di Alessia Vacca
Quasi un prologo
Se è vero che Emilio Lussu sosteneva che la Sardegna fosse una nazione mancata perché le era mancata l’unità, proveremo ad invertire leggermente la rotta, affermando che, al contrario, nel senso più pieno del termine natio, la Sardegna sia a tutti gli effetti una nazione, perché fortissimo è il legame che, chi vi nasce, sente con la sua terra, ma, viceversa, data una serie di carenze riscontrabili ed incontrovertibili sul piano politico e storico, non possa definirsi Stato. Questi retroscena, spesso viziati da secolari pregiudizi, possono essere sfatati solo grazie alla conoscenza e all’avvicinamento, in chiave antropologica, al popolo sardo, alla sua visione del mondo e alla storica lotta per la rivendicazione di una piena autonomia linguistico-culturale che non può prescindere dal suo patrimonio folklorico, non tanto mero residuo del passato, quanto attuazione di una specifica e storica volontà: fondare solide basi per la costruzione di una propria identità, attraverso la fusione di etnos ed ethos.
Ripercorrendo gli eventi più significativi che hanno interessato l’Isola sul piano socio-politico e linguistico nel Seicento, si attenua notevolmente l’idea di una Sardegna non tanto isolana quanto isolata, quasi si trattasse di un vero e proprio “deserto” culturale, rivitalizzato qua e là da sprazzi di luce importati dai dominatori che nei secoli si sono succeduti, dai Latini ai Savoia, che hanno spesso attentato ai valori stabili e endogeni delle comunità locali.
A guardar bene, il XVII secolo in Sardegna è il siglo de oro della rappresentazione teatrale che vede l’attività di proto-drammaturghi e commediografi quali Antonio Maria da Esterzili, Juan F. Carmona ed Antioco del Arca. Si osserva, come prevedibile, un certo sfasamento delle manifestazioni e correnti culturali isolane rispetto al resto del vecchio continente (Alziator, 1948: 153): di fatto, le prime sacre rappresentazioni di autori sardi fioriscono quando, nel resto d’Italia e d’Europa, il genere drammatico era sulla via del tramonto. Lo sviluppo dell’attività teatrale sarda viene avvantaggiato e consolidato grazie all’obbligo annuale, all’interno dei seminari, di allestire un dramma liturgico nel quale i futuri sacerdoti esponevano le loro tesi teologiche in un contraddittorio dialogato, interpretato da due attori, di cui uno faceva la parte dell’advocatus diaboli.
Dopo la primordiale esperienza di una Passio dell’Arquer, le Coplas a la imagen de Christo, impregnata di motivi autobiografici, rinvenuta a Madrid nel 1953 da Boscolo e Loddo Canepa, la prima sacra rappresentazione in Sardegna fu, effettivamente, inscenata nel 1622 nella cattedrale sassarese: si tratta di El Saco Imaginado, un dramma in spagnolo del gesuita A. del Arca, basato sulla restituzione di Sassari a Porto Torres delle ossa dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu, et Gianuari, avvenuta nel maggio del 1622.
A quest’altezza cronologica convivono nell’Isola due culture e due tradizioni parallele: quella fastosa e ridondante della Spagna e la più lineare e mite della Sardegna. Innestatosi in un ambiente ricco di tradizioni e costumi rituali arcaici, il genere sacro si informa e si plasma sull’influsso del teatro spagnolo, all’interno di un clima controriformistico intensamente vissuto (Bullegas, 2012: 16-17). Nei centri cittadini periferici la Chiesa si vedeva costretta ad inviare predicatori gesuiti o di ramo francescano, esperti nei sermoni drammatici e nell’omiletica, per evangelizzare le popolazioni che opponevano resistenza ai dogmi del cattolicesimo.
Il teatro religioso resiste lungo tutto il XVI secolo solo nelle due Isole maggiori, Sicilia e Sardegna, conoscendo il suo periodo di massima espansione proprio nel XVII, in seguito a plurisecolari processi di stratificazione. In Sardegna tale fase di transizione regolarizza il quadro del sacro rappresentare sia mediante l’attività educativa nei collegi, sia nell’organizzazione del teatro devoto di massa nei maggiori centri urbani. La pratica delle missioni popolari, volte ad evangelizzare luoghi lontani attraverso appassionate prediche ed azioni penitenziali (flagellazioni) associate alla realizzazione dei dispositivi delle tre croci del calvario, costituì la premessa per la creazione di regolari consuetudini drammatiche nel corso della Settimana Santa.
Soprattutto i primi decenni dalla fondazione dell’Ordine, condussero all’inserimento, nel cerimoniale della Passione e morte di Cristo, di alcune forme rituali come quella dell’entierro, destinato a diventare una delle sequenze più significative della tradizione devota: raffigurazione statuaria del Cristo adagiato su un fercolo e portato in processione per le vie del centro abitato (Isgrò, 2017: 164). L’influenza gesuitica fu determinante per garantire stabilità e riconoscibilità agli eventi celebrativi della Settimana Santa: ciò, in buona parte, anche grazie all’esigenza di regolarizzare il lavoro artigianale legato alle forme del teatro festivo, prefigurando congregazioni corrispondenti alle stesse maestranze. L’accostamento ai pasos dell’Andalusia conferma la medesima matrice culturale e, con essa, l’importanza della mediazione gesuitica che ha agito sia nel territorio spagnolo che negli altri luoghi nei quali si è radicalizzata. La Compagnia ha iniziato gli artigiani allo sviluppo delle creazioni attraverso congregazioni deputate a divulgare, fra le loro genti, il valore della fede.
Se massiccia è l’influenza spagnola nella lingua e nella sovrastruttura formale, poderosi spunti scenici si concentrano, invece, sul preesistente panorama italiano, come il Lamento della Vergine dopo la morte del figlio, chiaro richiamo alla lauda umbra, nonché la rigogliosa tradizione folklorica sarda di goccius, iscravamentos [1] e laudi dei Disciplinati Bianchi.
Il “Libro de comedias”
Nel sud della Sardegna, a schiudere l’orizzonte teatrale religioso è J. F. Carmona, il quale, nel 1629, cura la mise-en-scène della sua Passión de Christo, suddivisa in tre azioni sceniche e due intermezzi. La grande esperienza teatrale seicentesca trova, però, piena realizzazione solo nella seconda metà del secolo quando nasce ed opera Antonio M. da Esterzili (1644-1727), un frate cappuccino stanziato nel convento di Sanluri, uno tra i maggiori plessi francescani insieme a Bosa e Nulvi, edificato nel 1608. Era consuetudine vigente che, una volta incardinati, i religiosi abbandonassero il nome secolare per adottarne uno nuovo di devozione, in onore di qualche santo, conservando solo il nome del paese natale.
Allo stato attuale delle ricerche non è possibile risalire all’identità anagrafica del drammaturgo esterzilese in quanto, dopo gli incresciosi episodi che lo vedono coinvolto in uno scandalo a sfondo sessuale, venne emarginato dalle autorità ecclesiastiche fino ad una damnatio memoriae dalla quale soltanto G. Siotto Pintor lo svincola sul finire dell’Ottocento. Il frate è il primo scrittore moderno in lingua campidanese a noi noto, ma le notizie biografiche sono tanto scarse che risulta impossibile riannodare il filo rosso della sua vita [2]. Nel 1688 è certa la sua presenza a Sanluri grazie alla composizione del ms. contenente le cinque opere teatrali pedagogico-edificanti, donato dal Baylle alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, ove è oggi conservato col n. 193. Nel frontespizio si legge: «Libro de comedias escripto por Fray Antonio Maria de Estercily Sacerdote capuchino en Sellury 9bre a 18 año 1688». Composto, forse, con il preciso intento di riabilitarsi presso la Chiesa, il ms. presenta due sezioni distinte: la prima ricomprende i drammi sacri (comedias) (Paba, 2015: 17) [3] dalla Natività all’Assunzione della Vergine; la seconda raccoglie una serie di disposizioni ecclesiastiche relative alle scomuniche, dal titolo Excomunicationes in die coenae Domini, redatte dalla stessa mano delle comedias.
Il ms. è così strutturato: il primo testo è la Conçueta del Nacimiento de Christo, ossia il Natale; segue la Comedia de la Passion de nuestro señor Jesu Christo che racconta il tradimento di Giuda, la cattura, l’interrogatorio e la morte in croce di Cristo; la Representation de la comedia del Desenclavamento de la Cruz de Jesu Christo nuestro señor è incentrata sulla deposizione dalla croce al cospetto della Vergine e di Giovanni; 500 Versos que representan el Dia de la Resurrecion, ovvero la Pasqua; un frammento del prologo e l’incipit della Commedia grande sobre la Assumption de la Virgen Maria señora nuestra alos çielos (De Martini, 2006: X).
Le comedias si estendono per 136 fogli; la carta e la calligrafia delle due sezioni dell’opera divergono; alle risme della seconda sezione di 12 fogli, corrispondono quelle della prima sezione di 10, 12 o 14 fogli, non lignés; l’iniziale compattezza del ms. è di per certo degradata in quanto alcuni rimandi a piè pagina di passi successivi non proseguono ma si arrestano, scevri di sviluppo.
Con le dominazioni aragonese e castigliana s’introduce la lingua iberica quale idioma ufficiale e della didattica nel sistema di istruzione: se le città si spagnolizzano completamente, in seno alle famiglie e nei piccoli centri dell’Isola, il sardo continua a sopravvivere tenacemente. Il plurilinguismo, con un netto involucro di diglossia che va profilandosi, conduce da un lato all’impiego pressoché esclusivo degli idiomi iberici negli ambiti socio-letterari di prestigio e dall’altro alla relegazione della lingua autoctona alla sola sfera dell’informalità.
La convivenza di sardo e spagnolo è ben testimoniata nelle comedias del frate che modula le proprie scelte linguistiche in relazione ai diversi personaggi: la fitta compenetrazione tra le due lingue impiegate in Sardegna a quest’altezza cronologica trae in inganno Siotto Pintor che dà conto, per la prima volta, dell’esistenza delle comedias sostenendo, però, nella sua Storia letteraria di Sardegna (1894), che fossero in spagnolo, per via delle didascalie e la mancata lettura integrale del Libro. Gli autos dell’esterzilese sono una delle più notevoli opere in volgare sardo, tanto che Urciolo, primo editore della Passione, ha riprodotto le comedias in microfilm destinati all’insegnamento nelle superiori americane (Wagner, 1959: IX-XVI).
Il sardo seicentesco ha iniziato la sua biforcazione in macro-varietà logudorese e macro-varietà campidanese: le vicissitudini politiche che l’Isola affronta si riversano sulla lingua al punto che, fra tutti i superstrati che hanno contribuito alla formazione della parlata isolana, quello iberico deve essere riguardato come il maggiormente incisivo. Tale giudizio si può, ancora oggi, in parte, sottoscrivere, con l’unica precisazione che, più di quello spagnolo, fu capillare l’influsso catalano. Lingua ufficiale dei conquistatori sino al 1479, il catalano è più intenso nella regione meridionale dell’Isola che non in quella settentrionale, ove in ogni caso essa fu tutt’altro che blanda, come mostrano i numerosi prestiti giunti in quest’epoca anche al logudorese, mentre nel contado si continua ad impiegare il sardo.
Per testimoniare la forza con la quale il nuovo idioma si radica nella Sardegna meridionale, è in uso l’espressione no šíri ṡu ǥađalánu (non conoscere il catalano), in riferimento a persone che hanno difficoltà ad esprimersi. Per dimostrare la penetrazione del nuovo idioma nel lessico sardo, basterà citare: il camp. aíči ‘così’ (cat. així); il camp. buččákka, log. bušákka ‘tasca’ (cat. butxaca, botxaca, bojaca); il log. ispram(m)are, camp. spram(m)ai ‘spaventare’ (cat. espalmar); il log. istimare, camp. stimai ‘volere bene, stimare’ (cat. estimar).
Per quanto riguarda lo spagnolo, il suo uso tarda a farsi strada nell’Isola e bisogna attendere la fine del Seicento per poter parlare di una vera e propria fruizione del nuovo codice linguistico. Anche per questa ragione si è potuto affermare che l’influsso linguistico spagnolo è stato più intenso nella regione settentrionale, come mostrano alcuni casi in cui, per indicare la stessa parola si ha in campidanese un vocabolo di origine catalana e in logudorese uno spagnolo.
Il sardo delle comedias non si discosta dal campidanese odierno: il Nostro fa parte di quella schiera di autori che nel Seicento, all’interno di un contesto di marcato plurilinguismo, optano per l’impiego di diversi idiomi a disposizione dei parlanti nel repertorio linguistico comunitario dell’epoca. Nelle sue opere impiega prevalentemente il campidanese, ma talvolta si serve anche del logudorese e di inserti in castigliano (e in catalano), sia in alcune porzioni di testo che per tutte le didascalie ed i nomi dei personaggi, dimostrando una notevole cultura e familiarità con molteplici codici, giostrati con abilità nei topici passaggi dagli uni agli altri.
Si conciliano, così, da un lato, l’altisonante aspirazione di collocare le comedias all’interno del patrimonio conosciuto e stimato della letteratura sarda e, dall’altro, la volontà di conferire un tono pur sempre popolare ai testi che avrebbero, in tal modo, raggiunto un più vasto pubblico nelle campagne e nei villaggi. Inoltre, trattando materia religiosa, l’autore adopera stile e linguaggio elevati: la scelta di connotare la lingua di alcuni personaggi facendoli parlare in logudorese (i pastori), potrebbe derivare dal fatto che, già dal Cinquecento, la varietà settentrionale si era adornata dell’attributo “illustre” come sostenuto già nell’Urania di Vidal: «Logudoro habla mas elegante y terso que el cabo de Caller» (Tola, 2006: 71).
Le comedias sono, dunque, una sostanziale locuzione della latitudine degli interessi culturali e del plurilinguismo che si andavano snodando, in Sardegna, in seguito all’ispanizzazione. Il ricorso al logudorese come lingua caratterizzante dei pastori è stato ricondotto dalla critica ad una identificazione socio-economica che l’autore stesso avrebbe istituito fra il Logudoro e le campagne di Betlem: la Barbagia e il Nord dell’Isola, come l’odierna Cisgiordania, si affidano alla pastorizia come fonte primaria di sostentamento e i pastori logudoresi prenderebbero il posto di quelli giudaici, esprimendosi nella propria lingua quotidiana.
Il castigliano viene, invece, impiegato per la prima volta con le battute di Sant’Agostino nella Conçueta, per una semplice ragione politico-teologica: il padre della Chiesa potrebbe anche esprimersi in latino, lingua ecclesiastica ufficiale, ma non verrebbe più inteso dal popolo, motivo per cui adopera la lingua di prestigio dominante, ben impiantata nel territorio da molti anni. Il castigliano assolve a due funzioni: l’intrinseca capacità di farsi intendere agevolmente da chiunque e «conferire il crisma del potere della religione – uniti nello stesso mezzo linguistico – al messaggio recato» (Bullegas, 2012: 29).
I versi in latino, invece, non sono solo espressione dell’autorità ecclesiastica di Agostino, solenne e rigorosa, ma sono veri espedienti linguistico-scenici attraverso cui infondere sentimenti di speranza e tranquillità agli spettatori cui è rivolto un messaggio rassicurante: il latino veicola la parola di Dio, così come il vestiario di Agostino, dai paramenti pontificali, ha il sapore dell’apologia: la sacra rappresentazione costituisce una parte integrante della comunità: non si pone al di fuori ma dentro di essa.
Cenni metrici
Tra gli schemi metrici adoperati alcuni sono ricompresi tra i versos de arte menor, versi brevi fino all’ottonario, altri nella arte mayor, dal novenario in poi, secondo i dettami della metrica spagnola (Porcu, 2008: 14). Il frate manipola sapientemente i canoni della tradizione classica secondo cui a un determinato personaggio o a circostanze di una certa cerimoniosità si addicono precisi schemi metrici, come l’ottava. Nella Passione fanno capolino anche le quintillas, strofe di cinque versi, care all’Araolla ed apprese dal Nostro in La nova art de trobar (1538) di F. d’Olesa.
Nelle sacre rappresentazioni esterzilesi prende forma il contatto di una cultura poetica indigena con una cultura colonizzatrice, ovvero l’adattamento di sistemi metrici esogeni nei sistemi linguistico-prosodici colonizzati (Fowler, 1977: 294): a ciò si presta la tradizione poetica sarda dal Cinque al Settecento, scissa tra hispanidad ed italianità.
Fonti coeve e non: i prototipi dall’Europa
Antonio Maria si colloca, per la sua drammaturgia, all’interno di una lunga tradizione del Cinque e Seicento che annovera sia autori iberici che italiani, i quali costituiscono i prototipi delle sue creazioni letterarie. Bullegas (2012: 20) elenca l’ampio patrimonio drammaturgico confluito nelle comedias a partire da Gil Vicente, autore a cavallo fra il Quattro e Cinquecento, di cui ci sono pervenuti circa cinquanta autos, componimenti di svariato genere (Natività, farse e tragicommedie); seguono poi due epigoni del Vicente, Antonio Prestés e Antonio Ribeiro Chiado.
Ma è all’ombra di Juan del Encina, Ignazio de Mendoza, Gomez Manrique e Lucas Fernàndez che il Nostro trova la sua più precisa ed appropriata collocazione: l’influenza che vanno esercitando i modelli spagnoli in Sardegna, a quest’altezza cronologica, è inevitabile nella misura in cui la popolarità era tanto vasta, da non poter passare inosservata. Gli intellettuali di Sardegna, inoltre, avevano modo di formarsi all’interno dei prestigiosi atenei spagnoli (Madrid, Valladolid) e non dovettero rimanere indifferenti al clima culturale operante, ricco di spunti, suggerimenti stilistici, contenutistici e scenici (Valbuena Prat, 1956: 27).
Non mancano, infine, altre esperienze drammaturgiche, di matrice peninsulare, sbarcate in Sardegna tramite i pisani con conseguenti scambi culturali frequenti intrapresi tra intellettuali rinascimentali italiani e letterari iberici che si tramuteranno, talvolta, in creazioni artistiche di grande rilievo (Papell, 1951: 773).
La materia delle comedias si costruisce su riflessioni e avvenimenti religiosi (Massip, 2011: 41) [4], dipanati con stile e tono elevati: proseguendo la disamina delle numerose fonti che confluiscono nel ms. dell’esterzilese, come si può ben immaginare, non mancano gli spunti e le riscritture evangeliche: in particolare nella Comedia dela Passión (3133 versi) la fedeltà ai Vangeli non si limita soltanto al testo, ma si riscontra quale principale fonte anche nella scelta dei titoli delle didascalie. Ne è esempio la didascalia 64r in cui leggiamo: «Christo toca la oreja a’ Malcos y queda sana», allusione a Luca XXII, 51-52: «Et cum tetigisset auriculam eius, sanavit eum».
Oltre agli echi evangelici, si segnala la netta presenza degli aversani cinquecenteschi, che non risulta anacronistico desumere quali fonti “italiane”, in particolare il Serafino, il Baldario e M. del Vecchio. La discreta cultura del frate esterzilese si dipana fino a cinquecento anni prima, con Dante e Jacopone, ma non mancano neanche i peculiari difetti anacronistici, retaggi medievali, con cui si confonde spesso il “senso storico”, ignorando la consecutio logico-narrativa per l’urgenza di illustrare e asseverare fatti e verità religiose: così, nella Conçueta entra in scena Sant’Agostino che intavola una dissertazione teologica di stampo aristotelico-tomistico con un ebreo; i sudditi di re Davide sono detti vasallus; gli ebrei benestanti al tempo della nascita di Cristo sono señoris et cavalleris; il Sinedrio si tramuta in senadu (De Martini, 2006: XI).
Gli echi danteschi si ripercuotono, a distanza di tre secoli e mezzo, soprattutto nella concezione figurale delle Scritture, ben testimoniata nei Versos per la Resurrezione. I vv. 269-276: «Moyses ayada ordinadu / ponni sa serpenti in su lignu / e mirandu custu signu / su populu rested curadu / su lignu figurad sa ruxi / undi Christus esti inclavadu», designano il legno come prefigurazione della croce, concezione tipicamente allegorica; di derivazione dantesca è anche l’espressione al v. 3089 della Passión «ti fatzu is ficas» [5], riscontrabile nell’Inferno (XXV, 2)
La descrizione dei patimenti della Vergine durante la morte del Figlio nella Comedia dela Passión, segue straordinariamente e fedelmente il Pianto della Madonna di Jacopone, con un’unica importante variante circa la figura del nunzio, che il Nostro affida a Giovanni. Dal momento che il destino del Figlio non si può cambiare, il desiderio della madre rappresentata da Antonio Maria è il medesimo espresso dalla Madre di Jacopone: morire insieme al Figlio per gli stessi tormenti e sulla stessa croce. Non stupiscano le costanti analogie o le riprese espressive tra la Passión ed il Pianto: la prospettiva di estrema continuità nei modelli stilistici e contenutistici è tipica di alcuni momenti topici del ciclo.
Nel Desenclavamiento le suggestioni più floride sono, invece, di cellula spagnola, più precisamente relative all’Auto dela Passión del Fernàndez; irrompe, inoltre, una inedita componente riservata al prediletto di Cristo, un modulo scenico-comportamentale barocco. Il personaggio di Giovanni è, infatti, giocato sull’espediente retorico della ridondanza, tipico del XVII secolo, specialmente durante la manifestazione del dolore per la crocefissione del Maestro. Le battute, colme di attributi icastici e forti, sono spia della coeva influenza delle commedie, forse poco immaginabile del ciclo drammatico circa la morte del Cristo: i toni sono soprasegmentali e strazianti, nei quali si indovina una copiosa gestualità.
Nella quarta commedia, data l’intrinseca natura di gioia ritrovata dopo la Pasqua ed il disgelo dei cuori, si avverte l’influenza dei gosos e i versi sono votati più al canto che alla lettura: come la natura si riveste di sgargianti colori e fiori profumati, così la Vergine esorta i fedeli-attori a svincolarsi dal precedente stato d’animo angustiato, a spogliarsi del lutto e rivestirsi con abiti da festa, all’interno di quadretti scenici corali e palpitanti, eccipienti espressivi della fede.
Sulle principali ascendenze riguardo l’ultimo dramma, invece, a causa di evidenti carenze nel materiale pervenutoci [6], si può constatare soltanto che anch’esso rientra nella sfera d’influenza dei drammaturghi spagnoli grazie alla presenza dell’intermezzo, burlesco stacco fra un atto e l’altro, da concludersi con un balletto, in una sorta di aura metateatrale.
Antonio Maria è un letterato che vive a cavallo fra Sei e Settecento, respirando ed assorbendo umori relativi alle tecniche e ai gusti culturali e letterari del suo tempo: in Spagna, la sopravvivenza della sacra rappresentazione non significa che essa permanga immutabile in un contesto teatrale che continua ad evolversi e sperimentare nuovi orizzonti, convivendo con generi di successo e alla moda, quali la commedia dell’Arte ed il melodramma.
Le sacre rappresentazioni rispecchiano una condicio curiosa e singolare: la commistione tra il genere sacro e profano maggiormente in voga, che comporta un significativo arricchimento scenotecnico per drammi redivivi dall’oblio ma, al contempo, sospesi tra unicità e molteplicità d’azione in cui fatti remoti ed attuali conoscono correlazioni insperate, così che sulla medesima scena coesistono personaggi mitici e moderni, risultando avulse dai canoni della logica storico-temporale. I procedimenti contenutistici della mise-en-scène sono ancora saldamente improntati sul genere sacro, ma le scene, senza soluzione di continuità, non sono più disunite: il tabulatum o cadalso [7] le mantiene compatte, con opportuni riadattamenti alle tradizioni e all’architettura contemporanee.
Poiché si tratta pur sempre di una costruzione scenico-teatrale in fieri, all’autore preme anticipare le scuse ai suoi spettatori, per eventuali errori strutturali commessi, compito affidato, già nella prima commedia, ad un cavaliere: «Pregandu nosu ancora in Generali / a is qui sunti presentis cu’ amory / qui bollanta iscusari donnia errory / qui est cantu ddis suplicu po finali».
Sopra il cadalso, posizionato nella navata centrale delle chiese, di fronte all’altare (Bullegas, 2012: 30)[8], dovevano essere allestiti i loci. I cadalsos più ricchi di mansions sono quelli della Conçueta e della Passión: tale affollamento di personaggi ben risponde alle concitate esigenze sceniche delle opere relative, rispettivamente, alla nascita e alla morte di Cristo; lo scenario più vuoto è, invece, nel Desenclavamiento, rappresentato dal solitario e povero Golgota, quasi fosse un nonluogo.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Propriamente la rappresentazione degli schiodamenti dalla croce: patrimonio della memoria collettiva, non scritta, della tradizione popolare che denota il folklore come “storia dei vinti”, incunabolo orale e gestuale.
[2] Uniche notizie certe riscontrabili sul frate si trovano nel repertorio cronologico e biografico dei Cappuccini, cfr. Regestum capucinorum provinciae calaritane, vol. II, 1695-1802, Archivio della Curia Provinciale dei Cappuccini di Cagliari.
[3] Non inganni l’accostamento del genere commedie a queste composizioni liturgiche: le comedias esterzilesi del Seicento sono da intendere secondo etimologia castigliana con cui vengono designate opere teatrali di una certa estensione, a prescindere da temi ed epilogo.
[4] In particolare sulla Natività, Massip afferma: «El anuncio del ángel a los pastores y su llegada al pesebre para adorar al niño constituyó un núcleo temático poderoso en la celebración de la Navidad. Los primeros textos escénicos conservados en la Península Ibérica datan del siglo XV, y su evolución y pervivencia ha sido prolífera. A partir del siglo XVII los episodios bíblicos van perdiendo relieve, mientras que el elemento cómico y laico se adueña de la representación».
[5] L’espressione indica il gesto scurrile di Vanni Fucci, che alza le mani mettendo il pollice tra l’indice e il medio piegati, in segno di scherno. Inoltre, per quanto riguarda l’espressione faghere ficas, all’interno di uno dei capitoli della Carta de Logu sono presenti le debite sanzioni volte a condannare questi comportamenti.
[6] In Sardegna è un esempio rarissimo di rappresentazione avente tale soggetto, certamente derivato dalla Spagna in cui aveva larghissima diffusione.
[7] Nelle rappresentazioni era rialzato di circa 80 cm. da terra, con banchi e sedie collocati intorno, così che si offrisse a tutti, anche a coloro che si sistemavano di lato, la più completa visuale possibile.
[8]: «Soprattutto in determinate occasioni, come quando si svolsero manifestazioni spettacolari in onore delle ritrovate reliquie dei santi del 1615 e del 1618 descritte da Carmona […], non era raro il caso che se ne allestisse più d’uno sfruttando lo spazio offerto dalle varie cappelle».
Riferimenti bibliografici
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BULLEGAS, SERGIO, La Spagna, il teatro, la Sardegna. Comedias e frammenti drammatici di Antonio Maria da Esterzili, Cagliari, Cuec, 2012.
DE MARTINI, LUCA, Antonio Maria da Esterzili, Libro de Comedias, Cagliari, Cuec, 2006.
FOWLER, ROWENA, Comparative Metrics and Comparative Literature in «Comparative Literature», 29, 1977
ISGRÒ, GIOVANNI, Sacre rappresentazioni nella Pasqua in Sicilia, in «Dialoghi Mediterranei», XXV, 2017: 160-166
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VALBUENA PRAT, ANGEL, Historia del teatro español, Barcelona, Noguer, 1956.
WAGNER, MAX LEOPOLD, Esordio alla Comedia de la Passion de Nuestro Señor Christo, R. G. Urciolo, (a cura di), Cagliari, Il Nuraghe, 1959.
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Alessia Vacca, laureata in Lettere Moderne all’ateneo di Cagliari e specializzata in Filologie e Letterature Classiche e Moderne, si interessa a studi di matrice socio-letteraria di ambito sardo dal Medioevo all’epoca contemporanea.
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