il centro il periferia
di Maria Rosaria La Morgia
Nel cuore delle montagne molisane, Castel del Giudice spicca nel verde dei boschi, vicino al fiume Sangro, al confine con l’Abruzzo. Un paese dell’Appennino, emblema di quelle aree interne spopolate ma capaci non solo di resistere bensì di rinascere. Una rinascita nata dall’alleanza tra amministrazione comunale e cittadini, quei pochi che erano rimasti quando Lino Gentile, dottore commercialista, è diventato sindaco alla vigilia del 2000. Tra i suoi primi atti ci fu la convocazione di un’assemblea cittadina per proporre di trasformare il palazzo che ospitava le scuole, materna ed elementare, chiuse per mancanza di alunni, in residenza per anziani e per disabili. È stato quello il punto di partenza per un’inversione di rotta. Poi sono arrivati il meleto biologico, grazie al recupero di terreni incolti e di colture autoctone, e l’albergo diffuso che ha trasformato decine di stalle cadute in disuso in hotel. In una intervista di qualche anno fa il sindaco ha detto «Abbiamo pensato di trasformare le debolezze in punti di forza».
Ricreare lavoro è stata l’idea che ha guidato la sua amministrazione in questi anni? È riuscito a convincere chi se ne era andato a tornare? Come?
«Credo che lo spopolamento possa essere combattuto creando lavoro. Senza nuovi abitanti diventa difficile anche mantenere i servizi, è per questo che ci siamo concentrati sul creare occupazione per evitare che si continuasse a partire e per attrarre nuovi abitanti. Non è facile, adesso siamo poco più di trecento e l’impegno continua».
Un percorso segnato dal partenariato pubblico-privato. In che modo si è concretizzata quest’alleanza, con quali soggetti? Ci fa degli esempi?
«La precondizione è una rilettura del territorio superando quella tendenza a vedere solo quello che non c’è. Dalle marginalità alle opportunità, questa è la nostra idea. L’abbandono ha creato un accumulo di risorse non utilizzate: terreni e immobili. E, inoltre, abbiamo un capitale naturale e uno relazionale/affettivo formato dalla tante persone legate al nostro territorio. È il caso di Ermanno D’Andrea, un emigrato molisano che da bambino aveva lasciato Capracotta per il milanese dove aveva fatto fortuna con l’azienda meccanica creata dal padre. È tornato perché voleva aiutare la sua terra con progetti utili e, inizialmente, ha aperto una succursale della sua impresa dando lavoro a una trentina di persone. Poi è diventato uno dei nostri principali alleati.
Sul capitale relazionale abbiamo investito quando abbiamo deciso di riconvertire gli edifici della scuola materna ed elementare in una struttura socio-sanitaria. Coinvolgemmo 25 cittadini che hanno dato vita a una public company [1] insieme con Ermanno e altri imprenditori “affettivi”. Il meleto è nato dall’incontro con un imprenditore di Monselice che non aveva alcun legame con noi, ma aveva sentito parlare del paese e venne a proporci di utilizzare i terreni abbandonati, incontaminati, molto ricercati da chi fa agricoltura di qualità. Un acquisto che si rivelò più complesso per via della frammentazione fondiaria, molto diffusa dalle nostre parti. C’erano dei mesi da aspettare e proponemmo di rinviare di qualche mese, ma lui non si fermò, partì subito acquistando le piante e dandoci una lezione di velocità. Il meleto nacque, poi quando lui si ammalò rilevammo la sua attività con un gruppo formato da 75 cittadini e alcuni imprenditori compreso Ermanno D’Andrea. Produciamo mele e le trasformiamo in succhi, tra i nostri clienti c’è un’azienda tedesca che produce succhi biologici. Non fidandosi delle regole italiane di controllo i suoi delegati vengono durante l’anno a verificare la correttezza “biologica” della produzione.
A Castel del Giudice c’è anche un museo delle mele antiche o meglio un giardino dei meli antichi. Conserva un’ottantina di varietà dimenticate e recuperate tra Molise e Abruzzo. Prima che scoppiasse la pandemia attirava molti visitatori e mi auguro che si possa riaprire in autunno in occasione della Festa della Mela che cade nella seconda domenica di ottobre. In quell’occasione organizziamo anche laboratori di degustazione. Mi colpì molto vedere visitatori emozionati perché avevano ritrovato il tempo dell’infanzia attraverso i sapori.
Dopo il meleto è arrivato l’albergo diffuso: Borgotufi. Ancora una volta i protagonisti sono la comunità locale, l’amministrazione comunale e un piccolo gruppo di imprenditori. Non ci siamo fermati e abbiamo avviato pure la produzione di birra “agricola”, chiamata così perché fatta interamente con prodotti del nostro territorio: luppolo e orzo. Dietro quest’ultima impresa c’è un nostro concittadino che vive a Torino da oltre 40 anni. Non solo ha investito nel progetto ma l’ha messo a sistema con i birrifici piemontesi permettendoci di fare formazione e marketing. Io credo molto all’alleanza tra territori diversi, urbani e rurali, nel condividere esperienze. Per crescere mi sembra l’unica strada da percorrere».
Nel 2014 lei ha ricevuto il premio “Angelo Vassallo” che, nel nome del sindaco di Pollica ucciso in un attentato, premia quegli amministratori virtuosi capaci con la loro azione di promuovere lo sviluppo del proprio territorio rispettando l’ambiente, la legalità, la storia locale e la partecipazione dei cittadini. A Castel del Giudice siete riusciti a costruire un protagonismo collettivo? È stato complicato? Quali sono i risultati?
«È fondamentale che nessuno si senta escluso, naturalmente qualcuno che si lamenta non manca, ma si può dire che il lamentarsi appartenga un po’ alla nostra tradizione! Ciò che conta è dare a tutti l’opportunità di cambiare e creare un clima di fiducia. Abbiamo dovuto lavorare molto, ascoltare e assumerci il rischio, ma ora c’è una consapevolezza diffusa e sono numerosi quelli che sono davvero protagonisti delle iniziative facendosene carico.
C’è anche un altro aspetto per me molto importante e riguarda il rapporto con gli anziani, aspetto che si è rivelato fondamentale soprattutto per la nascita di Borgotufi. Sono stati loro i principali sponsor: gli anziani che ancora utilizzavano quelle strutture per tenerci qualche capra. Non potrò mai dimenticare uno di loro per la voglia che aveva di essere parte di un progetto che guardava al futuro, quando il figlio rifiutò di acconsentire alla cessione, venne da noi e ci chiese di non tenerne conto, di andare avanti lo stesso. Gli rispondemmo che non era possibile, che avremmo aspettato cercando di convincerlo della bontà del nostro progetto. Così fu e, finalmente, arrivò il giorno della firma. Quell’anziano arrivò in comune vestito a festa perché voleva dare valore a quel momento, anche dal punto di vista simbolico. Fu commovente. Bisogna avere uno sguardo diverso per cogliere le potenzialità di questo territorio.
C’è un altro episodio che voglio raccontarle e riguarda i tedeschi che acquistano le nostre mele e vengono qui per verificare la correttezza del percorso biologico. Bene rimasero sbalorditi quando arrivando in primavera trovarono la neve e si resero conto che aveva alimentato, attraverso le acque di un ruscello, l’invaso usato per l’irrigazione del meleto. Per loro era straordinaria l’assenza di “disturbo umano”. Un’altra grande opportunità può essere l’integrazione che porta nuovi abitanti. Siamo stati tra i primi a crederci, abbiamo aderito al progetto Sprar e ospitato famiglie di immigrati: quattro, che ora sono perfettamente integrate e lavorano nelle nostre aziende. Adesso abbiamo nuovi progetti con altre due famiglie, una pakistana e una nigeriana che hanno iniziato un progetto formativo. Gli immigrati non vengono a rubare il lavoro ma lo vengono a portare perché ci danno l’opportunità di partecipare a progetti europei creando occupazione anche per la popolazione locale».
Ritiene che la convenzione di Faro, voluta dal Consiglio d’Europa e finalmente ratificata anche dal Parlamento italiano, che riconosce il valore ampio del patrimonio culturale e l’importanza della comunità patrimoniale per la salvaguardia, possa essere uno strumento importante da utilizzare in Italia?
«Noi abbiamo adottato la convenzione di Faro in Consiglio Comunale, perché crediamo nel valore del patrimonio culturale come fattore di crescita dei territori e crediamo nell’importanza della comunità che non solo ha ereditato, ma ha conservato valori e tradizioni. Stiamo portando avanti con il Consiglio d’Europa un progetto che riguarda la multiculturalità e il dialogo interreligioso facendo dialogare ebrei, musulmani e cattolici anche su un tema particolare quale è la cucina, il mettersi a tavola per mangiare insieme. Purtroppo abbiamo dovuto sospenderlo per via della pandemia che ci ha permesso di realizzare solo incontri on line, almeno per ora».
Nel 2017 in occasione del Festival della Soft Economy di Symbola lei intervenendo disse: «La montagna va interpretata come opportunità facendo innovazione con la legge e puntando all’inclusione sociale. Le aree interne vanno guardate con occhiali nuovi, superando i vecchi modelli e trasformando i punti di debolezza in punti di forza. Devono essere luogo di piccoli laboratori sociali e gestionali, coinvolgendo direttamente i cittadini nelle scelte di sviluppo». In quello stesso anno nacque la cooperativa di comunità Artemisia che dava lavoro a giovani del paese a ad alcuni immigrati. È ancora convinto che la montagna sia una sorta di laboratorio sperimentale del futuro?
«La cooperativa di comunità è la nostra ultima nata, io la definisco “della comunità” perché ha la funzione di garantire servizi complementari integrati per tutto il nostro territorio. Gestisce lo scuolabus e l’unico emporio alimentare del paese, si occupa della raccolta dei rifiuti e delle pulizie del palazzo comunale, inoltre trasforma il miele prodotto nell’aviario di comunità nato dalla collaborazione con Legambiente e l’associazione apistica Volape. Insomma cerchiamo di dare valore al nostro territorio trasformandolo in un laboratorio del futuro, non relegandolo al ruolo di un piccolo mondo antico.
Sono convinto che se crescono le aree interne crescerà l’intero paese. Abbiamo il 60% del territorio nazionale emarginato, se riusciamo a immaginare un nuovo sviluppo, diverso dal modello sperimentato finora che ha rivelato tutta la sua fallacia, se ne avvantaggerà l’intero Paese. È inutile e dannosa la retorica dei piccoli comuni, diffido dei professionisti delle aree interne, come ho detto ci vogliono occhi diversi e tanto lavoro d’ascolto, di coinvolgimento per invertire la marcia. Ecco perché mi piace la parola laboratorio, perché mettendo insieme i saperi del passato e quelli di oggi possiamo davvero costruire un futuro migliore per tutti, fatto di alleanze e non di divisioni, di campanili contrapposti».
Castel del Giudice ha ottenuto molti riconoscimenti, anche all’estero. La “Società delle territorialità e dei territorialisti” fondata da Alberto Magnaghi presso l’Università di Firenze lo ritiene «uno degli esempi di rigenerazione territoriale più fecondi e meglio condotto in Italia». Lei è delegato Anci per le aree interne, territori evocati come essenziali per l’identità nazionale ma in realtà spesso trascurati. Come pensa che si possano superare gli squilibri esistenti?
«Partiamo da un primo punto: le risorse pubbliche. Sono fondamentali e vanno usate in modo efficace e tempestivo diversamente da quanto è accaduto in passato. Ne sono arrivate non poche ma in gran parte sono state usate male perché è mancata una visione, inoltre i tempi di realizzazione dei progetti sono stati estremamente lunghi rendendo i risultati poco efficaci. Occorrono dunque visione, risorse e considerazione della variabile tempo, che non è un fattore secondario.
Un’altra cosa necessaria è una legislazione specifica che tenga conto degli squilibri territoriali, che sappia guardare in profondità. Se i territori devono essere laboratori, luoghi per sperimentare modelli nuovi non bastano gli strumenti normativi che abbiamo, uguali per tutti. Faccio un esempio: la nostra cooperativa per andare avanti ha bisogno di essere multifunzionale, qual è il suo codice Ateco? E il dipendente che fa più cose come lo inquadro dal punto di vista giuridico? Credo che siano necessarie norme specifiche per le aree marginali che non sono solo le aree interne ma anche le periferie delle grandi città. Per questo penso che sia necessaria un’alleanza tra i territori e tra i sindaci. L’Italia, soprattutto ora che c’è da uscire dalla pandemia e costruire un modello di sviluppo diverso, ha bisogno di tutti».
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Public company: società caratterizzata da un azionariato diffuso, con la presenza di numerosi investitori e quindi con il capitale non concentrato nelle mani di pochi
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Maria Rosaria La Morgia, giornalista professionista, ha lavorato in Rai fino al 2017. Si è laureata in Filosofia con una tesi di antropologia culturale nel 1977 e ha frequentato la Scuola di specializzazione per Archivisti e Bibliotecari, su suggerimento di Alberto M. Cirese, suo maestro negli anni universitari. Il concorso per programmisti registi in occasione della nascita della Terza rete (1978) l’ha portata in Rai dove ha lavorato come giornalista nella redazione di Pescara e per un breve periodo anche in quella del TG2 a Roma. Tra le pubblicazioni: Contributo alla storia orale delle contadinanze frentane (1978), C’era una volta l’Abruzzo (1985), La Buona Salute, medici medicina e sanità nell’intervista con Silvio Garattini (1997), Terra di Libertà, coautrice con Mario Setta (2015), Sul cammino della modernità, a cura di Franca de Leonardis e Fabrizio Masciangioli, (2017). Tra le fondatrici del “Centro di cultura delle donne Margaret Fuller” di Pescara e dell’Associazione “Le Maiellane”, è attualmente è cultrice della materia presso la cattedra di Antropologia culturale dell’Università D’Annunzio, collabora con le riviste Leggendaria e Rivista Abruzzese.
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