mezzi e fini, che non si risolve se non in termini superficiali, strumentali e vagamente ricattatori. In questo contesto trova ragione il ripetuto riferimento al fatto che la famiglia non conferisca sufficiente credito al supporto offerto o imposto dai servizi.
È difficile trovare nel discorso un segnale che alluda al fatto che ciò di cui si sta trattando è una dialettica, seppur conflittuale, fra due logiche antagoniste ma dotate di organicità interna, coerenti con i rispettivi sistemi culturali e normativi. Più frequentemente questo scarto e questa distanza sono motivati ricorrendo a categorie di ordine cognitivo e/o morale: il sistema semantico attraverso la cui lente si guardano le storie e le vicende degli altri si pone come modo naturale, le deviazioni trovano collocazione nell’ordine delle carenze, cognitive o morali.
In ultima analisi il problema è che questi genitori sono del tutto convinti che il loro agire sia perfettamente conforme al loro dover essere di buoni genitori, al cospetto dei propri modelli ma anche dello sguardo introiettato della propria comunità.
Paradigmi a confronto
Spostare il discorso sul piano dei paradigmi ci consente di fare emergere due logiche normativo-valoriali definite e ben collocabili. Da una parte possiamo rappresentare la famiglia come:
«“luogo dell’accumulo del capitale in tutte le sue diverse forme, della sua trasmissione da una generazione all’altra” (Bourdieu, 2009: 127), risultato di una vera opera di istituzione, rituale e tecnica al tempo stesso, mirante a istituire stabilmente in ogni componente dell’unità istituita dei sentimenti atti a garantire l’integrazione che è condizione dell’esistere e del persistere di tale unità […] integrata, unitaria e quindi stabile e costante, indifferente alle fluttuazioni dei sentimenti individuali» (ivi:125).
Sulla base di tale logica ci si aspetta dall’individuo una «adesione vitale all’esistenza del gruppo familiare a dei suoi interessi» (ivi: 126). Il compito della famiglia è sostanzialmente quello della riproduzione: della vita in senso biologico, del sistema culturale, dell’ordine sociale, «è il cerchio della riproduzione dell’ordine sociale» (ivi: 125). Da questo orizzonte di senso genera il sistema normativo che assoggetta le singolarità all’ordine superiore del gruppo istituzionalizzato, sulla base delle «disposizioni etiche che portano a identificare gli interessi particolari degli individui con quelli collettivi della famiglia» (ivi: 128). Tale ordine si realizza e si mantiene grazie alla «struttura dei rapporti di forza fra i membri del gruppo familiare» (ibidem), «rapporti che richiamano le gerarchie di genere e le relazioni fra le generazioni» (Grilli, 2019: 34).
Dall’altra parte identifichiamo una tensione opposta, che progressivamente sposta l’asse del «modo di vivere e di intendere i rapporti tra i generi dentro e fuori il matrimonio, la sessualità, le relazioni fra le generazioni», provocando «una sorta di de-istituzionalizzazione della vita familiare» (ivi: 47). Alcuni autori correlano questo movimento alla seconda transizione demografica (Solinas, 2004; Viazzo, Remotti 2007), avviata nell’Europa del Nord a partire dalla seconda metà degli anni sessanta e poi diffusa anche nei Paesi del Sud e che porta con sé una drastica riduzione della natalità, della mortalità, della nuzialità, e un aumento progressivo della speranza di vita. La famiglia, o il fare famiglia, allenta quindi la propria identificazione naturale con l’istanza riproduttiva, in un arco di tempo, di spazio e di stratificazione sociale non riducibile in termini lineari né omogenei ma che, di fatto, «separa i sistemi premoderni (o tradizionali che dir si voglia) da quelli moderni» (Grilli, 2019: 52).
Tale movimento incide profondamente sulla rappresentazione dei valori, dei significati e dei compiti della genitorialità e sul modo di rappresentare l’infanzia. Riprodursi diventa una scelta non scontata ma anzi più che meditata, nella misura in cui il valore espressivo, simbolico e psicologico dei figli, «diventati economicamente inutili» (ivi: 55) e, anzi, molto costosi, cresce fino a costituire l’oggetto di una vera e propria sacralizzazione, in linea con la valorizzazione dell’infanzia affermatasi nella seconda metà del ‘900 [3]. Da qui l’enfasi crescente sul principio di responsabilità genitoriale, che finisce «inevitabilmente per imporsi come sfondo ideologico su cui si costituisce l’habitus del genitore ed è valutato il suo ruolo sociale» (ibidem).
Questo passaggio configura una vera e propria rivoluzione copernicana: da una parte al centro del sistema c’è il gruppo istituzionalizzato e le sue funzioni di riproduzione, materiali e simboliche, le cui leggi preordinano gli interessi (le inclinazioni, i desideri) individuali, dall’altra il soggetto, bambino o l’adolescente in questo caso, cui devono essere riconosciuti lo spazio e il supporto favorevoli alla massima espressione del proprio potenziale di creatura unica (spesso anche di fatto) e originale.
Come si può dedurre il tema intorno al quale gravita il procedimento è tutt’altro che marginale nella riflessione interdisciplinare e rimanda ad una dialettica fra sistemi mentali (ivi: 53), che affondano le radici in processi di mutamento correlati anche a variabili e dinamiche di ordine strutturale. Torniamo al nostro caso citando Moro, che chiarisce ancora una volta bene l’incidenza di questi sistemi mentali sulla questione trattata:
«In Occidente la scelta della persona a cui unirsi è prima di tutto individuale, ma sappiamo che esiste un determinismo sociale importante nella coppia. Altrove, nelle società tradizionali, il matrimonio è innanzitutto una scelta familiare, anche se sono possibili numerosi compromessi. Certo occorrerebbe affrontare il discorso delle rappresentazioni della donna e dell’uomo nei gruppi tradizionali, della loro funzione, delle modalità del loro incontro» (Moro 2009: 281).
Il problema è capire come gestire la convivenza di modelli culturali diversi, soprattutto quando questi impattano su una categoria giustamente tutelata, i minori. Al di là e fatti salvo gli elementi di reato profilati in questa vicenda, rimane l’altrettanto importante questione del trattamento e degli esiti sul lungo periodo, oltreché le questioni di metodo e di cultura del sistema di tutela.
Il riferimento, ricorrente in altri fascicoli, al deficit di comprensione da parte dei genitori, oltre a porsi in contraddizione con le capacità linguistiche, cognitive e di auto rappresentazione del tutto adeguate di questi genitori, rimanda ancora una volta alla necessità di accedere ad un altro ordine logico. Probabilmente, per affrontare tali barriere semantiche, sarebbe necessario mettere a tema e trattare non solo e non tanto gli oggetti da comprendere (ex: il desiderio di autonomia della figlia) ma anche e soprattutto i sistemi cognitivi che a questi oggetti danno significato (Sclavi, 2003). Tale operazione metariflessiva consentirebbe di fare emergere lo specifico culturale del modello dominante, che tende, invece, ad essere posto come universale, naturale, scontato.
È tuttavia da notare che il faticoso e doloroso percorso affrontato dalla famiglia e dalla ragazza hanno dato, nella percezione condivisa, buoni frutti. La grave crisi si è risolta in un nuovo equilibrio, che ha visto le relazioni familiari rielaborate e attualizzate. M., tornata a casa, ha guadagnato un spazio di maggior autonomia, anche nelle relazioni sentimentali, attraverso un processo di mediazione e negoziazione possibile grazie al ruolo dei terzi entrati nel campo delle questioni familiari. La famiglia non ha abdicato ai propri valori e ai propri modi di istituire il “noi” [4], ma ha accettato di rivedere la fermezza di alcune posizioni.
Si potrebbe ipotizzare che l’allontanamento da casa e il passaggio in comunità abbiano simbolicamente rappresentato quel rito di passaggio, ormai evaporato, che invece, in questo caso, ha consentito all’adolescente meticcia di elaborare la dialettica doppiamente conflittuale fra filiazione e affiliazione, senza produrre una drammatica frattura. Van Gennep ha articolato tale dispositivo in tre fasi: separazione, margine, aggregazione (Van Gennep, 1909). L’introduzione di uno spazio di separazione e margine, rappresentato dalla comunità, ha permesso l’istituzione di una cornice di senso e di valori ibrida, in grado di accompagnare la transizione mantenendo la coesione del sistema, alle prese con un compito di sviluppo per il quale non aveva riferimenti sufficientemente adattabili al contesto di vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Fino circa a metà anni Sessanta in tutto il mondo occidentale dominava, nel pieno della società industriale, il modello tradizionale di famiglia borghese. L’aggregato domestico tipico era formato da marito operaio, moglie casalinga e presenza di (almeno) due figli. Era una famiglia solidamente basata sul matrimonio, ma anche molto rigida: caratterizzata da rapporti di genere e tra generazioni nei quali dominava la figura del capofamiglia maschile. Indiscussa era la subalternità sociale e giuridica della moglie e dei figli rispetto al marito/padre (Rosina, 2007).
[2] Marie Rose Moro usa questo termine per indicare la posizione dei figli di genitori migranti, le seconde generazioni, rispetto al processo di acculturazione. «Ecco dunque la vera sfida della migrazione […]: la sfida del meticciato. Inserirsi nel mondo di qui, sostenendosi al mondo di origine dei propri genitori, porta ad una mescolanza dinamica di donne e di uomini, di pensieri, del loro divenire. Chi dice meticciato dice che tutte le forme sono possibili, come nella genetica, più vicini ad un mondo, più vicini all’altro, nel mezzo, in una configurazione mobile, che ambia talvolta in base alle esigenze interne e nei vari momenti della propria vita» (Moro, 2009).
[3] «Concettualizzata fin dal XIX secolo come una fase vulnerabile della vita nelle nuove condizioni prodotte dall’industrializzazione (sfruttamento del lavoro minorile, povertà urbana, abbandono) e dunque da tutelare (Aries, 1968), l’infanzia è al centro delle Convenzioni internazionali e delle leggi nazionali della seconda metà del ‘900, in cui è costante il richiamo al “superiore interesse del bambino”, che spetta alla famiglia salvaguardare, garantendogli istruzione, salute, benessere» (Grilli, 2019: 55).
[4] We-relation (Donati 2012: 165-187).
Riferimenti bibliografici
Bourdieu, P. (2009); Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna.
Donati, P. (2014). Manuale di sociologia della famiglia, Laterza Roma-Bari.
Donati, P. (2012), Il Soggetto relazionale: definizione, Ed eSemPi. – Studi di sociologia, a. 50, n. 2: 165-187
Durkheim É, (1897), Le Suicide, Paris, Alcan
Grilli, S, (2019), Antropologie delle famiglie contemporanee, Carocci Editore, Roma.
Moro, M. R., Nathan, T. (1989), Le bebé migrateur, in Spinoglio, C., Psicopatologia della prima infanzia, Bollati Boringhieri, Torino.
Rosina, A. (2007), Conferenza Nazionale della Famiglia di Firenze, 24-26 maggio
Solinas, P.G. (2004), L’acqua strangia. Il declino della parentela nella società complessa, Franco Angeli, Milano.
Sclavi, M. (2003), L’arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano.
Toscano, M. A. (2006), Introduzione alla sociologia, Franco Angeli, Milano.
Van Gennep, A. (1909), I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino.
Viazzo, P. P., Remotti, F. (2007), La famiglia: uno sguardo antropologico, in P.P. Viazzo et ali, La Famiglia. Università Bocconi Editore – La Repubblica/L’Espresso, Milano.
Zanatta, A. L. (2011), Le nuove famiglie. Il Mulino, Bologna.
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Chiara Lanini, pedagogista, operatrice sociale, dottoranda di ricerca in Scienze Sociali presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, curriculum Migrazioni e Processi Interculturali. Nel 2016 ha conseguito il Master universitario (Milano-Bicocca) di ambito disciplinare pedagogico e filosofico sulle “Culture simboliche per le professioni dell’arte dell’educazione e della cura”. Dal 1995 ad oggi lavora in ambito educativo, è attualmente cultrice della materia presso la cattedra di Sociologia della Famiglia e di Sociologia dell’educazione.
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