È stato pubblicato nel mese di novembre del 2020 il poderoso volume curato dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, dal titolo: Il diritto d’asilo, Report 2020. Costretti a fuggire… ancora respinti [1]. Il volume è il quarto di una serie di Rapporti che a partire dal 2017 hanno visto la luce per documentare nel dettaglio le tragiche vicende delle migrazioni a livello planetario, assecondando la richiesta di papa Francesco di “dare volti alle storie”, senza fermarsi ai numeri delle statistiche, per focalizzarsi piuttosto sui soggetti più vulnerabili e dar voce a chi non ha voce. La quarta parte del volume è un approfondimento della questione riguardante la cosiddetta “rotta balcanica”, che costituisce «un sistema di violenza nel cuore dell’Europa» [2], e sulla quale, a differenza di ciò che si verifica per la “rotta mediterranea”, i riflettori mediatici sono pressoché spenti.
Eppure, con il respingimento di migliaia di profughi che provengono da aree del mondo ad alta instabilità e caratterizzate da conflitti bellici pluridecennali, si perpetrano violazioni gravissime dei diritti umani, aggressioni, maltrattamenti, mancato soccorso alle persone, loro abbandono in luoghi desolati in situazioni agghiaccianti. Il tutto tra il disinteresse generale e la mancanza quasi assoluta di informazione mediatica. Tali respingimenti vedono imputate la Slovenia, la Croazia, la Bosnia Erzegovina e in maniera non diretta, ma non meno colpevole, la Turchia.
Le immagini che circolano sul web sono sconvolgenti. Mostrano code interminabili di persone vestite alla meno peggio, sotto la neve, in attesa dell’unico pasto giornaliero. Baracche improvvisate nel bosco o fra gli scheletri di alberi di un campo bruciato dove si cerca di riscaldarsi attorno a un falò. Mancanza totale di acqua potabile e di servizi igienici e sanitari. Queste immagini testimoniano in maniera eloquente un dramma che è in corso da tempo nel cuore dell’Europa. Sono anni, da quando l’esplosione della crisi siriana ha aperto una breccia attraverso i Balcani, che lungo queste rotte si verificano violenze, respingimenti brutali, negazione di diritti, stato di abbandono. Testimoniano, inoltre, la politica di respingimenti messa in atto dall’Europa in maniera programmata.
Qualcuno ha titolato: «La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa» [3]; e questo perché i respingimenti sono illegali, in quanto si impedisce con stratagemmi immorali di accedere ai meccanismi previsti dalle politiche europee che contemplano tutele, come la protezione internazionale. Le violenze, in pratica, nascono dal sopruso che in maniera vile e del tutto arbitraria le consuma abusando di una situazione di debolezza di persone assolutamente inermi e bisognose di tutto. Scaturiscono dalla non osservanza di leggi che funzionano in maniera del tutto teorica, poste in essere solo per tacitare la coscienza politica e l’inconscio sociale collettivo, senza la pretesa di una concreta ed efficace ricaduta applicativa. E di fatto è come se non esistessero.
Secondo il Danish Refugee Council [4] solo dal marzo 2019 sono state respinte dalla Croazia verso la Bosnia 21 mila persone, un numero tale da escludere che ciò avvenga per effetto di azioni isolate e locali; si tratta, piuttosto, di un’operazione pianificata. Inoltre, sempre secondo il rapporto, il 60-70% delle persone respinte ha subìto violenza, come testimonia il Report della Fondazione Caritas di Trieste dove funziona una struttura di prima accoglienza [5] per i più fortunati che riescono a raggiungere l’Italia. Il dramma è ancora in atto e non se ne può prevedere la fine.
Ora, non intendo presentare qui un ulteriore resoconto di questa incredibile e terribile situazione. Il volume su menzionato basta a fornire dati esaurienti a chi si volesse informare più dettagliatamente. La premessa fatta intende dare l’avvio ad una riflessione di taglio umanistico-culturale che individui le cause remote e più prossime di una situazione per la quale non si può che provare vergogna, data la presunzione di vivere in una società “civile” e “progredita”, in un continente che si vanta di essere la culla dei diritti umani e il centro propulsore del cristianesimo. Noi, nonostante l’orgoglio del raggiungimento di posizioni scientifiche e tecnologiche avanzate, nonostante la titolarità di uno statuto di “civiltà” siamo solo agli inizi di un travagliato cambiamento epocale che dovrebbe tirarci fuori dalla barbarie sociale ed esistenziale. Non siamo affatto alla conclusione di un processo e nemmeno nel mezzo di esso. Siamo solo agli inizi, tranquillizzati dalla nostra presunzione culturale, dal fatto che le nostre sistemazioni nelle aree residenziali della storia occludono la visione delle periferie e dei crocicchi di questo mondo.
I problemi di ciò che abbiamo denominato Terzo Mondo, il mondo oltre il nostro e quello nuovo da noi scoperto e sul quale abbiamo impresso la nostra impronta, sono diventati una esercitazione da intellettuali, un oggetto da mondo accademico; in realtà noi non lo vediamo il Terzo Mondo, non ne avvertiamo il fermento, il giudizio terribile. Solo qualche esercitazione di intelligenza aperta ogni tanto si accorge che gli steccati di separazione da noi eretti, gli ultimi muri edificati anacronisticamente dopo quello di Berlino, scricchiolano sempre di più. Diventa sempre più urgente una sapienza storica che ci può venire solo dall’alto, da posizione diametralmente trascendente rispetto a quelle immanentistiche già usurate al loro nascere e che ci hanno condotti in questa situazione. Il discorso implica l’Umanesimo che brandiamo come una gloria e una conquista nostra, ma anche le religioni, col cristianesimo in testa che in Europa ha preteso di avere il monopolio della luce trascendente, fino all’amnesia dell’incarnazione della trascendenza quale sua caratterizzazione di eresia filosofica e di necessità teologica.
Osservando quest’onta europea della tragedia balcanica, per associazione di idee mi è venuta subito alla mente la riflessione ispirata e profetica della filosofa Maria Zambrano sulla situazione culturale europea all’epoca delle grandi dittature del secolo scorso, che la resero esule e profuga volontaria per amore di verità e di libertà. L’agonia dell’Europa [6] è un testo filosofico e lirico ad un tempo, incentrato sulle vicende del nostro continente che a tutt’oggi non trae frutto dalle lezioni del pensiero greco e del cristianesimo, toccando, nonostante le contrarie apparenze, il punto più basso del suo declino a partire da quel “secolo breve” che ha visto la nascita, il trionfo e il collasso della modernità stessa [7]. E la tragedia balcanica si profila come una spia sintomatica di una situazione di degrado culturale, di uno stato di conflitto, di costante belligeranza: chiari riflessi delle piaghe non rimarginate degli olocausti e delle guerre che nel secolo scorso cancellarono la dignità umanistica e l’eroico idealismo dell’Europa.
Ciò che è emerso dalle macerie del secolo breve, alla luce della impietosa analisi di Maria Zambrano, è ciò stesso che ai nostri giorni è causa degli squilibri più vistosi che caratterizzano la nostra epoca postmoderna. Ciò che appariva àncora di salvezza si è rivelato nostra mortale zavorra: il liberalismo progressista.
«Il liberalismo progressista, dall’origine tanto nobile, crebbe nel momento inopportuno […]. Il contenuto del liberalismo non si è saputo affrancarlo dalle sue impurità, né dalle sue maschere. Al contrario, esso ha avuto la disgrazia, proprio in virtù della sua condizione generosa, di accettare le peggiori compagnie, le alleanze più dubbie. Il principio cristiano del liberalismo, l’esaltazione della persona umana al più alto rango fra tutte le cose di valore del mondo, rimane occulto sotto il rigonfiamento, sotto la superbia. Fatuità innestata in coloro che sono stati liberali senza sentire viva, dentro il loro cuore, la segreta radice cristiana della fiducia nell’uomo, sì, ma non in tutte le cose dell’uomo, bensì in quell’aspetto per il quale egli è immagine di qualcuno che al tempo stesso lo protegge e lo limita. [Così], il liberalismo, di fronte agli attacchi, si accecò e cominciò ben presto a perdere la coscienza della sua origine, a trascurare la definizione e la chiarezza della sua essenza mentre la situazione si faceva sempre più ingarbugliata. Il pensiero europeo si aggrovigliava nelle sue proprie vittorie, falliva a causa della sua ricchezza e dell’altezza stessa a cui era giunto. Non ebbe consapevolezza rigorosa dei suoi beni» [8].
Si verificò, in breve, la morte dell’umanesimo, la cancellazione di ciò che ne era rimasto. Crebbe l’anelito di morte con la stessa smania del profitto, che mise l’uomo contro l’uomo e permise all’uno di approfittare dell’altro; si diede così vita al mostro del «capitalismo parassitario» che non guarda in volto le sue vittime [9]. Quel che Maria Zambrano ha cercato di mostrare, con tutta la passione che l’ha caratterizzata, è che non si può comprendere l’assolutismo tipico della storia dell’Occidente e dell’Europa come suo nucleo fondamentale, questo suo “peccato originale”, senza esaminare “le viscere” della sua storia. Senza rintracciare la speranza prima che esistesse l’Europa e risiedente nei suoi precedenti: l’Antico Testamento e la Grecia. La speranza che l’uomo, come creatura unica e ineguagliabile si possa realizzare. E che solo dopo, con il cristianesimo, e solo in Europa questa speranza era diventata volontà appassionata, frenetica, parola d’ordine per la liberazione degli schiavi e beatitudine per gli ultimi, progetto di umanizzazione della società. L’Europa però, dice la filosofa, ha frainteso e tradito questo progetto.
«L’europeo non ha acconsentito a rendersi schiavo di nessun Dio, neppure del suo, di quello che è sceso a rendersi schiavo dell’uomo. Neppure a questo Dio servo dell’uomo l’europeo è appartenuto. E così oggi possiamo chiedere, oggi che le più gravi domande sono lecite: ciò che ha realizzato l’Europa nella sua religione, è stato il cristianesimo? La verità è che basta sentirsi cristiano in un grado minimo per presentire e intravedere che non fu così, che ciò che l’Europa ha realizzato non è stato il cristianesimo, bensì, tutt’al più, una sua versione del cristianesimo. È dunque possibile un’altra, che sia anch’essa europea, e che sia cristianesimo?» [10].
Ecco l’attualità della domanda. Ecco l’attualità della situazione. Ma la cosa più preoccupante è che non si può dare risposta alla domanda perché la situazione non lo consente. Il liberalismo progressista ha indubbiamente preso il posto della religione, e non abolendo la religione o fomentando campagne ateistiche ormai anacronistiche. Ha preso per buona la posizione di Ernst Cassirer che auspicava un certo grado di presenza della religione, una certa dose, cioè, di suggestione sacrale. Ciò che ha fatto invece è stato più subdolo, più diabolico nel senso letterale del dia-ballo: rendere Dio irrilevante per gli affari umani sulla terra e poter così instaurare quella forma di plutocrazia universale che il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato «capitalismo parassitario» [11]. Estromettendo Dio dagli affari terreni si è compiuta l’operazione diabolica di svuotamento del cristianesimo, con la negazione del mistero dell’incarnazione. Così la religione, ridiventata metafisica, si è affaccendata in processi di politicizzazione e di idealizzazione, mentre la politica ha cercato di darsi una fisionomia sacrale con la conseguente comparsa di nuovi messia in cui porre senza esitazioni la propria fiducia.
Se oggi il termine religione è per lo più sinonimo di fondamentalismo, non così accade, a torto, per la politica o per l’economia. Ciò di cui non ci si rende conto è che siamo governati da fondamentalismi, sistemi chiusi ed autoreferenziali che si reggono su ferrei ed irriformabili principi dogmatici posti a presidio del loro potere. Quando Bauman dice che «lo stato di incertezza genera costantemente una grande, insaziabile domanda di forza, che possa dimostrare persuasivamente di sapere qualcosa che la gente normale non sa e non può sapere», sta facendo riferimento alla sacralizzazione della politica e dei poteri che la dominano, nella ricerca di un «capo carismatico che proclami una missione celeste impartitagli dall’Onnipotente attraverso una linea telefonica diretta o che, come Hitler, proceda come un sonnambulo sul cammino preparatogli dalla Provvidenza» [12]. La politica sacrale e messianica, in linea con gli assiomi dogmatici di ogni fondamentalismo, ha individuato i suoi nemici, con i quali non può assolutamente scendere a compromessi. La lotta che si instaura è tra il bene e il male, e il male, con molta evidenza, sono gli altri, i non identici a sé, i non allineati, i diversi, i sovversivi, quelli che pensano, gli stranieri, quelli fuori dall’accampamento…
Cosa possono rappresentare qualche migliaio di profughi che vagano per i monti in mezzo alla neve, sballottati come oggetti e a cui non si riconosce la dignità di persona umana e i diritti sanciti dalle leggi illuminate della nostra civiltà? «Danni collaterali» risponderebbe Bauman. Danni che il sistema fondamentalista tiene nel conto e che non intaccano più di tanto la coscienza morale che non ha, perché questa, in ogni caso, è dell’individuo e non del sistema. Da parte nostra possiamo dire: «non sapevo, non ho potuto far nulla, mi dispiace…», ma ciò non toglie che siamo nella condizione di testimoni colpevoli, attori in quel grande cast del popolo degli spettatori: spettatori e testimoni dell’afflizione, del dolore, della sofferenza, dell’ingiustizia, del sopruso, dell’abuso, dell’espropriazione legalizzata, della truffa programmata e supportata psicologicamente da mezzi di comunicazione diretti da un sistema burattinaio. Sentiamo il bisogno di discolparci? No! Ormai lo sappiamo: non solo è dissolto il senso del peccato, non c’è più il peccato. Tutto è ok, per citare il mantra dell’ottimismo americano. Crediamo di vivere in un’epoca felice, o almeno così ci si vuol far credere. E i profughi in mezzo alla neve? Semplici danni collaterali. Basta cambiare canale se mai dovessimo incrociarli mediaticamente.
C’è però la nozione di «colpa metafisica», che non è un principio religioso, ma un elemento della catalogazione della colpa morale che Karl Jaspers ha elaborato. Mentre la semplice colpa morale è tale perché i colpevoli con coscienza morale ne sono consapevoli e possono pentirsi ed emendarsi, la “colpa metafisica” per Jaspers va al di là del dovere moralmente significativo. Si instaura e prende forma ogni qualvolta la solidarietà umana si arresta di colpo di fronte ai suoi limiti assoluti. Diversamente dalla semplice colpa morale, la colpa metafisica non richiede prove, e nemmeno sospetti del nesso causale tra azione e inazione, tra colpevole e vittima. In senso metafisico si è colpevoli indipendentemente dal proprio contributo, deliberato o non intenzionale, al dolore sofferto da un altro essere umano. Ciò può tradursi in un principio sociologico che conforta gli interrogativi della Zambrano e illumina la nostra oscura situazione: nell’era della globalizzazione, nel mondo dove è stata dichiarata l’interdipendenza universale, «nessuna azione, per quanto confinata localmente e ristretta, può essere certa di non avere conseguenze sul resto dell’umanità, né ogni segmento dell’umanità può limitarsi a se stesso e dipendere totalmente e solo dalle azioni dei suoi membri» [13]. Sono le ragioni dell’umano, meglio comprese dalla poesia, così come evocano le parole scritte quattro secoli fa da John Donne:
«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te» [14].
Siamo dunque davvero in quella situazione che Maria Zambrano chiama «notte oscura dell’umano»? In un mondo che si nasconde dietro la maschera, un mondo un’altra volta disabitato? [15] Perché non avvertiamo neanche più il suono della campana? Forse non si tratta più della sola agonia dell’Europa, diagnosi plausibile nel 1945 quando la filosofa spagnola scrive il testo dopo gli orrori della seconda guerra mondiale; si può pensare che il virus che provocò quell’agonia si sia diffuso a livello planetario e che oggi si possa parlare di agonia del genere umano? Ognuno può fare le sue considerazioni in base ai dati della propria esperienza e delle proprie conoscenze, ma una cosa è certa: bisogna cercare e trovare una terapia. E questo diventa un fatto culturale, di diagnosi antropologica, che implica la messa in discussione di tutte le istituzioni che sommergono il mondo di parole e di regole che loro per prime si guardano bene dall’osservare. Le istituzioni che fino al presente hanno orientato i percorsi dell’umanità sono quella “maschera” di cui parla la filosofa, la maschera che nasconde il volto dell’uomo quando il volto dell’uomo è il luogo della rivelazione: «Nella maschera si innalza davanti all’uomo l’ambiguo, il demoniaco, il sacro insomma, con quella sua caratteristica ambivalenza» [16]. Riteniamo o no che sia giunto il tempo di un necessario smascheramento di tutto ciò che occulta la verità e rende schiavo l’uomo privandolo della sua dignità? Qui l’operazione culturale non esclude nessuno, neanche le religioni, neanche la Chiesa.
Mai come in questo nostro frangente storico pandemico siamo ansiosi di smascheramento. Stiamo sperimentando la situazione innaturale che la maschera comporta. È giunto il tempo di mettere in crisi la lunga, millenaria presunzione che ci ha partorito e ci ha allevato. È arrivato il momento di superare la contraddizione tra i messaggi istituzionali politici e religiosi che proclamano l’unità di tutti i popoli che devono arrivare a formare una sola umanità e la realtà che ci dice come questo ideale necessario sia ancora lontano dall’essere realizzato. Membra diverse del corpo della famiglia umana, ora, nell’epoca dell’informazione globale, noi possiamo conoscerci reciprocamente, scoprire che ciascuna di queste porzioni della famiglia umana è costituita da una storia particolaristica che in molte di esse si è sviluppata fino alla folle pretesa di essere il tutto, la pretesa di sostituirsi alle altre parti e di integrarle in sé fino a distruggerne l’individualità. Eppure sembra che non sappiamo trarre insegnamenti dalla storia, antica e più recente e ci dibattiamo in uno stato di non riconciliazione che assorbe tutte le nostre energie senza permetterci di progettare un futuro più umano.
Il mondo liberale ha preteso di allargare la libertà, ma sempre secondo i suoi schemi, in maniera da aggregare a sé, al proprio sistema di privilegi, una schiera sempre più numerosa di cittadini, approfondendo così le discriminazioni e le separazioni fra gli uomini. L’esperienza che viviamo è di crescente inimicizia fra gli uomini; le esplosioni di violenza di diversa natura sono solo la manifestazione limite del disagio che attraversa l’intero tessuto sociale, minacciando anche chi, al livello delle convenzioni e dei pronunciamenti pubblici, si dichiara dalla parte dell’amore, della giustizia, della solidarietà, della fratellanza. In realtà la storia che abbiamo vissuto e stiamo vivendo è guidata dal principio di antagonismo che ha potenziato culturalmente quella naturale propensione dell’uomo a scagliarsi contro il fratello. Per i cristiani è storia di peccato, per altri constatazione di un istinto, dell’esistenza di un lato oscuro nel capolavoro di bellezza che è l’antropo. Questo lato oscuro, però, non è stato solo l’inevitabile lato debole da contenere e da condannare culturalmente; è stato invece il fulcro per la costruzione delle società, delle culture della guerra e della morte. Anche le grandi imprese della storia, quelle che a scuola ci sono state presentate come grandi epopee o prodigiose conquiste poggiano sullo squallido presupposto dell’inimicizia, per cui il benessere nostro può avere per prezzo la miseria e la schiavitù altrui. Tutto questo, riconosciamolo, è stato sistema, modello culturale, tronfia istituzione. Ora lo sappiamo! E non è che prima non lo sapessimo, solo abbiamo fatto fatica a riconoscerlo.
Ma c’è un’altra faccia della medaglia, più limpida e solare: c’è e c’è stata nell’uomo una esigenza di riconciliazione con i fratelli, la contemplazione della sfera della solidarietà, della collaborazione, dello scambio dei valori; momenti di verifica dell’esistenza terrena, nel senso del rendere vera l’esistenza percependola nella sua genuina autenticità. Una dimensione antropologicamente forte ma considerata fragile da ogni cultura egemone. L’aspetto nobile, angelico dell’antropo, non è contemplato né tutelato dalle leggi che di solito vengono codificate nel versante oscuro, anche se i valori formali di cui esse vanno fiere sembrano richiamarsi al principio costitutivo dell’uomo che ama l’uomo e vuole fondare la società sull’uguaglianza, sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace. Maria Zambrano ha affermato che
«vivere nella luce sarebbe stato l’anelito di tutta la cultura occidentale. “Luce da Luce” è la formula più alta della teologia che esprime il punto di identità fra la filosofia greca e la fede cristiana. Nella luce coincisero pensiero e religione cristiana, religione della luce viva e attiva in tutti gli aneliti e tentativi; nelle speranze e nelle creazioni più disparate e persino contrarie, poiché la divergenza di credo estetico non è mai giunta fino a questo inquietante periodo in cui si disfano le forme e il volto umano si nasconde» [17].
La nostra vita si dibatte tra la luce e le tenebre. Avremmo tutte le ragioni per temere, perché le nazioni di questo mondo sono in terribile conflitto e i grandi blocchi di potentati stanno tra di loro in tensione, in vista di future prevaricazioni per futuri benefici economici. Le grandi istituzioni non sono nella verità, nonostante dicano tante parole, specialmente là dove la cultura fornisce un vasto repertorio lessicale di menzogne. La verità non è un concetto, una virtù, una dimostrazione scientifica: è un modo di essere, una forma di esistenza alternativa che si spende per il bene dell’umanità. Nel Vangelo non c’è la nozione di verità come puro contenuto della mente, o come ortodossia della fede o come perennità di dottrina. Alla domanda retorica e sprezzante di Pilato «che cos’è la verità?» [18], Gesù non risponde. Pilato ha davanti un uomo vero, un uomo che è fuori dalla menzogna del potere, un uomo che ha predicato la pace e l’ha donata in maniera difforme alle consuetudini del mondo e per questo è un uomo che il mondo esclude e il potere crocifigge. La sua colpa è che in lui verità e libertà coincidono, legate da connessione indistricabile: «Un nesso che doveva per forza risultare incomprensibile alla mente di Pilato», come sottolinea Massimo Cacciari.
«Per questa mente vera è la proposizione che si conforma secondo necessità con l’ente o col fatto da “giudicare”. L’apparire del Vero non libera, ma piuttosto obbliga. E salva solo dall’errore. La Verità che è Gesù, invece, libera, perché dona vita, vera vita, vita eterna, perché salva dal peccato che è morte» [19]. A partire dall’assunto giovanneo «et veritas liberabit vos» [20], a partire dall’Evento Gesù, continua Cacciari, «non siamo forse inarrestabilmente attratti a concepire la Verità anche come energia che trasforma, “converte”, rinnova? Ma quale rivoluzione avviene, rispetto al suo senso originario, allorché tale potenza viene proclamata immanente all’essenza dell’esserci, ed è essa soltanto, alla fine, il… salvatore?» [21].
In questa forma dovrebbe presentarsi il cristianesimo davanti al potere di questo mondo: una fede per cui la verità viene fatta in una azione liberante e salvante. Purtroppo l’Europa “cristiana” non poté avvalersi appieno di questa forma. Per ignavia, per incoscienza, per superficialità, per presunzione? Di fatto la sua debolezza fu tale che fu costretta ad assumere quella che andò maturando in Martin Heidegger che andava de-costruendo il destino della metafisica e riconobbe, in contrasto con la verità giovannea, il messia in Hitler e nella mostruosità del nazismo. Sicuramente alla forma originaria e pregna di novitas corrisponde il cristianesimo cercato dall’esule Maria Zambrano; purtroppo però, e dispiace deludere la sua attesa, non con connotazioni europee, né occidentali, né romane.
Provvidenzialmente c’è un cristianesimo “di ritorno” che potrebbe placare le ideali attese della filosofa spagnola, un cristianesimo che viene “dall’altro mondo” e che si iscrive in modo nuovo nella globalità sui generis della Chiesa. Un cristianesimo che preannuncia un diverso modello di Chiesa perché esso ha compreso l’istanza universale, cattolica della Chiesa, superando così la contraddizione tra la sua pretesa di cattolicità e la sua romanità, tra la sua diffusione globale e la sua struttura occidentale centralizzata, ed anzi, poggiante «su una visione che appare erede della struttura imperiale romana» [22]. Un cristianesimo riscritto nel lungo travaglio del «risorgimento cattolico latinoamericano» che ha cercato di decolonizzare quella Chiesa continentale dalle sue forti connotazioni europee e di inculturarlo nelle periferie metropolitane tra i «dannati della terra» [23]. Un cristianesimo che ha saputo ascoltare il grido dei poveri e degli ultimi elaborando per loro un nuovo sistema teologico votato alla loro “liberazione”, combattendo strenuamente con le resistenze ecclesiastiche di una gerarchia compiacente se non collusa con i molti regimi dittatoriali dell’America Latina. Un cristianesimo risorto dal basso, dall’istanza inculturativa del Vangelo, dal popolo col quale viene identificata la Chiesa stessa: la Chiesa è il popolo. Da tale travaglio nasce il magistero episcopale di Jorge Mario Bergoglio a Buenos Aires che può scrivere come l’inculturazione del Vangelo miri al processo di cambiamento delle strutture, per cui «deve compiere lo sforzo di giustizia per non tradire la cultura del nostro popolo, i suoi valori e le sue aspirazioni legittime» [24].
L’Occidente, l’Europa, la “Chiesa romana” hanno avvertito questo cambiamento di paradigma come un pugno nello stomaco. L’avversione a papa Francesco da parte delle componenti più conservatrici e reazionarie della società civile e della Chiesa è un fatto cui assistiamo quotidianamente. La rivoluzione da lui portata più che copernicana è radicalmente cristiana. Non più preoccupazione per l’ortodossia ma cura dell’ortoprassi. Non più una fede ridotta a un bagaglio di conoscenze, a un’elencazione di norme e proibizioni, a pratiche frammentate di devozioni, a partecipazione occasionale ad atti di culto, a moralismi blandi o esasperati ma un cristianesimo come luogo ermeneutico in cui leggere i “segni dei tempi” e rintracciare i drammi dell’umanità. Una fede che non si fa solidarietà è per il papa una fede morta, falsa, teoretica. Essa ha bisogno di un bagno di realtà che la renda prossima al dolore degli altri, secondo la metodologia latinoamericana: vedere-giudicare-agire. Ora, dopo più di settant’anni, la domanda di Maria Zambrano si può riformulare così: può ancora, questo cristianesimo trovare le risorse «per giocare un ruolo importante nella storia di una modernità a rischio di finire intrappolata nella “gabbia d’acciaio” che lei stessa tende a costruire?» [25].
Il dramma dei Balcani è solo uno dei segni drammatici dei nostri tempi. Tra le tragedie che si svolgono non viste sul nostro pianeta è forse quella a noi più vicina. Ci sentiamo impotenti davanti a tanto dolore e indignati davanti a tanto cinismo, ma noi non siamo innocenti. Dovremmo lasciarci mettere in crisi dalla diversità, dall’abiezione, dall’impotenza, dalla povertà assoluta che dall’inferno ghiacciato dei Balcani puntano il dito verso di noi. Abbiamo bisogno di un amore che ci lasci inquieti, sospettosi verso noi stessi, e ci spinga a lottare per trovare vie di giustizia. Personalmente avverto l’inquietudine e la delusione per un cristianesimo lento a rinnovarsi, a ritrovare la sua sorgente dalla quale tutti possano attingere passione per l’umano, la passione del Dio di Gesù Cristo per l’umano! Non importa che siano credenti o meno, cristiani o diversamente credenti. Quella fonte non esige patenti confessionali per elargire l’acqua di un umanesimo rigenerante e salvante, perché si sia, in questo mondo, «fratelli tutti».
«Cristiano e umano oggi tendono a non coincidere più. Ecco il grande scisma che minaccia la Chiesa!», scriveva Teilhard de Chardin. Uno scisma che, per una sorta di nemesi, si è compiuto nell’Europa che ha fatto del denaro il suo dio e si è dimenticata dell’uomo.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Editrice TAU, Pian di Porto, Todi (PG).
[2] Cfr. Ivi, il testo di G. Schiavone: 269-350.
[3] La rete RiVolti ai Balcani, costituita nel 2019 da 34 associazioni e realtà impegnate a difesa dei diritti delle persone e dei principi fondamentali sui quali si basano la Costituzione italiana e le norme europee e internazionali, da tempo denuncia le condizioni di vita di migranti e rifugiati lungo la rotta balcanica. Il 6 febbraio u. s., dalla nave Mare Jonio in collaborazione con Mediterranea Saving Humans, ha presentato la seconda edizione del dossier di RiVolti ai Balcani dal titolo: «La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa».
[4] Il Danish Refugee Council (DRC), (danese: Flygtningehjælp) è un’organizzazione umanitaria privata danese senza scopo di lucro, fondata nel 1956. Serve come organizzazione ombrello per altre 33 organizzazioni.
[5] Cfr. Il diritto d’asilo Report 2020, cit.: 286.
[6] M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 20138.
[7] L’abbondante documentazione è contenuta nel volume di E.J. Hobsbawm Il secolo breve. 1914-1991, BUR, Bergamo 20144.
[8] M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, cit.: 16-17.
[9] Illuminante il testo di Z. Bauman, Capitalismo parassitario, ove si mostra come il capitalismo, come un vero parassita, cerca organismi non fruttati di cui nutrirsi.
[10] M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, cit.: 50-51.
[11] Cfr. Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2009.
[12] Z. Bauman, Vite che non possiamo permetterci, Laterza, Roma-Bari 2011: 143.
[13] Z. Bauman, Il secolo degli spettatori. Il dilemma globale della sofferenza umana, EDB, Bologna 2015: 12.
[14] J. Donne, da Meditazione XVII, in Devozioni per occasioni d’emergenza, Editori Riuniti, Roma 1994: 112-113.
[15] Cfr. M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, cit.: 89.
[16] Ivi: 77.
[17] Ivi: 91-92.
[18] Gv 18,37-38: «Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Gli dice Pilato: che cos’è la verità?».
[19] M. Cacciari, un intervento in A. Torno, Ponzio Pilato. Che cos’è la verità?, Bompiani, Milano 2007: 31.
[20] Gv 8,32.
[21] M. Cacciari, un intervento in A. Torno, cit.: 31.
[22] A. Riccardi, La Chiesa tra centri e periferie, in A. Riccardi (a cura di), Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, Laterza, Roma-Bari 20186: 12.
[23] G. La Bella, L’America Latina e il laboratorio Argentino, in A. Riccardi, cit.: 35.
[24] J. M. Bergoglio. Reflexiones espirituales, Diego de Torres, San Miguel 1987: 285.
[25] Cfr. C. Giaccardi e M. Magatti, La scommessa cattolica, Il Mulino, Bologna 2019: 47.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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