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di Salvina Chetta
L’autostrada A29 “Palermo-Mazara del Vallo”, costruita dopo il terremoto che nel 1968 stravolse il destino delle persone e dei paesi del Belice, sorvola i luoghi, collega velocemente le coste della Sicilia occidentale con Palermo. Non permette soste, non consente l’attenzione dello sguardo, l’osservazione che apre squarci vertiginosi di pensiero.
Cambio strada. Preferisco addentrarmi nelle trazzere delle campagne, in strade provinciali franate per l’abbandono. Dalla Statale 118 lascio alle spalle il Bosco di Ficuzza e la maestosa Rocca Busambra, attraverso Roccamena e, costeggiando il fiume Belice Destro, raggiungo la diga Garcia.
Negli anni Sessanta gli abitanti della zona, guidati da Lorenzo Barbera e Danilo Dolci, lottarono per la realizzazione dell’invaso: «Ci domandano spesso / cosa vogliamo per le nostre valli. / Non vogliamo / i fiumi si disperdano nel mare, / le montagne aride si erodano / allagandoci ad ogni piovasco» scriveva Danilo Dolci in Poema Umano, «Vogliamo / valorizzando il nostro impegno / vallate perennemente verdi; / foreste ombrose crescere dai monti / sui vasti laghi dalle nuove dighe / mentre il mare rimane ancora mare / e sulle spiagge luccica la sabbia».
La strada provinciale n. 9 che dal fiume Belice Destro conduce alla diga e al fiume Belice Sinistro è impraticabile nella stagione invernale, la percorro caparbiamente: penso ai morti ammazzati dalla mafia, al giornalista Mario Francese che alla fine degli anni Settanta denunciava gli affari dei corleonesi sui terreni gravitanti attorno alla diga.
Lascio il lago Garcia. Pochi chilometri verso Sud-Ovest il Belice Destro e il Belice Sinistro si congiungono in un unico fiume, proseguo verso Poggioreale.
La scossa di terremoto distruttiva arrivò nel Belice alle 3,02 della notte tra il 14 e 15 gennaio 1968. «Si sente il boato di paesi interi che crollano: le case di tufo, costruite coi risparmi di una vita o le rimesse degli emigrati, si spezzano. Alcune seppelliscono i loro abitanti», scrive Anna Ditta in Belice. I comuni maggiormente coinvolti furono Montevago, Poggioreale, Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa, Contessa Entellina, Camporeale, Sambuca, Menfi, Santa Margherita Belice, Vita, Partanna, Calatafimi e Salemi. Gli sfollati furono trasferiti nelle baracche, qui vi rimasero per molti anni in condizioni di vita pietose. Molti preferirono emigrare.
Poggioreale vecchio non è stato distrutto dal terremoto, ma dall’abbandono: «Le porte non erano divelte, come le vediamo oggi. Erano tutte chiuse a chiave. E poi il paese è stato frequentato dai proprietari delle case per almeno 15 anni dopo il terremoto, perché la baraccopoli era attaccata a Poggioreale antica». Tre interi quartieri sono stati abbattuti con le ruspe e la dinamite. La maggior parte della popolazione sarebbe potuta tornare nella propria abitazione, non era necessario costruire un nuovo paese.
A Poggioreale vecchio torno ogni anno, in pellegrinaggio, mi piace dire. In passato tante volte ho valicato i cancelli serrati per cogliere i segni e le tracce di un tempo che non ho conosciuto: i luoghi si ricordano degli uomini più di quanto gli uomini si prendano cura di essi.
Nell’ultimo mio “pellegrinaggio” non ho attraversato i cancelli (le foto sono di qualche anno fa): questo luogo, così fragile e silente, mi si presentava ora quale tabernacolo di reliquie di un’“età del pane”, di una civiltà contadina che non c’è più.
Paese sacro che parla agli uomini della loro debolezza e precarietà. Quale futuro per Poggioreale vecchio? Il rischio peggiore sarebbe quello di farlo diventare un luogo per turisti della domenica, con percorsi guidati e vendita di prodotti tipici: rovina delle rovine. Il paese abbandonato, invece, invita a restare ai cancelli, al silenzio e all’ascolto del tempo.
Se Poggioreale vecchio è un paese di rovine di pietre, Poggioreale nuovo è un luogo di macerie di cemento. Costruito su un terreno franoso, oggi è considerato paese a rischio idrogeologico. La lenta e sofferta ricostruzione è stata caratterizzata dalla speculazione edilizia. Nel 2001, secondo i dati ISTAT il paese nuovo contava 1714 residenti, nel 2019 poco più di 1400, solo in questo stesso anno più di 50 persone sono emigrate in altri comuni dell’Italia o all’estero.
In estate, quando la terra ha il colore delle pietre delle case, nella strada tra Poggioreale vecchio e il Cretto vai piano, potresti non accorgerti delle rovine di Salaparuta. «…la rovina si inserisce in maniera unitaria nel paesaggio circostante, aderendovi come l’albero e il sasso. (…) Mattoni, tegole, pietre, breste assumono il colore del paesaggio, della vegetazione, si confondono con i movimenti, le linee dei luoghi, generando come visioni da trompo l’oeil, nature morte viventi. Sono tutt’uno con la natura circostante» (Teti, 2017).
Più a valle Salaparuta nuova. Qualche chilometro più avanti si trova il Cretto, opera di land art sulle macerie di Gibellina vecchia, realizzata da Alberto Burri negli anni Novanta e completata nel 2015. Il monumento, un bianco e gigantesco sudario di cemento, lascia intravedere nei profondi solchi la pianta urbana del vecchio paese.
Gibellina nuova, il paese ricostruito, si trova 18 km distante dal vecchio abitato e vicino all’autostrada che collega Palermo con Mazara del Vallo. Il progetto urbanistico non ha tenuto conto della storia e della cultura del territorio, dei suoi abitanti: il nuovo paese è deserto, le strade ampie, le case basse, gli spazi immensi e disabitati danno una sensazione di spaesamento.
Eppure sei mesi dopo il terremoto Danilo Dolci con il “Centro studi e iniziative per la piena occupazione della Sicilia occidentale” aveva elaborato un piano di sviluppo per la ricostruzione delle zone terremotate. Il piano nasceva dalle indicazioni della popolazione e degli urbanisti su come e dove ricostruire.
Di questo piano e delle esigenze della popolazione non si tenne conto nella ricostruzione: oggi Gibellina «risulta come una realtà non cucita bene. Con spazi non ben coordinati, oltre che sovradimensionati (…) priva di un riferimento diretto con la vita della comunità», sostiene Calogero Pumilia, presidente della Fondazione Orestiadi.
L’azione mecenatica di Ludovico Corrao, per tanti anni sindaco di Gibellina e ideatore della Fondazione, che ha richiamato artisti di fama internazionale come Pietro Consagra, Alberto Burri, Arnaldo Pomodoro, Ludovico Quaroni, Franco Purini, Laura Thermes, Paolo Schifano, Alessandro Mendrini e tanti altri a realizzare qui le loro opere, fa di questo paese uno dei più importanti musei a cielo aperto di arte contemporanea. Ma quale valore simbolico e identitario attribuiscono gli abitanti di Gibellina a queste opere en plein air?
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Riferimenti bibliografici
Caldo C., Guarrasi V., Beni culturali e geografia, Pàtron editore, Bologna, 1994.
Cassano F., Il pensiero meridiano, Editori Laterza, Bari, 2019.
Dolci D., La radio dei poveri cristi, Navarra Editore, Marsala, 2008.
Dolci D. Poema umano, Mesogea, Messina, 2016.
Ditta A., Belice, infinito edizioni, Formigine (MO), 2018.
Teti V., Quel che resta, Donzelli editore, Roma, 2017.
Teti V., Nostalgia, Marietti 1820, Bologna, 2020.
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Salvina Chetta, vive a Mezzojuso (PA), si è laureata in Lettere moderne ed è insegnante di Sostegno nella scuola primaria. Ha fatto parte della Compagnia del Teatro del Baglio di Villafrati (PA). Studia fisarmonica e si interessa di musicoterapia. È appassionata di fotografia e ha pubblicato alcuni saggi sull’emigrazione siciliana in Tunisia. Per la rivista “Nuova Busambra” ha curato la rubrica “Nivura simenza” sulle scritture popolari.
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