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Brasile: trenta milioni di oriundi italiani nel Paese del meticciato

 

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Emigrati italiani, “fatta il 1891 in Brasile” (ph. Gilardi)

di Federico Jorio, Franco Pittau e Sandra Waisel dos Santos

 Introduzione: un caso d’eccezione nei numeri e negli aspetti qualitativi

L’italiano Amerigo Vespucci sbarcò n Brasile nel 1499, precedendo di un anno Pedro Álvares Cabral, ma non è stato il primo europeo a raggiungere quel Paese [1]. Furono comunque i portoghesi a colonizzare questo grande Paese. A parte ciò, non mancano altri motivi per sostenere la grande importanza degli italiani nella formazione del Brasile moderno.

Nella storia dell’emigrazione italiana, il Brasile si colloca tra gli esempi più rilevanti per il numero delle persone che vi sono sbarcate, l’influsso da loro esercitato a livello economico-occupazionale e socio-culturale, la moltitudine di persone nate sul posto da ascendenti italiani e il ruolo che essi tuttora svolgono ai diversi livelli.

Secondo una stima dell’ambasciata italiana, gli italo-brasiliani sono circa 30 milioni, mentre altre fonti ridimensionano questo numero anche di 8 milioni e, comunque, il Brasile resta sempre il Paese con la più alta presenza di oriundi italiani; hanno un’incidenza pari a circa il 15% sull’intera popolazione locale e un’incidenza ancora più alta in alcuni Stati del sud est, in larga misura colonizzati dagli italiani (in particolare negli Stati Rio Grande do Sul e “Espirito Santo) e nella città e nello Stato di San Paolo.

Dalla dimensione quantitativa che comunque ha la sua importanza, è opportuno passare agli altri aspetti, che sono ancor più significativi. In Brasile, molto prima che in Europa iniziassero i dibattiti sui modelli d’integrazione degli immigrati a seguito dei flussi intervenuti dopo la Seconda guerra mondiale, era già andato affermandosi un originale modello di convivenza delle culture introdotte dalle diverse comunità straniere, che merita di essere preso in considerazione anche in Occidente, come più spesso è stato fatto per le esperienze degli Stati Uniti e del Canada.

Per richiamare l’attenzione si fa riferimento ad alcuni punti evidenziati nell’immensa bibliografia di fonte italiana e italo-brasiliana e si ripercorrono le tappe principali dei flussi migratori italiani verso quel Paese, mostrandone gli effetti positivi esercitati e, in particolare, l’apporto dato al modello d’integrazione e alla costruzione del Brasile moderno, attualizzando le vicende dei pionieri dell’esodo attraverso i loro discendenti. Questo è un modo per ripensare in maniera fruttuosa alle risorse della “italianità” nel mondo di oggi. Per i dati statistici si è fatto ricorso all’archivio del Centro studi e ricerche IDOS, che utilizza sistematicamente gli archivi dell’ISTAT e, per gli anni più recenti, anche quelli dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE).

I temi trattati sono stati così articolati: una breve storia sul passaggio del Brasile dalla fase coloniale a quella imperiale e, infine, alla repubblicana; la presentazione dei dati statistici, dall’inizio dei flussi degli emigrati italiani fino ad oggi; le tre principali forme di inserimento durante il periodo della grande immigrazione (nelle città, nelle fazendas, nelle colonie); le diverse proposte rivolte agli emigrati (il cattolicesimo rappresentato dai missionari e il socialismo diffuso nel movimento anarchico); il modello di integrazione originale derivato dall’inserimento dei nostri emigrati nel tessuto sociale brasiliano (discendenti dei coloni e degli africani).

In molti Paesi i sacrifici degli italiani emigrati dopo l’Unità d’Italia furono enormi e richiesero diverse generazioni prima che pervenissero una piena accettazione e integrazione dei loro discendenti, quasi fosse necessario, a tal fine, l’oblio o comunque l’attenuazione della propria origine. In Brasile, invece, non fu necessario porre tra parentesi la propria “italianità”, perché questa fu in larga misura costitutiva del nuovo Brasile che andava formandosi superando la tradizione coloniale.

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Don Pedro I

Il superamento della schiavitù e la fine dell’impero: l’immigrazione e la formazione del Brasile moderno

Si ritiene che l’apertura all’emigrazione dall’Europa sia stata di fondamentale importanza per la formazione del Brasile moderno, iniziata dopo la proclamazione dell’indipendenza, l’abolizione della schiavitù e la fine dell’impero, superando definitivamente la mentalità cloniate. Nel 1808, a ciò costretto dalle campagne di conquista di Napoleone, il re del Portogallo João VI dovette riparare in Brasile e stabilirsi, con la famiglia e la sua corte, a Rio de Janeiro, restandovi fino al 1821, quando, dopo la rivoluzione liberale di Porto dell’anno precedente, fu invitato a tornare in patria, lasciando sul posto come principe reggente, il figlio Pedro. Il trasferimento della corte portoghese favorì diverse innovazioni: in campo economico, commerciale, culturale (superamento del monopolio culturale e artistico; creazione dell’università, di teatri e biblioteche con l’arrivo di importanti intellettuali dell’epoca).

Nel 1817 il principe Pedro sposò Leopoldina d’Austria. Questa principessa della Casa degli Asburgo arrivò, dopo un viaggio durato 48 giorni, con un entourage di ricercatori, botanici, artisti. La sua solida formazione, non limitata all’apprendimento delle buone maniere, le fu d’aiuto per favorire dei positivi cambiamenti nella nuova terra, di cui si innamorò. Leopoldina assunse un ruolo attivo nella lotta per l’indipendenza e svolse anche incarichi di governo durante l’assenza da Rio de Janeiro del marito Pedro, che, a sua volta, si mostrò predisposto ad adottare disposizioni favorevoli alla popolazione brasiliana. Il principe Pedro, intuì che si voleva rimettere sotto un ferreo controllo del Portogallo il Brasile, al quale invece intendeva riservare la sua attenzione prioritaria, dedicandosi a salvaguardarne l’unità e contrastando la tendenza al separatismo di alcune colonie. Iniziò così la guerra per l’indipendenza brasiliana.

Nel 1822 Pedro, partendo per la colonia di San Paolo, per venire a capo di una situazione determinatasi nella colonia turbolenta, nominò Leopodina reggente per il periodo della sua assenza. La principessa, appreso che a Lisbona si attendeva il ritorno del principe, riunì il Consiglio di Stato e il 2 settembre 1822 firmò il decreto d’indipendenza e informò con una lettera il marito, che il 7 dello stesso mese la ricevette sulle rive del fiume Ipiranga a San Paolo: Pedro, brandendo la sua spada, esclamò a gran voce “Indipendenza o morte”. Nello stesso anno avvenne la sua incoronazione imperatore del Brasile col nome di Pedro I: tale titolo sembrò essere quello maggiormente appropriato per regnare su un territorio così vasto. Il nuovo monarca aveva 25 anni.

Furono inevitabili gli scontri con le truppe portoghesi già presenti sul posto e le altre arrivate dopo: si fronteggiarono più di 100 mila uomini da entrambe le parti. Il riconoscimento del nuovo regno a livello internazionale fu difficoltoso e solo nel 1825 si pervenne a un accordo, mediato dalla Gran Bretagna, per cui il Brasile doveva corrispondere un sostanzioso risarcimento monetario a re João VI che, pur senza regnare più sul Brasile, poteva continuare a fregiarsi del titolo d’imperatore. Il Brasile, inoltre, si sarebbe dovuto impegnare nella lotta per l’abolizione della schiavitù (obiettivo caro ai britannici), che però si rivelò di difficile esecuzione per le resistenze dei fazenderos.

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Re Joao VI

Intanto, in questo immenso territorio non mancarono i movimenti separatisti, tra i quali quello promosso dalla Confederazione dell’equatore, soffocato nel sangue nel 1824. Tra l’altro, la mancanza di un forte esercito stabile portò l’imperatore ad avvalersi anche di soldati mercenari (irlandesi e tedeschi) che, però, in alcune occasioni, vollero far valere le loro richieste protestando e si finì col rinunciare al loro apporto. Nel 1825 vi fu anche la guerra con l’Argentina, che rivendicava la provincia brasiliana Cisplatina, diventata poi il nuovo Uruguay con la pace sottoscritta nel 1828.

In questo periodo con la storia del Brasile si intrecciò anche quella di Giuseppe Garibaldi, che vi arrivò il 15 gennaio 1835, rimanendovi fino al 1854. A Rio de Janeiro, dove era sbarcato, “l’eroe dei due mondi” non disdegnò di gestire un commercio di generi alimentari. Durante il suo soggiorno conobbe Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, detta Anita, che diventò sua moglie e dalla quale ebbe quattro figli. Egli si impegnò concretamente per sostenere la guerra d’indipendenza della repubblica del Rio Grande do Sul, che però nel 1845 terminò con un esito negativo.

In Brasile, nel frattempo, non mancarono i problemi riguardanti la forma costituzionale da scegliere nel nuovo regime d’indipendenza. L’assemblea dei delegati propose una Costituzione che assegnava all’imperatore poteri simili a quelli previsti per il Presidente degli Stati uniti ma Pedro I non approvò il testo e, nel 1824, promulgò una Costituzione che gli affidava maggiori poteri, per cui tutte le decisioni pubbliche erano sottomesse, in ultima istanza, a un suo beneplacito in forza del “potere di moderazione”.

La schiavitù, che allora coinvolgeva un terzo della popolazione, era un altro motivo di contrasto tra l’imperatore, che si era impegnato a sopprimerla, e la classe dirigente del tempo, composta da una ristretta cerchia di latifondisti, militari e professionisti. L’utilizzo degli schiavi continuò a essere ritenuto fondamentale dalla classe borghese che, esigua ma potente, riusciva a condizionare le decisioni parlamentari. E così furono approvate le norme sia per favorire il lavoro servile sia per ostacolare i piani dell’imperatore nel settore economico e militare. Per porre fine a questa situazione d’insanabile contrasto, l’imperatore Pedro I sciolse il governo e la borghesia sollevò la folla, che gridava “Morte al tiranno”. Era la stessa folla che a Rio de Janeiro, nel mese di settembre del 1822, l’anno dell’indipendenza, lo aveva acclamato come “il difensore perpetuo del Brasile”. Nel 1831 l’imperatore abdicò a favore di suo figlio Pedro de Alcântara (Pedro II), che aveva appena cinque anni e, con una nave da guerra inglese, si recò in Gran Bretagna e successivamente in Portogallo, dove riuscì a far proclamare regina la figlia Maria, per poi morire nel 1834.

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Pietro II in alta uniforme all’età di 12 anni

In Brasile, dal 1831 e per tutto il periodo dell’età infantile e adolescenziale di Pedro II, ebbe luogo una reggenza: l’incarico effettivo fu assunto dal nuovo imperatore nel 1940, all’età di 15 anni e, a tal fine, si derogò al requisito previsto della Costituzione, per cui erano necessari i 18 anni. Egli si sposò nel 1843 a Napoli, con Teresa Cristina Maria, principessa del Regno delle Due Sicilie e da lei ebbe quattro figli. Durante il suo regno, dopo che la Gran Bretagna aveva autorizzato le sue navi da guerra ad attaccare quelle portoghesi e brasiliani che trasportavano schiavi, si giunse nel 1850 all’approvazione della legge che aboliva nel Paese il commercio degli schiavi neri, da cui derivò un forte aumento della domanda di manodopera, divenuta ormai scarsa [2].

In quel periodo, e anche negli anni successivi, si verificarono diverse rivolte popolari, promosse dagli indios, dai neri e dagli schiavi. Il Brasile allora aveva una superficie di 3,7 milioni di Kmq e una popolazione di soli 14.3 milioni abitanti. Nella seconda metà dell’Ottocento (dal 1864 al 1870) si svolse anche “la guerra della triplice alleanza” (Brasile – Argentina – Uruguay) contro il Paraguay e il Brasile, non avendo un esercito consistente, ricorse all’impiego degli schiavi come soldati, che in seguito furono affrancati dalla loro condizione. Lo Stato dell’Uruguay, come già accennato, faceva parte in origine del territorio brasiliano (Provincia Cisplatina) e continuava ad avere numerose proprietà terriere (un terzo del totale). Alla sua lotta per l’indipendenza (1839–1851) Giuseppe Garibaldi contribuì con la Legione Italiana.

La guerra della triplice alleanza favorì una migliore organizzazione delle forze armate brasiliane e pose ancora una volta in evidenza la forza dei latifondisti che, insieme ai professionisti, ai militari, al clero e con il supporto del sistema schiavistico, costituivano la forza sostanziale nel governo del Paese, spesso in contrasto con l’imperatore. Andava, intanto, rafforzandosi il movimento repubblicano. Il Brasile continuava a essere in America Latina l’unica monarchia dopo che, nel 1867, anche il Messico era diventato una repubblica. I repubblicani proponevano, oltre alla modifica dell’assetto costituzionale, anche l’abolizione della schiavitù, tenendo conto che la sua persistenza, ormai riscontrabile solo a Cuba (al tempo ancora sotto il dominio spagnolo), pregiudicava l’immagine del Paese presso gli europei.

Dal 1880 in poi i vari governi conobbero un’estrema fragilità e l’imperatore esercitò continuamente il suo “potere di moderazione”. Avvicinandosi alla posizione di Pedro II e dei repubblicani, anche i latifondisti capirono di non potersi più arroccare nella difesa della schiavitù. I primi ad aprirsi al lavoro libero furono i fazenderos dello Stato di San Paolo, che tra il 1875 e il 1887 fecero arrivare 150 mila italiani. Le risorse finanziarie, prima impiegate per l’acquisto e il mantenimento degli schiavi, poterono così essere utilizzate per gli investimenti da effettuare nell’industria e per ampliare le infrastrutture. Il potere legislativo confermò il nuovo orientamento: la cosiddetta “Legge del ventre libero”, approvata nel 1871, concesse la libertà ai neonati figli di schiavi, di cui il padrone doveva prendersi cura fino all’età di 8 anni, per poi cederli al governo dietro un compenso o utilizzarli al lavoro fino all’età di 21 anni. La legge Saraiva – Cotegjpe del 1885, al fine di ridurre gradualmente il lavoro degli schiavi, dispose la loro liberazione qualora fossero di età superiore ai 60 anni. Infine, la Lex àurea del 13 maggio 1888 abolì la schiavitù, ritenendola non più funzionale allo sviluppo economico del Paese. L’unico senatore contrario all’approvazione della legge, avvicinandosi alla principessa reggente Isabel, che rappresentava l’imperatore in viaggio all’estero, le disse: “lei ha appena redento una razza e perso il trono”. La profezia si avverò, ma le ragioni della fine della monarchia furono altre.

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Schiavi in una fazenda brasiliana del caffè, 1885 (ph. Marc Ferrez/Colección Gilberto Ferrez/Acervo Instituto Moreira Salles).

L’abolizione della schiavitù fu di giovamento all’economia, anche se perdurò nel Paese la netta divisione in classi. Gli ex schiavi spesso rimasero a lavorare per lo stesso padrone delle piantagioni, anche se questa volta pagati. In diverse province settentrionali, mancando i programmi di sostegno, molti ex schiavi morirono di fame a seguito della carestia. Nelle fazendas iniziarono a inserirsi sempre più numerosi gli emigrati che giungevano dall’Europa, ma anche per costoro le condizioni furono così dure da costringerli spesso o a rimpatriare, o a trasferirsi nelle città.

La monarchia ebbe fine principalmente a causa dell’eccessiva concentrazione dei poteri nelle mani dell’imperatore. A un certo punto la borghesia ritenne di non avere più bisogno del sovrano per proteggere i propri interessi e volle una repubblica federale. Pedro II fu deposto nel 1889 con un colpo di stato militare e la Repubblica fu proclamata il 15 novembre dello stesso. La famiglia imperiale fu costretta all’esilio e si trasferì in Portogallo. Pedro II morì in Francia, per una polmonite, nel 1891.

Nei primi anni dell’impero il Brasile contava 4 milioni di abitanti, per il 29% schiavi (1823). Trent’anni dopo (1854) la popolazione era di 7 milioni e l’incidenza degli schiavi risultava leggermente diminuita (24%). Dopo altri 20 anni, nel 1872, era aumentata la popolazione (9,9 milioni) e ulteriormente diminuita l’incidenza degli schiavi (15,2%). Al censimento del 1872, le 8.419.672 persone libere erano costituite per una quota di circa il 40% sia dai bianchi che dai neri, i due gruppi più numerosi. Alla vigilia della Lei áurea (1887), i residenti erano 14.500.000, di cui il 5% era composto da schiavi e il 20% della popolazione totale sapeva leggere e scrivere [3]. Durante il periodo imperiale la ricchezza nazionale era aumentata di otto volte e il Brasile si collocava tra le dieci nazioni più ricche. Il Paese, anche se aveva chiuso alcuni conti con il passato, era ancora imperniato sul latifondo e sulla difesa degli interessi della grande borghesia.

In questo tessuto socio-culturale, in larga misura ancorato al passato, s’inserirono le virtualità di cui gli emigrati europei erano portatori. Va ricordato che nella storia del Brasile, prima del grande apporto assicurato con gli emigrati, l’Italia si inserì non solo per le vicende di Garibaldi, ma anche tramite la moglie del secondo imperatore, Teresa Cristina Maria, del ramo Borbone delle Due Sicilie, imparentata quindi con la famiglia Braganza del Portogallo. Il suo matrimonio con Pedro II, avvenuto per procura e agevolato dall’invio di un ritratto opportunamente ritoccato della sposa, fu caratterizzato complessivamente da una buona intesa di coppia. L’imperatrice fu una sovrana affezionata alla famiglia, riservata, religiosa e caritatevole, che non si occupò degli affari di governo e neppure degli emigrati italiani, i quali negli ultimi anni del regno si inserivano numerosi nelle fazendas e nelle colonie. L’imperatrice si adoperò, invece, per far venire, dall’Italia a corte, il personale qualificato nel campo dell’educazione, della sanità e dell’arte.

Quando l’imperatrice morì a Porto nel 1889, nell’anno in cui la famiglia imperiale andò in esilio, si lamentò non per il dolore fisico, ma per il dispiacere di non poter rivedere la bellissima terra brasiliana, quella che divenne per sempre la nuova patria per molti emigrati italiani. Questi precedenti storici consentono di affermare che solo con la nascita della repubblica, il superamento del ricorso al lavoro schiavistico e l’inserimento degli emigrati europei, in maggioranza italiana, ebbe inizio il Brasile moderno.    

1I dati statistici sull’emigrazione italiana in Brasile

L’Istituto Centrale di Statistica, nel Sommario di statistiche storiche dell’Italia, 1861-1865 non riporta i dati sugli espatri in Brasile se non dal 1920 [4].  Sono tuttavia, disponibili le registrazioni degli arrivi degli italiani nell’archivio dell’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística:

510.538           tra il 1884 e il 1893

537.784           tra il 1894 e il 1903

                                                            196.521           tra il 1904 e il 1913

                                                                86.320             tra il 1914 e il 1923

                                                                70.177             tra il 1924 e il 1933.

Aggiungendo i flussi, ipotizzabili per gli anni fino al 1940, si arriva a circa 1,5 milioni di espatriati. Questo livello si può ritenere superato di alcune centinaia di migliaia se si tiene conto degli arrivi di emigrati italiani in Brasile in tutti gli anni ’70 e nei primi anni dell’Ottocento. Dai dati sugli arrivi relativi riferiti a tutti i Paesi di provenienza, si rileva che questi furono quasi 2 milioni, di cui furono protagonisti quasi completamente gli europei (1.993.000). Gli italiani incisero per poco più del 50% sul totale degli immigrati arrivati negli ultimi due decenni dell’Ottocento: dopo di loro si collocarono, in ordine d’importanza numerica, i portoghesi, i tedeschi e gli spagnoli. Nel successivo periodo, fino alla Seconda guerra mondiale, complessivamente gli arrivi furono circa 2,3 milioni, con una maggiore intensità negli anni antecedenti il conflitto mondiale. Dai primi anni del secolo fino alla vigilia della Prima guerra mondiale si ebbe il picco degli arrivi (1.096.521). In questo periodo gli italiani furono quasi 200 mila e costituirono un quarto degli arrivi, mentre i portoghesi incisero per poco più di un terzo e gli spagnoli per poco più di un quinto e invece si ridusse molto il flusso dei tedeschi (34 mila circa complessivamente). Nel periodo tra le due guerre, l’arrivo degli italiani diminuì fortemente, mentre gli arrivi dal Portogallo furono quasi tre volte di più rispetto a quelli dall’Italia (424.00 su un totale di 156.000). Resta da aggiungere, come si vedrà in maniera più approfondita, che tra gli emigrati italiani la componente proveniente dalle regioni settentrionali d’Italia fu di gran lunga prevalente, specialmente nei primi due decenni dell’Ottocento.

Dopo la seconda guerra mondiale, furono gli anni ’50 e ’60 quelli più interessati dal rinnovato esodo degli italiani, comunque numericamente più contenuto rispetto al passato, in particolare per quanto riguarda i flussi transoceanici e specialmente quelli verso il Brasile. Secondo i dati ISTAT vi furono 606 espatri già nel 1946, con oltre 4.000 casi in ciascuno dei tre anni successivi. Nei due decenni che seguirono, così come avvenne verso gli altri Paesi d’oltreoceano, ripresero i flussi anche verso il Brasile, ma non nella stessa misura sperimentata nel passato, perché le destinazioni europee andavano imponendosi per la loro capacità di attrazione. Dai circa 90 mila espatri in Brasile avvenuti negli anni ’50, si scese a 7 mila negli anni ’60. I casi di espatrio rimasero a un livello basso alla fine del secolo (ad esempio, poco meno di 9 mila negli anni ’70 e di 6 mila negli anni ‘80’ e ’90). In questo periodo anche le partenze degli italiani per le altre destinazioni conobbero una generale diminuzione. Negli anni ‘2000 l’emigrazione verso il Brasile, come si vedrà meglio in seguito, si è attestata ai livelli degli anni ’70 del secolo scorso.

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Bergamaschi a Botuverà, nel sud del Brasile, sul finire del 1800

Le diverse tipologie d’inserimento degli italiani in Brasile

A seguito della restaurazione, praticata dopo la caduta di Napoleone e sancita dal Congresso di Vienna (1814-1815), si diresse verso il Brasile un flusso di esuli politici o di deportati dalle autorità [5]. Uno degli esuli fu Giuseppe Garibaldi (1807-1982), personaggio sul quale è opportuno ritornare. Nacque a Nizza e, dopo aver a lungo navigato su imbarcazioni commerciali, aderì al movimento mazziniano e fu considerato un disertore dalla Marina militare piemontese. Per questo nel 1835 riparò a Rio de Janeiro, dove inizialmente per sostenersi aprì un commercio di generi alimentari, mentre poi sostenne la lotta separatista della Provincia brasiliana di Rio Grande do Sul e quella per l’indipendenza dell’Uruguay [6].

L’esodo di massa dall’Italia iniziò una quindicina d’anni dopo l’Unità e coinvolse i contadini e i piccoli agricoltori, che non riuscivano a sottrarsi alla miseria ed erano oberati dalle tasse, mentre il processo d’industrializzazione, fortemente in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, riusciva ad assorbire solo un ristretto numero di lavoratori. Furono queste condizioni a costringere gli italiani all’esodo oltreoceano e, in larga misura, furono coinvolti nei flussi anche gli altri Paesi europei.

Il Brasile, pervenuto all’indipendenza nel 1822 dopo essere passato dalla monarchia alla repubblica (1889), era un Paese essenzialmente agricolo, basato sui latifondi, per i quali la manodopera disponibile si stava rivelando insufficiente. Inoltre, sussisteva la necessità di colonizzare le immense zone incolte del sud. In quel periodo le città erano di modeste dimensioni, come del resto era ridotta la popolazione complessiva.

In tale contesto, iniziava a prevalere la posizione di chi riteneva che il lavoro degli schiavi non potesse rappresentare la soluzione più adeguata ad affrontare il futuro e che, oltre tutto, aprire la porta all’immigrazione “bianca” europea servisse a contemperare il gran numero di neri e di meticci. Questa politica migratoria selettiva non deve sorprendere, perché un’impostazione simile era stata seguita dagli Stati Uniti, dal Canada e dall’Australia, Paesi favorevoli all’origine anglosassone dei migranti, a scapito di quella italiana, specialmente meridionale.

Nel caso del Brasile, si registrò l’apertura sia agli italiani del settentrione (veneti soprattutto, ma anche friulani, trentini e sud-tirolesi, allora registrati come austriaci perché quelle regioni ancora non facevano parte dell’Italia) [7], sia ai meridionali. Per giunta, la fede cattolica, vissuta secondo le forme della religiosità popolare, non fu considerata un impedimento all’integrazione, bensì una ragione di affinità con la popolazione locale.

Gli inserimenti occupazionali, che gli italiani trovarono in Brasile, furono di tre diversi tipi: a) il lavoro presso le piantagioni del caffè; b) il lavoro come coloni nelle zone incolte del sud-est del Paese; c) il lavoro nei servizi in città, in particolare a San Paolo.

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Da Limes

L’inserimento nelle città

Sbarcati nei porti brasiliani di Santos e Rio de Janeiro, i nuovi arrivati erano prelevati e portati con vecchi calessi all’interno del Paese e questo viaggio poteva durare anche un mese. La città di San Paolo era un centro di smistamento, per cui coloro che erano diretti verso altre mete vi stazionavano solo per un breve periodo, alloggiando nel grande edificio della Hospedaria dos Imigrantes [8], che era stata inaugurata nel 1887 con le funzioni di alloggio temporaneo e di agenzia di collocamento per il lavoro. Lasciata la città si continuava poi per raggiungere le diverse località.

I fazenderos o i loro rappresentanti si recavano a San Paolo per prendere in consegna gli immigrati destinati a lavorare nelle loro terre, accompagnati da un interprete (solitamente italiano), che aiutava a spiegare le condizioni contrattuali ai nuovi arrivati. A differenza dei veneti e di molti altri settentrionali, i meridionali avevano una minore propensione per i lavori agricoli rispetto a quelli da esercitare nei comparti del commercio, nell’artigianato e di diversi altri servizi.

La crisi del caffè della fine dell’Ottocento fece confluire nelle città un gran numero di lavoratori agricoli, sia immigrati che ex schiavi, ai quali si aggiungevano gli altri immigrati provenienti dall’Europa. Questa concentrazione di persone influì notevolmente sull’espansione di San Paolo, dove nel 1893 il 35% della popolazione era italiana e si aveva l’impressione di essere in una città italiana. Nel 1907 erano presenti ben cinque quotidiani, oltre alle decine di settimanali pubblicati, anche se in verità questi pionieri non dedicavano molto tempo alla lettura. In questa città le industrie erano fiorenti e diverse non solo per il ramo di attività, ma per la loro dimensione (grandi, medie e piccole industrie) e in larga misura esse erano gestite dagli italiani, come immaginabile, in questa fase di radicale trasformazione urbana, con la connessa speculazione edilizia e la mancanza di adeguati interventi delle autorità pubbliche. Gli emigrati andarono ad abitare nei quartieri periferici e insalubri Tra di essi era corposo il contingente degli ex braccianti delle fazendas venuti in città a seguito della crisi del caffè, diventando operai dell’industria, gestori di negozi, artigiani o piccoli imprenditori. A San Paolo, in particolare, era facilmente riconoscibile l’impronta degli italiani, dalla lingua usata, dalle insegne dei negozi, dai nomi dati alle vie, dal modo di vivere e anche dalla titolarità delle imprese.

La borghesia locale era interessata all’utilizzo dei lavoratori e ai benefici che ne ricavano, ma non apprezzava il lavoro manuale, che per lungo tempo era stato riservato agli italiani. Per gli italiani l’impiego nelle industrie fu una palestra per aggregarsi, diventare più consapevoli dei propri diritti e lottare per tutelarli. Sussisteva una netta contrapposizione, nelle strategie di intervento sul mondo del lavoro, tra i missionari italiani (specialmente i missionari scalabriniani, molto attivi a San Paolo, e anche il clero locale) e gli anarchici, caratterizzati dall’ideologia socialista e da un forte anticlericalismo: tra questi due blocchi, come si vedrà, era fortissima la concorrenza per il proselitismo. Fu notevole la tendenza all’associazionismo, specialmente attraverso le Società di mutuo soccorso: Italia Unita fu il nome della prima associazione italiana, ma in realtà erano tutte caratterizzate, oltre che dagli interventi a favore dei connazionali in difficoltà, anche dal sostegno al processo di liberazione nazionale. In quel periodo venne anche costruito l’Ospedale Umberto I [9].

La fortuna non era alla portata di tutti, come attestava l’insediamento abitativo della classe più umile, ma non mancarono gli esempi d’italiani che diventarono molto ricchi. Francesco Matarazzo [10], partito da Salerno nel 1881, costituì un impero economico di straordinaria grandezza e partecipò alla fondazione [11], nel 1900, della Banca italiana commerciale di San Paolo, diventando in seguito il primo presidente della Banca italiana del Brasile. Un altro esempio che viene citato è quello di Giovanni Briccola, un agente della Banca di Napoli, che nel 1911 mise insieme un capitale di 25 milioni di lire. Un caso finanziario che non fu il solo a distinguersi: basti pensare che a San Paolo, tra il 1891 e il 1905, nacquero 42 istituti di credito, di cui ben 22 erano italiani [12].

La fase più favorevole si collocò tra la fine del secolo XIX e l’inizio di quello successivo, mentre dopo furono molto più rari i casi di una così grande affermazione. È stato anche osservato che a San Paolo i casi di arricchimento delle famiglie erano per lo più legati a una minoranza di imprenditori dotati di un significativo livello di formazione tecnica e di capitali disponibili. Ma, più in generale, l’intraprendenza degli italiani si fece sentire in tutto lo Stato di San Paolo e specialmente nella città capoluogo, che divenne il maggior centro di concentrazione degli italiani.

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Famiglia italiana in Brasile, in una fazenda a Caxias do Sul, nel 1918

Il lavoro presso le fazendas del caffè

Il sistema agricolo, gestito dai discendenti dei portoghesi, era basato sul lavoro degli schiavi importati dall’Africa, che lavoravano per i grandi latifondisti del caffè. Questi, col tempo, erano invecchiati senza che il tasso delle nuove nascite si mostrasse in grado di assicurare un ricambio sufficiente. La borghesia divenne quindi più sensibile all’abolizione della schiavitù, rendendosi conto di essere l’ultimo paese a praticarla ancora. L’abolizione della schiavitù, infatti, fu sancita il 13 maggio del 1888. Non molto tempo prima (nel 1871) era stata approvata la cosiddetta “legge del ventre libero”, che imponeva di considerare persone libere i figli delle madri ancora schiave [13]. Gli schiavi, dopo l’abolizione del lavoro in condizione di schiavitù, non avevano abbandonato in massa le piantagioni di caffè e, tuttavia, la loro presenza non era più sufficiente a garantire la produzione di un prodotto la cui esportazione andava aumentando, senza riuscire a soddisfare in pieno la sua domanda.

Dal 1840 la produzione del caffè per l’esportazione aveva sostituito quella della canna da zucchero e lo Stato di San Paolo si era affermato come zona ideale per la sua coltivazione, peraltro il trasporto del prodotto nel porto di Santos era agevolato dall’esistenza di una ferrovia di collegamento. A fianco degli ex schiavi, che erano rimasti a lavorare nelle piantagioni, era necessario l’apporto della manodopera straniera per incrementare la produzione. Per gli italiani, così come per gli altri stranieri, era promosso l’inserimento nelle fazendas, dove però le condizioni di lavoro erano talmente invalidanti da sperare fortemente, rimborsato il prezzo del viaggio anticipato dal governo, il trasferimento a San Paolo o nelle altre città. L’estensione di queste fattorie era notevole. Al centro si trovava la struttura principale, che ospitava il proprietario e i suoi aiutanti; vi erano quindi diversi distaccamenti, dove i lavoratori costituivano delle comunità a sè stanti, ma soggette a continue ispezioni. Le regole erano rigide e non permettevano né di lasciare il posto di lavoro né di farvi entrare persone estranee, se non con un’autorizzazione previa.

Per quanto riguarda il trattamento degli immigrati bianchi non è il caso di farsi illusioni pensando a uno standard di maggiore tutela. Anche dopo l’abolizione della schiavitù persisteva la mentalità schiavista dei fazenderos, come attesta il termine “schiavi bianchi” con il quale si indicavano i nuovi arrivati. Solo a distanza di tempo fu attenuata questa rigidità nel loro impiego. Ciò nonostante, molti italiani, grazie all’espansione economica del periodo 1875-1895, riuscirono a mettere da parte i risparmi, il più delle volte utilizzati per l’acquisto di poderi propri.

Per gli italiani vi fu una complicazione supplementare. Non essendo in grado di pagare il viaggio in Brasile, essi erano ricorsi ai servizi delle compagnie che offrivano il viaggio prepagato per conto del governo brasiliano, fatto salvo l’impegno dei passeggeri a provvedere in seguito al rimborso. Per molti italiani, tuttavia, restituire la somma anticipata richiedeva del tempo così che erano trattenuti nelle fazendas anche quando avrebbero dovuto lasciarle per trasferirsi in città. Questa situazione di costrizione suscitò un’eco molto negativa sulla stampa italiana. Anche il console italiano nello Stato di Espirito Santo, dove in larga misura arrivavano gli emigrati, stigmatizzò nel suo rapporto le inaccettabili condizioni cui erano assoggettati gli emigrati per quanto riguardava le condizioni climatiche, la scarsità e la qualità del cibo, il trattamento loro riservato da parte della polizia e, le incertezze che caratterizzavano il ricorso alla giustizia, le carenze nella misurazione dei terreni da assegnare e così via.

Con il decreto del 1902, fu vietata la partenza per il Brasile nell’ambito dei programmi sussidiati dall’estero. Il drastico provvedimento, apprezzato in Italia, non mancò di dar luogo a complicazioni diplomatiche con il governo brasiliano, che, tuttavia, continuò a enfatizzare nei suoi opuscoli le ottime condizioni di inserimento lavorativo assicurate dai suoi programmi di reclutamento. Il decreto fu adottato su iniziativa del Ministro degli esteri Giulio Prinetti, allora presidente della commissione sull’emigrazione.

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Raccolta del caffè e lavoratori italiani (ph. Theodor Preising, déc.1930. Acervo Museu do Café)

Il difficile inserimento dei coloni

L’emigrato italiano che era disponibile ad andare a colonizzare le terre del sud-est, riceveva dal governo un lotto di terreno da rendere coltivabile, con la possibilità di riscattarlo, diventandone proprietario. Questo programma di colonizzazione, realizzato su scala molto ampia, consentì la modernizzazione del Brasile e permise di rimediare alla strategia di investire solo nella produzione del caffè, con il duplice effetto, da una parte, di avere un ambito agricolo non coinvolto nella crisi che, alla fine dell’Ottocento, aveva colpito la coltura del caffè e, d’altra, di assicurare con la policoltura una risposta più soddisfacente alle esigenze alimentari del Paese.

Quanto fatto dai coloni fu prodigioso perché non trovarono un alloggio nei terreni loro assegnati e, con scarsi mezzi per dissodare il terreno e promuovere le colture, dovettero affrontare un durissimo regime di vita. Grazie alle conoscenze del lavoro agricolo acquisite in Italia, riuscirono a rendere fertili quei territori selvaggi, costruendovi i loro villaggi, cui sovente diedero un nome italiano. La durezza delle condizioni, ai limiti della sopravvivenza, era attestata nei vari resoconti stilati dagli ispettori inviati dalle nostre rappresentanze consolari.

Furono specialmente i veneti a farsi carico della colonizzazione delle aree a sud del Paese (Paranà, Santa Caterina e Rio Grande do Sul), che costituirono il principale sbocco dell’immigrazione italiana fino al grande esodo di massa del 1887. In queste aree, e specialmente a Rio Grande do Sul, gli italiani rappresentarono la quota maggioritaria della presenza straniera (oltre la metà del totale in certi insediamenti). Le denominazioni scelte per le nuove colonie facevano riferimento sia alla patria, come nel caso di Nova Italia, sia ai territori di nascita (Nova Padova, Nova Vicenza, Valle Veneta, Nova Belluno, Nova Fiume, Nova Udine, Novo Tirol e così via): non senza fondamento si è parlato di una “patria ricreata”. Era proprio come se diverse province italiane fossero state trapiantate in Brasile, dove, perché si era isolati, fu agevole mantenere le tradizioni e le lingue dei luoghi di origine. Essi continuarono a parlare i loro dialetti, a mantenere lo stesso stile nelle costruzioni (case in legno con il tetto spiovente), ad attenersi allo stesso sistema di alimentazione, a divertirsi con gli stessi giochi (segnatamente quello delle bocce e delle carte).

In questa dura fase d’insediamento fu di grande sostegno l’assistenza dei missionari cattolici italiani. Spesso i sacerdoti appartenevano allo stesso villaggio dei coloni e partivano insieme agli emigrati [14]. La spedizione Tabacchi fu, per l’Italia settentrionale, il primo caso di arruolamento massiccio di emigrati per il Brasile. La colonia che essi andarono a fondare fu chiamata Nuova Trento, ma in seguito ne furono fondate anche altre con lo stesso nome, così come furono molte le navi che a seguire fecero sbarcare in Brasile un gran numero di italiani [15]. Pietro Tabacchi era un commerciante trentino, che, giunto al fallimento e intenzionato a sfuggire ai creditori, nel 1850 si trasferì in Brasile, nello Stato di Espirito Santo, nella città di Santa Cruz, dove riuscì ad avviare una fiorente attività con l’esportazione di legnami. Con le risorse messe da parte, nel 1873 egli acquistò ingenti appezzamenti di terreno vicino a Santa Cruz e ottenne dei finanziamenti dal governo per destinarli alla coltura del caffè, inserendovi emigrati europei. Nello stesso anno Tabacchi si recò nel Trentino e riuscì convincere all’esodo diverse centinaia di corregionali (386), che si imbarcarono a Genova, sul veliero “Sofia”, all’inizio del mese di gennaio 1874 e sbarcarono a Vitoria nello Stato Espirito Santo [16].

Secondo il contratto ciascun contadino avrebbe avuto il passaggio gratuito in nave, il trasporto fino alla fazenda, l’assegnazione di un appezzamento di dodici ettari da riscattare in 5 anni a un prezzo equo, la disponibilità di un alloggio e del vitto per sei mesi con l’impegno a lavorare gratuitamente per la fazenda per un anno. Nei tre anni successivi avrebbero continuato a lavorare ma dietro un compenso pattuito.

L’iniziativa si rivelò ben presto destinata al fallimento. I terreni della fazenda, a pochi chilometri dalla città portuale di Santa Cruz (considerata la culla della grande emigrazione italiana in Brasile), non erano adatti alla coltura del caffè (tra l’altro, essendo ubicati lontano, richiedevano molto tempo per il trasferimento), così come le condizioni climatiche non erano adatte per lavoratori provenienti dall’Europa. Tabacchi non si mostrò in grado di rispettare le condizioni di insediamento, ospitando i contadini promiscuamente in grandi capannoni e non garantendo un vitto adeguato. Anche se il fazendero trentino diffidò sulla stampa di assumere gli emigrati da lui reclutati, questi si ribellarono e se ne andarono in altri posti (anche nella vicina colonia della Leopoldina) [17] e furono pochi quelli che rimasero con lui solo (una ventina di famiglie). Oberato di debiti e affranto di fronte a questo clamoroso fallimento, morì nello stesso anno.

 Questi pionieri riuscirono a creare un’agricoltura fiorente e, tra l’altro, diedero inizio alla coltivazione della vite, fino ad allora sconosciuta in Brasile. Nelle colonie non era accentuata, come in città, la differenza censuaria, anche perché i proventi derivanti dal lavoro non erano così elevati. Era ricorrente il motto: “Il primo anno agricoltore, il secondo affittuario, il terzo proprietario”. In realtà questa progressione non si rivelò per tutti così agevole, ma alla fine molti riuscirono a diventare piccoli proprietari. Sotto l’aspetto lavorativo è interessante puntualizzare che i coloni erano propensi alla policoltura e, in forza di tale diversificazione, poterono, meglio dei fazenderos, far fronte alla crisi che colpì la produzione del caffè, dovuta alla sua sovrapproduzione. Il sacrificio iniziale equivalse a un fruttuoso investimento. Questi lavoratori, da una parte furono accolti nel Paese e, dall’altra, furono essi stessi fondatori del Brasile moderno.

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Giovanni Rossi

L’internazionalismo anarchico-socialista ispiratore della colonia fondata da Giovanni Rossi [18]

Il contributo dato dagli italiani alla colonizzazione del Brasile incluse anche l’esperienza di una comunità anarchico-libertaria, realizzata dal pisano Giovanni Rossi (1856-1943) con la partecipazione di alcuni emigrati. Si è pensato di indugiare su questo tipo di colonizzazione, sia perché non venne attuato da una comunità di famiglie e sia perché venne ispirato da una ideologia sociale [19].

Le colonie libertarie anche prima, pur con le loro differenze, ebbero come tratti comuni l’individualismo o l’anarchismo (inteso come rifiuto dell’autoritarismo a favore dell’autogestione), il comunismo inteso come proprietà comune e il rispetto della natura. La peculiarità della colonia “La Cecilia”, realizzata dal Rossi in Brasile, fu quella di basarsi sul coinvolgimento degli emigrati, in parte da lui personalmente cooptati sulla nave partita nel 1890 per il Brasile da Genova e in parte reclutati in seguito in Italia negli ambienti anarchici. La colonia “La Cecilia” fu diversa da quella creata dallo scienziato svizzero Moisés Santiago Bertoni (1857-1929), che fondò in Paraguay una colonia agricolo-scientifica. Rossi volle studiare, in maniera sperimentale e scientifica, le attitudini umane nell’ambito della produzione agricola, superando l’attaccamento alla proprietà individuale e promuovendo il lavoro in comune, accettato in modo spontaneo. Dopo essersi laureato a Pisa in agronomia, Rossi seppe unire alla passione per la sua materia la diffusione delle idee libertarie. Nel 1878, utilizzando lo pseudonimo “Cardias”, pubblicò il volume Un comune socialista, un progetto di convivenza di stampo anarchico. Per queste sue idee subì anche il carcere, per diversi mesi, ma poi fu assolto in fase di giudizio. Dopo aver dato alle stampe altri saggi di agronomia, riuscì a conferire una forma concreta ai suoi ideali con la fondazione di una colonia d’impostazione comunista e anarchica, i cui principi vennero spiegati nel giornale da lui fondato Lo sperimentale.

Infatti, nel 1897, con l’appoggio del leader socialista Bissolati, fondò una colonia a Cittadella (in provincia di Cremona). Questa esperienza dovette però essere interrotta a causa della diffidenza della popolazione locale. Rossi, senza desistere dal perseguimento del suo progetto, partì per il Brasile sulla nave “Città di Roma” e, durante il viaggio, presentò il suo progetto sperimentale ai passeggeri anarchici e socialisti, trovando alcune adesioni: altre le trovò in seguito, ritornando appostante in Italia. La comune “La Cecilia”, fu fondata a 100 km da Curitiba, capoluogo del Paranà, nel sud del Brasile. Non trova un supporto negli archivi la tesi che il terreno fosse stato messo a disposizione dall’imperatore Pedro II, così come non è provato che Rossi lo avesse conosciuto a Milano. Isabelle Felici, dopo un analisi dei documenti disponibili, nella ricerca presentata presso l’Università di San Paolo nel 1889 (e riproposta, con aggiornamenti, a La Sorbonne Nouvelle – Paris II nel 1994), ha sostenuto che, da quando fu detronizzato nel 1890, Pedro II non sapeva nemmeno dell’esistenza della colonia di Cecilia [20]. Pertanto, non essendo stata .riconosciuta fondata la tesi della concessione pubblica del terreno, dopo che alla monarchia successe la repubblica, fu chiesto il pagamento delle tasse, fattore che influì sulla chiusura della colonia nel 1894, che però non fu causata solo da difficoltà di natura finanziaria. La scrittrice brasiliana Zelia Gattai, discendente di immigrati italiani che si imbarcò con Giovanni Rossi sul vapore Città di Roma e che partecipò alla colonia Cecilia, ha pubblicato due libri intitolati Anarchici, grazie a Dio (1979) e Città di Roma (2000 [21].

Superate, oltre alle altre, anche le difficoltà tecniche da affrontare in un territorio sconosciuto, inizialmente i risultati furono buoni sia sotto l’aspetto economico che sperimentale, ma non furono del tutto soddisfacenti per quanto riguardava la gestione dei rapporti interpersonali non gerarchizzati tra i coloni. Si registrò anche la fuga di un membro con la cassa della comunità. Su questi aspetti si soffermò Rossi nel suo scritto del 1885 Il Paranà nel XX secolo. Utopia di Giovanni Rossi (Cardias). In precedenza, a Livorno, aveva dato alle stampe due opuscoli intitolati, Cecilia comunità anarchica sperimentale (1891) e Un episodio d’amore nella colonia Cecilia (1893). In questi ultimi testi, mentre l’esperienza era ancora in corso, non mancò di evidenziare gli aspetti positivi della colonia, senza però omettere quelli negativi. Questi ultimi furono diversi: l’instabilità dovuta alla continua alternanza dei coloni, i furti ricorrenti, l’egoismo delle singole famiglie (ritenuto un vizio borghese), la mentalità conservatrice delle donne, il forte richiamo delle città in grande espansione e bisognose di manodopera aggiuntiva. Si è pensato anche che le numerose e inconcludenti assemblee non fossero state d’aiuto alla resilienza dell’iniziativa.

un-comune-socialistaRossi, sempre convintamente libertario, svolse, presso alcune scuole nella regione del Paranà, incarichi come agronomo, ma sorvegliato dalla polizia locale in quanto anarchico. Egli fondò anche alcune cooperative agricole per migliorare il sistema di produzione rurale. Nel 1907 rientrò definitivamente in Italia insieme alla compagna e alle figlie e trascorse il resto della sua vita più da agronomo che da anarchico. L’avvento del fascismo lo trovò vecchio e stanco degli eventi e delle relazioni pubbliche. La scrittrice italo-brasiliana Zelia Gattai, discendente di italiani che si imbarcarono con Giovanni Rossi sul vapore “Città di Roma” e fecero parte della colonia “Cecilia”, ha pubblicato due volumi su queste vicende: nel 1979 Anarchici, grazie a Dio, e, nel 2000, Città di Roma [22]. A distanza di tempo non manca di evidenziare la tenacia nel voler congiungere l‘ideale libertario con la produzione agraria, senza esimersi dal seguire il duro percorso dei coloni. La sua esperienza induce a riflettere che la sua figura dell’anarchico rivoluzionario, più che essere lontana dalla socialità, lo era dal realismo. Il tentativo di Rossi fu breve, ma l’influenza del movimento anarchico non finì con il suo rimpatrio e continuò a diffondere le sue idee specialmente tramite la stampa. A promuovere la divulgazione erano gli attivisti, che si erano distinti in patria con la loro azione ed erano diventati invisi e sovente contrastati dalle autorità, per cui l’emigrazione fu per loro una via di scampo, ma anche un’occasione per trovare compagni di lotta tra i connazionali.

I periodici anarchici di quel periodo – di cui il primo fu il 1° Maggio, che iniziò a essere pubblicato a San Paolo nel 1892 – si basavano sull’apporto volontario dei militanti e insistevano sulla denuncia dei soprusi riscontrabili nelle fazendas e nelle fabbriche, contribuendo così alla formazione della coscienza di classe da parte degli emigrati. Un altro periodico, edito a San Paolo in quegli anni, recava il titolo Gli schiavi bianchi, con l’allusione al fatto che essi avevano semplicemente sostituito quelli neri, mentre permanevano le condizioni di sfruttamento. Dopo il 1902, con il decreto Prinetti che vietò l’emigrazione sovvenzionata, il periodico anarchico più rappresentativo fu La battaglia (San Paolo 1904-1912). Si deve ricordare, tuttavia, che il loro impatto fu limitato dalla scarsa possibilità di diffusione della loro propaganda nelle fazendas e dall’alto livello di analfabetismo tra gli italiani. L’insanabile contrasto tra l’anarchia e il cattolicesimo si mostrò in tutta la sua evidenza nella città di San Paolo.

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Mons. Scalabrini all’Orfanotrofio della Missione di San Paolo in Brasile

L’assistenza dei missionari cattolici agli emigrati [23]

L’emigrazione, con i relativi spostamenti, ampliò non solo gli orizzonti territoriali, ma sollecitò anche un’elaborazione concettuale del suo significato più profondo. La Chiesa cattolica propose un inquadramento morale del fenomeno, prodigandosi nel migliorare la situazione esistenziale da comporre con la salvaguardia della fede in un Paese diverso dalla propria patria (internazionalismo pastorale). La corrente anarchico-socialista propose, invece, un internazionalismo politico-economico, antiautoritario e anticlericale. La proposta del cattolicesimo consisteva nel considerare l’annuncio evangelico in grado di predisporre alla salvezza spirituale e, nello stesso tempo, di salvaguardare la dignità morale, l’attaccamento alla famiglia, al lavoro, alle tradizioni e alla patria, senza escludere una migliore tutela del lavoro ma sempre all’interno dell’ordine costituito. La radicale denuncia dei soprusi, la lotta di classe, l’avversione al capitalismo e il superamento di un’autorità ritenuta vessatoria erano, invece, le caratteristiche del credo degli anarchici e dei socialisti, che vedevano nella Chiesa una forza conservatrice e perciò da osteggiare con forza.

Solo dopo la Seconda guerra mondiale si è avuto un avvicinamento tra la prospettiva religiosa e quella laica sui temi del lavoro, ma qui è opportuno ritornare al conflitto di quei tempi, manifestatosi anche nei Paesi dove andavano a vivere gli emigrati. La tradizione religiosa faceva parte della cultura degli italiani che partivano, ma l’emigrazione rischiava di affievolirla e infine estinguerla. Leone XIII, il papa che diede il via alle Encicliche sociali facendo rientrare la questione operaia nelle preoccupazioni pastorali della Chiesa cattolica, nel 1887 incaricò Mons. Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, di costituire un ordine che si occupasse dell’assistenza spirituale ai migranti (Congregazione dei Missionari di San Carlo, meglio noti come Missionari Scalabriniani) e di fondare a Piacenza un seminario che li preparasse alla missione. I primi due Paesi nei quali si realizzò il loro intervento furono gli Stati Uniti e il Brasile, mentre successivamente la presenza dei missionari fu estesa ad altri Paesi, con l’intervento anche di altre congregazioni religiose, come quella dei Salesiani. Nel 1988 furono inviati i primi missionari scalabriniani, che seppero unire alla preoccupazione pastorale la tutela sociale. Nel 1894 giunse in Brasile il missionario scalabriniano Giuseppe Marchetti, che l’anno successivo fondò a San Paolo l’orfanotrofio Cristoforo Colombo e svolse, in tutto lo Stato di San Paolo, una straordinaria azione di assistenza caritatevole. I padri scalabriniani ebbero cura, nonostante le enormi distanze da percorrere, spesso a cavallo ma anche a piedi, di visitare le fazendas, previa autorizzazione dei proprietari. Essi ebbero così modo di constatare i soprusi e di prestare agli emigrati un certo conforto. Le 1500 fazendas, con le loro cappelle, in pratica diventarono delle parrocchie, dotate anche di scuole. L’opera dei missionari italiani assicurò un grande impulso alla Chiesa brasiliana, come si vide dalle vocazioni che essa suscitò e dalle strutture religiose create negli insediamenti degli emigrati, come anche dal forte sviluppo delle congregazioni religiose: per questo motivo lo storico scalabriniano Gianfausto Rosoli parlò del “superamento della Chiesa etnica” [24].

I cattivi rapporti tra gli anarchici e il clero conobbero il punto più basso tra la prima e la seconda decade del Novecento con lo scoppio del “caso Idalina”. Un fratello e una sorella, entrambi minori e affidati a un tutore, furono da questi collocati presso il citato Orfanotrofio “Cristoforo Colombo”, diretto dal missionario scalabriniano Faustino Consoni, operatore pastorale molto dinamico in città. Presso la struttura, riservata alle orfane, si presentò in seguito una donna che, asserendo (falsamente) di essere la madre della ragazza Idalina, la ricevette prontamente in consegna dal missionario che momentaneamente sostituiva il direttore, senza condurre alcun tipo di accertamento. Il tutore, venutone tardivamente a conoscenza, sporse una denuncia e il fatto diventò di dominio pubblico. La rivista La Battaglia iniziò, con un articolo firmato dal redattore Ristori, una campagna contro l’Orfanotrofio e il clero che lo gestiva, fino a sospettare un abuso sessuale sulla ragazza e (si sospettò anche della sua successione). Furono diverse le testimonianze negative di ex ospiti della struttura. Si svolse un dibattito pubblico, in cui si confrontarono Ristori e Consoni, difensori di tesi diametralmente opposte. Il caso continuò a essere enfatizzato e nel 1911 si svolse a San Paolo una straordinaria manifestazione pubblica, che coinvolse tutti i movimenti anarchici e anticlericali della città, per sollecitare l’intervento della giustizia. Intervenne invece l’esercito, che disperse i manifestanti, di cui molti furono fermati e diversi organizzatori arrestati. La stampa borghese, con una sola eccezione, non accettò la tesi colpevolista e insinuò che si fosse di fronte a un tentativo di screditare e ridimensionare l’opera dei missionari a livello sociale ed educativo.

La dimostrazione di forza, da una parte portò all’allontanamento di padre Consoni da San Paolo, perché ritenuto responsabile della scomparsa della ragazza, ma in pratica mise fuori mischia anche Ristori. Il suo successore alla direzione della rivista, Luigi Damiani, nel 1919 fu espulso dal Brasile, ponendo così fine alla fase dell’acerbo contrasto tra il movimento sindacale e l’ambito ecclesiale. Padre Consoni fece invece ritorno a San Paolo nel 1919, quando la vicenda fu considerata definitivamente chiusa. Comunque fossero andate effettivamente le cose, era chiaro come in quel tempo andassero in direzioni diametralmente opposte due forze, rispettivamente quella religiosa e quella umanitaria, che si interessavano della promozione degli emigrati: una frattura allora insanabile e che guarirà solo dopo molto tempo [25].

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Getulio Vargas

Dopo la Prima guerra mondiale

Nel periodo tra le due guerre mondiali, il governo fascista si sforzò per consolidare il senso di identità italiana tra gli emigrati, che considerava gli ambasciatori del Paese e della sua ideologia. Nel periodo tra le due guerre arrivarono in Brasile oltre 3.600.000 di emigrati, di cui il 38% era costituito da italiani. Viene talvolta ricordato (ad esempio da Trento e da Gairo) che Mussolini, in un discorso tenuto a Trieste nel 1920, enfatizzò la predominanza della lingua e della cultura italiana nello stato di San Paolo.

Intervenne una battuta d’arresto nel processo di piena identificazione degli immigrati con il Brasile dopo che il governo fascista scese in guerra a fianco della Germania, mentre il Brasile, prima neutrale, su pressione degli Stati Uniti nel 1942 entrò in guerra a fianco degli alleati. Il presidente Vargas inviò un contingente militare (Forza expedizionaria Brasileira – FEB), che operò in Toscana e in Emilia Romagna e si distinse non solo per l’eroismo ma anche per la straordinaria simpatia che suscitò tra le popolazioni locali. In Brasile, invece, durante la guerra non fu favorevole l’atteggiamento nei confronti dei cittadini italiani. Tra l’altro il governo brasiliano fece cambiare i nomi italiani delle associazioni, alcune di quelle molto bene organizzate a carattere sportivo, obbligando a scegliere un nome portoghese. Ad esempio, la Società Sportiva Palestra Italia, costituita dagli italiani nel 1914, fu costretta a questo cambiamento e diventò la Socieda de Esportiva Palmeiras, che tuttora si colloca al vertice delle società sportive. Naturalmente, anche l’utilizzo e la diffusione dell’italiano subirono una battuta d’arresto durante la Seconda guerra mondiale.

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Monumento all’indipendenza brasiliana, opera degli architetti  italiani Ettore Ximenes e Manfredo Manfredi, 1926

La comunità nel Secondo dopoguerra

In Brasile, dal 1946 sino al 1960, entrarono 110.932 italiani. Si trasferirono in Brasile nell’immediato dopoguerra anche molte persone che avevano militato nelle organizzazioni fasciste, ex dirigenti, ex ministri e militanti della Repubblica Sociale Italiana. Il livello dì istruzione degli espatriati andò elevandosi e ciò, unitamente alla diversa mentalità, da una parte facilitò il loro inserimento e, dall’altra, generò anche qualche difficoltà nel raccordo con gli italiani che già stavano sul posto. Si è visto che il ritmo intenso degli espatri degli anni ‘5o e ’60, si attenuò negli anni ’80 (poco meno di 10 mila casi l’anno) e ancor di più nei due decenni successivi.

Negli anni 2000 intervenne una ripresa dei trasferimenti degli italiani per l’estero (prima lieve e nel secondo decennio più consistente) sia oltreoceano sia, in misura superiore, in Europa. Per quantificare questi flussi torna utile far riferimento all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero /AIRE), in grado di registrare gli spostamenti in misura superiore rispetto all’ISTAT, perché non tutti si cancellano dalle anagrafi del comune di residenza prima di trasferirsi all’estero (l’Istituto nazionale di statistica si basa su tali anagrafi). Nel periodo 2000-2019 l’’AIRE ha registrato in Brasile, per emigrazione 208.644 casi su un totale mondiale di 1 milione e 410mila. Nel ventennio preso in considerazione la media degli espatri in Brasile è stata di circa 5 mila unità l’anno, aumentati però a 10 mila nel 2019. Questi dati consentono di affermare che questo Paese resta una meta importante per chi decide di emigrare, anche se meno rispetto al passato.

Sono circa 450 mila quelli che hanno conservato la cittadinanza italiana e, come accennato in apertura, fino a 60 volte di più i residenti con origine italiana. La maggiore presenza della comunità italiana, presa nel suo complesso, incide per circa un terzo sull’intera popolazione residente negli Stati di San Paolo, del Paranà, Rio Grande do Sul, mentre l’incidenza è stimata pari al 50% nello stato di Santa Catarina. Tra gli aspetti riguardanti una comunità, così bene inserita, meritano di essere presi in considerazione quelli riguardanti l’associazionismo e la lingua italiana.

L’associazionismo tradizionale tra gli italiani, che ebbe le sue origini nella fase in cui l’Italia era il principale punto di riferimento, attualmente abbisogna di essere ripensato nelle sue forme al fine di non incorrere in una sorta di separatezza rispetto al profondo inserimento realizzato dagli italiani. Va aggiunto, del resto, che questa esigenza è sentita anche dalle comunità italiane stabilitesi negli altri Paesi. La questione dell’italiano pone in evidenza un’apparente dissonanza tra l’italianità profondamente sentita, e l’abitudine di parlare italiano poco diffusa. Su questa situazione hanno influito diversi fattori: il fatto che la lingua parlata dai pionieri non fosse l’italiano ma il proprio dialetto (quello dei veneti, in effetti, è stato mantenuto in vita); la naturalizzazione dei figli nati sul posto che porta a avvantaggiare il portoghese come lingua di comunicazione (in particolare nelle aree urbane), le politiche restrittive circa l’utilizzo delle lingue straniere e specialmente dell’italiano durante la Seconda guerra mondiale.

Il talian, un misto tra veneto antico e portoghese, si è mantenuto in vita e nel 2009 è stato dichiarato un patrimonio storico e culturale da una legge dello Stato di Rio Grande do Sul, ma ne è stata riconosciuta l’importanza anche negli Stati di Santa Catarina e Espírito Santo. L’italiano nel futuro potrà essere maggiormente valorizzato dagli oriundi come lingua di cultura e, pertanto, le strategie sulla sua diffusione dovranno far perno non sulla dimensione strumentale ma su quella strutturale [26].

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Museo dell’immigrazione italiana a San Paolo

La persistenza dell’italianità nella patria del “meticciato” [27]

L’integrazione degli italo-brasiliani appare più profonda se confrontata con quella riscontrabile negli Stati Uniti, un Paese in cui gli italiani hanno la stessa anzianità migratoria, ma qui essi ancora non hanno avuto un loro rappresentante al massimo vertice politico del Paese e la loro origine italiana suscita ancora qualche riserva. La sostanziale differenza può essere considerata la seguente: in Brasile gli italiani, in considerazione dell’apporto assicurato dai pionieri dell’emigrazione e dei loro discendenti, si considerano e sono riconosciuti un fattore fondante del nuovo Brasile, nato con il superamento del passato coloniale e l’inclusione delle differenze, ivi compresa l’italianità. Così commenta quest’aspetto Guido Clemente, avvalendosi di un osservatorio privilegiato come l’Istituto italiano di cultura della città di San Paolo: «Le manifestazioni di italianità degli oriundi, soprattutto nello Stato di San Paolo e in genere del sud, non sono manifesta­zioni di un nostalgico richiamo alla patria d’origine. Sono piuttosto un modo di sottolineare una identità in un Paese che le identità le ha integrate, incluse in una nuova cultura, fatta di abitudini, idiomi, costumi, non conflittuali tra loro, e neanche in concorrenza».

La cultura degli emigrati italiani, espressa dai pionieri in forme umili (e comunque di grande efficacia sul piano lavorativo) e mantenuta e perfezionata dai discendenti, a loro volta diventati essi stessi élites nei vari campi, ha concorso, con la comunità dei brasiliani, quelli di antica discendenza (apertisi al superamento del colonialismo), con la comunità degli afro-americani e con le altre grandi comunità immigrate (anche se quantitativamente non così consistenti come quella italiana) alla elaborazione di un nuovo concetto di nazione. Gli emigrati e la popolazione locale che li ha accolti hanno maturato insieme una concezione del tutto peculiare delle differenze etnico-culturali, riconoscendole come base del Brasile che ha identificato la sua modernità nel superamento della separatezza del periodo coloniale. Nel corso del dibattito, condotto nel dopoguerra in Europa sull’integrazione, si è giunti a riconoscere alle nuove identità, di cui gli immigrati sono portatori, una pari dignità da valorizzare nel contesto di un proficuo dialogo.

Questa è, ad esempio, la corrente di pensiero più avanzata che è stata adottata ufficialmente in Canada, mentre nei Paesi europei tale impostazione ha conosciuto un andamento discontinuo e da ultimo è stata messa in crisi dal ritorno delle impostazioni nazionalistiche, a fronte delle nuove caratteristiche dei flussi migratori e dell’andamento dell’economia. Anche negli Stati Uniti, dove l’integrazione ha dischiuso agli oriundi gli obiettivi socio-culturali più promettenti, essi si sono aggiunti alla componente anglosassone, che si considera costitutrice del Paese e come tale ha accolto i nuovi venuti.

Se la riflessione sull’integrazione non è condotta in esclusiva chiave eurocentrica, o al più occidentale (citando ad esempio le esperienze degli Stati Uniti, del Canada e dell’Australia), si percepisce l’insegnamento del “caso Brasile”, come la patria del meticciato e dell’ibridazione, che ha saputo unire la cultura africana con quella latina. Qui l’italianità è stata incorporata nel tessuto comune, che essa stessa ha concorso a formare. Gli oriundi, anche quando non parlano o parlano poco l’italiano, sono orgogliosi della loro discendenza italiana, che non ha dovuto subire un deprezzamento. Comunque, l’attaccamento all’italianità, come ha sostenuto Gaio nei suoi saggi, si configura come una situazione mobile, che nel tempo può apparire potenziata o indebolita e che naturalmente può essere rinvigorita dalle strategie italiane (a livello governativo e sociale) e, anche se ritenuta talvolta inadeguata, deve essere avviata su nuovi percorsi [28].

Questo saggio si chiude con un breve commento di una italo-brasiliana, che ha contribuito alla redazione del testo.

Il Brasile è un “continente” che ha accolto, e continua ad accogliere, immigrati che portano la propria cultura, la propria religione e i propri costumi. Essi hanno la possibilità di integrazione con la cultura nazionale brasiliana, fruendo della libertà di espressione. Dopo tutto, cos’è la cultura nazionale brasiliana se non un misto di culture: indigena, europea, asiatica e africana? E così, templi evangelici, buddisti ed ebraici, moschee e chiese cattoliche sono sparsi in tutto il Paese, come le radici africane, con le loro case di preghiera, sono ben rappresentate nel territorio. Su un altro versante, la diversità culturale e gastronomica permette al brasiliano di conoscere un po’ di ogni comunità con le rispettive usanze e peculiarità. Vivere con una tale diversità ci ha permesso di avere una maggiore capacità di accettare e accogliere gli altri, senza tanti pregiudizi. Poiché il Brasile è un Paese con una grande mescolanza, la diversità fenotipica è strana. A me stessa è stato più volte domandato (con scetticismo) se fossi realmente una brasiliana. Come discendente da austriaci e italiani, giunti in Brasile nel 1888, ammiro il coraggio di queste persone, che hanno attraversato i mari con la speranza di una vita migliore. Lavoratori instancabili, con grande fatica essi sono riusciti a dare ai propri discendenti un futuro migliore, con dignità. L’italianità, in noi brasiliani, è sorprendente, presente, pulsante, il che mostra il rispetto e l’ammirazione che abbiamo per i nostri antenati.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note

[1] Pare che nel 1498 il Brasile fu raggiunto dal navigatore portoghese Duarte Pacheco Pereira, probabilmente al servizio del re D. Manuel I. Si sostiene anche che nel 1490, diversi mesi prima dell’arrivo di Cabral, gli spagnoli Vicente Yañez Pinzón e Diego de Lepe avessero navigato lungo le coste brasiliane.
[2] La tratta degli schiavi fu ritenuta necessaria per lo sviluppo della colonia brasiliana e continuò a essere praticata ancora nell’Ottocento, per una buona metà di quel secolo, con oltre 4 milioni di africani qui deportati, facendo del Brasile il paese che beneficiò maggiormente di questo commercio umano.
 [3] Ainfas, R.,  Dicionário do Brasil Imperial, Rio de Janeiro: Objetiva, 2002.
[4] Roma 1968: 28.
[5] Ad esempio, viene spesso ricordato che nel 1820 il Regno delle Due Sicilie attuò una deportazione in Brasile  per realizzare un progetto di colonizzazione agricola.
[6] Garibaldi non disdegnò di esercitare un umile mestiere anche quando si trattenne a New York, ospite di Antonio Meucci, che aiutò nella sua fabbrica di candele steariche. Cfr. Pittau F., “Due secoli di immigrazione negli Stati Uniti: storie di italiani”, in Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020.
[7] Quelli provenienti da territori non ancora annessi all’Italia venivano classificati come austriaci.
[8] Oggi tutta i registri e tutta l’altra documentazione, relativa agli migranti ospitati dall’Hospedaria (struttura che cessò di operare definitivamente solo nel 1978), sono conservati a in quello che oggi è diventato il Museu da Imigração, di cui è possibile consultare anche online l’archivio digitale: http://www.inci.org.br/acervodigital/.
[9] Anche conosciuto come Hospital Matarazzo, fu costruito nel 1904 da Francesco Matarazzo e terminò la sua attività nel 1993, per fallimento. Attualmente è in restauro, sarà trasformato in un complesso immobiliare di lusso.
[10] Nato nel 1854 a Castellabate (SA), emigrò in Brasile all’età di 27 anni, partendo dal porto di Genova e sbarcando a Santos, nello stato di San Paolo. Si trasferì dapprima nella città di Sorocaba (SP), dove aveva aperto una fabbrica e successivamente a San Paolo città, aprendo un’altra azienda. La sua attività crebbe tanto da operare in diverse aree: finanziario, petrolifero, metallurgico, alimentare, chimico e tessile.
[11] Insieme a Giuseppe Puglisi Carboni e altri azionisti italiani.
[12] Cfr. Trernto A., “Do Outro Lado Do Atlântico. Um século de imigração italiana no Brasil”, Nobel, 1989: 147.
[13] Detta anche Lei Rio Branco, prendendo il nome dal Primo Ministro José Paranhos, visconte di Rio Branco.
[14] Cfr. Azzi C., “Religione e patria: l’opera svolta dagli scalabriniani e dai salesiani fra gli immigrati”, in Fondazione Giovanni Agnelli, La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile, cit.:239-260.
[15] Grosselli R, M., “I colonizzatori della Valsugana,”, in L’Aquilone. Birgo Valsugana, 18 giugno n.18, 2000
[16] Il 21 febbraio è la giornata scelta in Brasile per commemorare l’arrivo degli immigrati italiani.
[17] Va ricordato che l’imperatore Pedro II era figlio di Maria Leopoldina d’Asburgo e che la prima emigrazione di tirolesi di lingua italiana il Brasile avvenne del 1859, con la fondazione del villaggio “Dorf Tirol” a Santa Leopoldina, nello Stato di Espirito Santo. Dal 19075 in poi arrivarono migliaia di tirolesi di lingua italiana. cfr. Altmayer E., L’emigrazione dei tirolesi in Brasile, https://www.ilmondodeglischuetzen.eu/files/Emigrazione-tirolese-in-Brasile.pdf.
[18] Betri, Maria Luisa. 1971. Cittadella e Cecilia: due esperimenti di colonia agricola socialista, Milano: Edizioni del Gallo, 1971; Gosi R., Il socialismo utopistico. Giovanni Rossi e la colonia anarchica Cecilia, Milano, Moizzi Editore, 1977.
[19] L’esperienza di Rossi fu la prima del suo genere in America Latina, mentre esperienze collettiviste erano già da tempo diffuse nel Nord America.
[20] Una sintesi delle argomentazioni della Felici è stata pubblicata sulla Rivista Storica dell’Anarchismo nel 1996 (numero 2, secondo semestre).
[21] Le due opere sono state tradotte e pubblicate in Italia dalla casa editrice Sterling & Kupfer.
[22] I due volumi sono stati in Italia dalla casa editrice Selling & Kupfer, rispettivamente, nel 2006 e nel 2002.
[23] Bignami T., Il controllo delle coscienze nel Nuovo Mondo: missionari e anarchici alla conquista degli emigranti italiani nel Brasile della República Velha, https://storicamente.org/bigmani-emigranti-italiani-brasile-chiesa-cattolica-anarchici: cfr- anche Rosoli G., “Chiesa ed emigrati italiani in Brasile. 1880-1940.” Studi Emigrazione, 1982: 225-52.
[24] Cfr. Rosoli G., Emigrazioni europee e popolo brasiliano, Roma, Centro Studi Emigrazione, Roma 1987.
[25] Cfr. La riscoperta delle Americhe: Lavoratori e sindacato nell’emigrazione italiana in America latina, 1870-1970, Teti, Milano 1994.
 [26] Gaio M. L. M., L’italiano in Brasile, 2018,
 ttps://www.researchgate.net/publication/334677331_L%27italiano_in_Brasile.
[27] Abbiamo trovato stimolanti le considerazioni di Guido Clemente, maturate come direttore dell’Istituto italiano di culturta di San Paolo: “Gli italiani in Brasile: la nascita di una nazione,
 http://ww.sagarana.net/anteprima.php?quale=783.
[28] Cfr.  Gaio M. L.M.: L’italiano in Brasile, 2018, https://www.researchgate.net/publication/334677331_L%27italiano_in_Brasile.

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Federico Jorio, si è laureato in Scienze della comunicazione presso la Sapienza Università di Roma (2004), dove ha conseguito anche il titolo di dottore di ricerca nella medesima area (2010). Nel 2009 ha ottenuto la certificazione DITALS – II livello per l insegnamento dellitaliano a stranieri. Dal 2013 al 2019 ha vissuto unesperienza di vita e lavoro in Brasile, riuscendo a farsi riconoscere entrambi i titoli di studio. Attualmente si occupa di insegnamento dellitaliano a stranieri e nel futuro ha intenzione di dedicarsi all insegnamento scolastico nelle materie filosofiche e di scienze umane.
 Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino al 2017, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70. Ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche sul fenomeno migratorio. Attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico e docente presso il MEDIM dell’Università Tor Vergata di Roma (Master in economia, diritto, intercultura e migrazioni).
 Sandra Waisel dos Santos, è una cittadina brasiliana di discendenza italiana per via materna. I suoi nonni sono originari dalla provincia di Trento. Cresciuta nello Stato di San Paolo, si è poi trasferita a Salvador Bahia. Inizialmente ha esercitato la professione di medico dentista e poi è diventata imprenditrice. Sempre consapevole delle sue origini italiane, da ultimo ha incrementato i rapporti con l’Italia.

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