di Franca Bellucci
Da quasi due anni intrecciavo studio storico e riflessione lirica sul Novecento, ripercorrendo percorsi a me tangenti. Il tema mi si era imposto intorno ad una falsa impressione che, mi ero accorta, mi aveva indotto a considerare come impiantata nell’Italia-repubblica la casa editrice Einaudi, invece molto più antica: per la cronaca, nata nel 1933. Correggendo la mia falsa sensazione, ma anche interrogandomi, avevo disegnato una costellazione di temi riaffioranti dalla memoria, via via arricchendo con varie letture, ricordi, riflessioni. Strutturati infine i testi in una unica silloge, ne cercavo il titolo che, accanto a Novecento, segnalasse come fonte il ripensamento personale. Mi fermai su “flashback” o “affioramenti”, il primo per i guizzi di luce che la memoria avverte, l’altro per una metafora di acque e naufragi cui i ricordi somigliano. Optai per il secondo termine, come più appropriato per i miei processi: non certo perché “suonasse” più puro linguisticamente, nemmeno ci pensai.
È un fatto che, benché le letture abituali mi familiarizzino con un lessico consuetudinario, tuttavia sto incamerando termini di altre lingue, specialmente dall’inglese: del resto flashback è già termine tecnico, usato nella critica letteraria come in quella cinematografica. Io, ammetto, accedo a tali termini con eccessiva trascuratezza, senza accertarmi né dell’esatta pronuncia né dell’ampiezza di senso nell’originale. Cavalcherei il fenomeno con una certa indifferenza – del resto non avevo verificato a suo tempo che il ricercato tessuto che in Italia è definito “chiffon”, in Francia era lo straccio per pulire il pavimento? – e con questa avvertenza: che le connessioni attuali di aree geografiche distanti impongono una interculturalità dai molti livelli. La stessa organizzazione di attività lavorative e il lessico della relativa valutazione stimolano ad accettare, oltre che sigle di suono estraneo, anche termini stranieri, specie dalla lingua inglese.
L’avanzare dell’inglese nella pratica linguistica ha sollevato obiezioni più volte: in certi momenti, anche ricognizioni a gran raggio. Ricordo la fase in cui, era l’anno accademico 2012-13, il rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone, annunciò di voler organizzare solo in inglese la formazione superiore di ingegneri e architetti dall’anno accademico successivo. Fu un esperimento, quell’annuncio di estromettere l’italiano dallo specifico ambito formativo, che, fra azioni e ricorsi, è stato chiuso nel 2017 da sentenza definitiva della Corte Costituzionale, con il ribadire il primato della lingua italiana. La vivacità del dibattito spinse l’allora presidente dell’Accademia della Crusca, Nicoletta Maraschio, previa consultazione interna, a promuovere sull’argomento una consultazione fra le persone di cultura, non solo cultori dichiarati di lingua italiana, ma centri fra i più impegnati sul fronte della produzione linguistica: per esempio chi cura servizi culturali per stranieri o alte scuole per interpretare e tradurre, nonché esperti di diritto, scienze, arte. Si raccolsero anche contributi scritti, finché, il 27 aprile 2012, fu organizzata nella sede dell’Accademia la tavola rotonda Quali lingue per l’insegnamento universitario? Seguì il libro (Maraschio e De Martino, a cura di, Laterza 2012) che raccoglieva tutti i documenti, subito edito e diffuso nel modo più ampio.
Se ne scorro ora, nemmeno un decennio dopo, le pagine – nomi e pronunciamenti per oltre cento intervenuti –, il sentimento è ambivalente: da una parte mi compiaccio di una partecipazione così calorosa e franca, consona al rigore atteso dagli intellettuali, dall’altra considero come siano precipitosi i cambiamenti della situazione attuale. Qui, come altrove nel mondo, cambia la realtà materiale e culturale, specialmente per le attuali tecnologie social (termine inglese!). Ma sono le complessive relazioni che cambiano, penso per esempio all’Africa e ne colgo assetti emergenti, con gruppi etnici, lingue e espressioni storiche in precedenza oscurati nel protrarsi di effetti neocoloniali.
Fra gli interventi del libro citato, ne rileggo alcuni sull’uso dell’inglese. Mi pare praticabile e prudente il parere della linguista Cecilia Robustelli, dell’associazione EFNIL, ovvero la Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali, in cui vengono distinte «due diverse funzioni comunicative»: quella dell’inglese come mezzo di comunicazione operativo per partecipare «alle attività di organismi sovranazionali e internazionali» e quella della lingua nazionale, l’unica che consente, nel Paese dove si vive, di esprimersi a tutti i livelli e «in contesti che richiedano una efficace argomentazione delle proprie tesi». Un intervento ancora utile oggi, di Maria Teresa Zanola, ripropone un articolo del 1987 di Giovanni Nencioni, già linguista di ampie esperienze, «ideatore, promotore e primo Presidente dell’Associazione Italiana per la Terminologia». Nencioni, osservando lo sviluppo della collaborazione scientifica, tecnologica, produttiva, commerciale, rilevava che era servizio utile agli acquirenti «individuare esattamente la natura, le qualità, le insidie dei prodotti». In tale ambito di trasparenza e affidabilità egli rilevava la necessità di curare l’adeguatezza terminologica, univoca, fra parole italiane e inglesi. Di seguito, altro valore rispetto ad una tale comunicazione di tipo specialistico, Nencioni indicava per la lingua nazionale: «prezioso peculio segnico, intraducibile in altre lingue, voce e sigillo della nostra persona [... da alimentare] col solo mezzo efficace [...]: prendendone e facendone prender coscienza».
L’occasione del confronto verteva, come detto, su una situazione importante, ma circoscritta. Intorno al nucleo gli interventi aggiungevano proprie esperienze. Fra le critiche, si rilevava un’offerta di studio di lingue straniere, nell’istruzione secondaria, tanto prolungata quanto inefficace. Lo evidenziava Tullio De Mauro: l’insegnamento esclusivo in lingua inglese deliberato in una facoltà tecnico-scientifica non era che «una bizzarra fuga in avanti». Invece egli denunciava come problema la qualità della scuola: poiché «è la scuola l’agenzia di gran lunga più influente nel diffondere la conoscenza di altre lingue».
È stata la direzione di studio costante di De Mauro – mi dico – di misurare la tutela della lingua italiana nell’interazione con il sistema tecnico della trasmissione culturale: attento alle disuguaglianze delle capacità linguistiche come a seguirle nell’evoluzione della tecnica. Certo la conoscenza linguistica auspicata dallo studioso è concepita come risorsa valida, l’ignoranza di lingue straniere essendo «uno stato umiliante nel confronto europeo». E qui risiede forse l’accesso a quel pressapochismo che era stata la nota denuncia di un altro linguista noto, Arrigo Castellani. Scomparso nel 2004, nelle testimonianze sollevate intorno alla decisione del prof. Azzone veniva comunque ricordato: definito come purista «acuto investigatore» di quello che ironicamente egli definiva il «morbus anglicus» alimentato dalla boria nazionale.
Il settore socioculturale allora osservato era importante, ma contenuto in pratiche comunicative efficaci e ben normate, preparatorie per lo sviluppo cooperativo futuro. Altra palude le fioriture di espressioni che sono o si fanno passare per inglesi nella esperienza inusitata di pandemia che ora viviamo nel mondo. L’argomento monotematico passa sui diversi programmi televisivi di intrattenimento dove palinsesti e conduttori sembrano afflitti da una specie di ingordigia di scienza e di scienziati: l’agente patogeno, le varianti, gli approfondimenti presso laboratori e reparti ospedalieri, le designazioni dei mezzi telematici il cui uso è stato accelerato per sostituire le relazioni in presenza. In questa palude la quantità di parole nuove o quasi che suonano prossime all’inglese sta diventando un fenomeno patologico. L’effetto, per altro, non è quello di offrire chiarimenti, ma, anzi, di far avvolgere su sé stessa la comunicazione: sigle, più che parole, spesso composte in parti di cui, ora calcando sull’espansione, ora sulla presunta base, vengono moltiplicati i segmenti, spacciati per inglesi, si direbbe per conseguire con ciò una impronta scientifica.
Ovviamente, era scontato, l’allarme di chi era già allertato contro il «morbus anglicus», con il morbus patologico che dilaga diventa constatazione. Senonché qualcosa di simile sembra accadere anche altrove: per esempio tra i Greci, ci avverte un giornale (versione inglese! https://www.theguardian.com) il 1° febbraio di questo 2021, in una comunità che ha affrontato la lingua per le innovazioni contemporanee con priorità ben diverse da quelle avvertite in Italia. Per altro, quella lingua si conferma come riserva-crogiuolo delle nuove parole scientifiche utili per nuove designazioni: e area di parlanti la cui sensibilità linguistica si è dimostrata attenta, tanto che la resistenza del purismo lessicale e grafico si è risolta in una riforma di semplificazione solo nel 1982.
Così, non condivido l’allarme: meglio non fare diagnosi affrettate inseguendo le profezie, poiché è in agguato il fenomeno della “profezia che si auto-avvera”, di fatto, cioè, l’insidia che, compiacendosi di sé, si resti in una visuale condizionata.
Riparto dal quadro in cui si colloca il fenomeno odierno degli anglismi eccessivi e non di rado fantasiosi: come punto di partenza ho quello scenario attuale in cui oggi sono in connessione aree geografiche distanti. Lo abbiamo verificato durante la clausura obbligata, quando le merci però giungevano, in una circolazione intensificata, anche fra aree lontanissime. Nella filiera di queste merci, abbiamo facilmente presunto progetti, sistemi di sicurezza, controversie transfrontaliere che certo richiedono, negli assetti attuali, competenze di lingua inglese. Ora, la filiera della comunicazione è ancora più intrinseca a tecnologia e situazioni espresse in lingua inglese. È in atto un fenomeno specifico: il settore pratica e esplora tecnologie, mentre acquisisce spazi virtuali che sostituiscono il sistema dell’editoria tradizionale. È in corso, è evidente, una vera rivoluzione che scavalca quella tecnologia di edizioni su carta, che tradizionalmente, per comparti separati di industria culturale, arrivava ai set cinematografici e alle sale di fruizione. In questo ambito l’impressione di chi, come me, è estraneo è che ci siano ora spazi sforniti di accurata regolamentazione, e che molti soggetti cerchino visibilità, anche con sfoggio di improvvisazioni. In questo ambito instabile ma circoscritto collocherei le soluzioni di “inglese immaginario”.
Vero, non ho competenze specifiche, ma nelle stesse occupazioni abituali, in quelle letture di complemento che saturano le mie giornate, nella fase attuale presumo convergenza fra i contributi ancora tradizionali e quelli analogico-digitali: per come i prodotti sono offerti, fruiti, archiviati. I prodotti creativi o documentari si adattano a fruizioni molteplici, ma la disponibilità nei circuiti domestici diventa prevalente: fenomeno tanto più reso visibile dalla pandemia. Le stesse prove di conservazione archivistica sempre più si rivolgono a operazioni di manipolazione virtuale: lo dimostra in modo convincente Paola Italia (Italia, 2021: 50-71). Le trame stesse della narrativa o di altra produzione creativa, anche mirando, non già al fantasy, ma al realismo, non di rado si proiettano su scenari in cui i social, o il virtuale, hanno larga parte.
Fra tali considerazioni, provo a istruire da dilettante una verifica sulla resistenza della buona carta stampata al purismo linguistico. Scelgo un periodico particolarmente sostenuto nel linguaggio, «Domenica», supplemento del «Sole 24 ore». Il 21 febbraio 2021 modifico la normale lettura: tornerò su ciascun articolo segnando i forestierismi. L’uso è che il supplemento verta su un ambito o tema ben evidente. In questo caso il tema è dato alle storie distopiche: quelle “alla rovescia” – come diceva una filastrocca dell’infanzia. Incontro congiure, o storie intricate di trame e sangue che oggi si leggono con distacco, come scienza politica, e elaborazioni, e personaggi, defilati ma intensi, che meritano di essere riproposti, nonché storie che sembrano plausibili e invece si basano su invenzioni. Credo di riconoscere un aggancio al tema proposto nelle declinazioni delle pagine successive: la seconda, Luoghi e persone, cui segue la Terza pagina, antonomasia della cultura forte, poi due pagine per la Letteratura, la sesta pagina per Storia e storie, cui seguono Economia e società, le due pagine, nona e decima, per Scienza e filosofia come due le pagine per Arte, poi la pagina di Religioni e società.
In ciascuna di queste pagine appena menzionate, in cui si situano o articoli a più colonne di firme prestigiose o, negli spazi d’intercolonna che movimentano il colpo d’occhio, le rapide informazioni senza firma o siglate, avverto un’eco del tema proposto, la chiave distopica – utopica, negli articoli che tornano su temi e dibattiti noti per illuminare aspetti da riattualizzare. I recensori, firme prestigiose, avvicinano ai lettori eventi dal mondo, oltre che dall’Italia: studi approfonditi, che vedono la luce in edizioni cartacee o in mostre. Le tre pagine che seguono – cioè In scena, Musica, Il tempo liberato – sono volutamente calate nell’attualità. Il linguaggio ne risente: pur se ben calibrato, include quelle espressioni nuove, non sedimentate, su cui appunto ci interroghiamo. Il contenitore Il tempo liberato, XVII pagina, chiude in pratica il numero, seguendo nella XVIII la pubblicità di una casa d’aste: ma, poiché anche le pagine VII e XI sono di pubblicità integrale, di fatto le pagine esaminate sono quattordici.
In sintesi, se la presentazione di ricerche sedimentate dà il carattere precipuo alla rivista, di fatto essa si incrocia con l’informazione estemporanea. Il tono dell’attualità è del resto sostenuto dalla presenza dei bollettini che segnalano eventi: sono rubriche disposte in spazi ombreggiati così da rilevarsi prontamente, sia nell’apertura della pagina di Arte sia in quella di Musica (ciascuna delle quali divise in due parti simmetriche intorno a una illustrazione con didascalia). Tali rubriche assumono il linguaggio dinamico indispensabile ai fruitori come ai produttori degli eventi d’arte a tutti i livelli.
La pagina emblematica del travaglio linguistico di cui qui discutiamo è, ai miei occhi, la XVI, dedicata alla Musica: per i linguaggi diversi degli autori, per la disparità degli stili, ma anche per le contenute, ma indicative riflessioni che qualche autore avanza, e che direi rivelatrici. Le due sezioni informative, Settenote curato da Angelo Curtolo e Sipario curato da Elisabetta Dente, indicano i siti dove reperire gli eventi, nonché le piattaforme: live, o diretta streaming, canale youtube, piattaforma Zoom, online sui canali social, Streaming Drama. Ma anche l’articolo più rilevato nella grafica della pagina ha caratteristiche simili: La performance a domicilio, di Roberto Giambrone. Ho rilevato questi termini, lungo tale lettura, di cui riproduco i caratteri usati: ‘i riders del teatro’, ‘il delivery artistico [...] una forma di resistenza alla smaterializzazione della performance’, ‘gli spettacoli in streaming dilagano sul web sin dal primo lockdown’, ‘discutibile trovata della cosiddetta Netflix della cultura’, ‘La Scala di Milano, ha dovuto ripiegare sul web, facendo discutere col patinato mélange videosonoro’. Analogo il linguaggio nella didascalia della suggestiva foto: «Il Barbonaggio teatrale, delivery di performance artistica».
Mentre mi interrogo sui forestierismi, mi domando se sia fenomeno davvero di altra natura rispetto allo sfoggio di citazioni dal latino e dal greco, che pure in genere si ritengono piuttosto segno di soppesata cultura. Osservo infatti l’articolo, al lemma “forestierismo”, che trovo sull’enciclopedia Treccani online, a firma di Massimo Fanfani: nel Settecento ‒ egli dice ‒ si distinguevano i prestiti dalle lingue moderne da quelli provenienti da greco e latino. Ma, mi domando: e ora? quale la percezione media? Per tradizione la «Domenica» accoglie nel linguaggio termini classici: libri e verbali in latino si sono prodotti anche in secoli prossimi a noi. Certo è giustificato che Luciano Settis, annunciando alla pagina XII un prossimo seminario sul particolare blu usato da Raffaello nel Trionfo di Galatea, citi il ricettario dell’VIII secolo Mappae Clavicula per evidenziarvi il vestorianum, «detto così da Vestorius, che secondo Vitruvio produceva il blu egizio a Pozzuoli».
In prima pagina Mephisto Waltz (pseudonimo del corsivista abituale), che nel numero citato, sotto il titolo Sense of humor, sferza il recente atto «Brexit» (già deformato presso gli Inglesi, ma anche nelle memorie sincopate dell’autore, come «Brexshit»), ama il pastiche linguistico di effetto barocco, tra forestierismi giustificati da memorie storiche e ricordi del latino scolastico come l’espressione «cultura animi». Ma effetto barocco suscita anche, nella XVI pagina proposta come emblematica, Quirino Principe con l’articolo in memoria di Paolo Isotta, Critico enfant prodige, indignato e coltissimo. Dell’intellettuale egli rimpiange che si fosse ritirato dalla vita pubblica, sebbene avesse continuato a studiare, per aver subìto un clima d’incomprensione e ignoranza generalizzati. Nel far suo quel dramma, Principe assume un linguaggio studiato e sferzante: ce l’ha con chi, facendo del linguaggio ricercato una divisa di distinzione e uno strumento di contenimento contro i meritevoli, ne soffoca la creatività: «Perché il Fato non toglie di mezzo gli zombies analfabeti con le loro sgrammaticate omelie e la sconcia pronuncia anglicizzante di parole tedesche, francesi, ispaniche, russe, latine classiche?»
Ma nella XVI pagina trovo anche una chiave interpretativa di quanto sta accadendo, in fatto di produzione abnorme, non di rado fantasiosa, di prestiti di parole anglicizzanti. Nell’articolo in cui Pier Andrea Canei recensisce un libro sulle fasi creative attraversate da Lucio Dalla (Ritagli disperati, erotici e stomp), colgo una frase che, descrivendo il cambiamento in corso nell’uso dei media da parte dei professionisti della comunicazione, mi sembra illuminante: «[Il libro] è un’antologia di giornali (quante testate estinte, ahinoi) e giornalisti (prima specializzati, poi via via sempre più generalisti)».
L’inciso sulla situazione registrata nella professione giornalistica mi sembra coincida con l’impressione sopra evidenziata. Infatti, mentre accadono cambiamenti di estensione globale in tutto il sistema della comunicazione, ecco che riposizionamenti confusi, e forse anche improvvisati, si verificano presso gli operatori del settore. Anzi, coinvolgendo sia il sistema comunicativo sia le produzioni mediatiche creative, l’ampia ricaduta si ripercuote sia sui giornalisti, sia su scrittori e autori delle produzioni filmiche, declinate secondo le varie piattaforme. Ma interventi che entrassero nel merito presupporrebbero non solo alte competenze, ma anche una consapevolezza larga nella società, con opportune ricadute in tutto il sistema formativo: in una tale larga consapevolezza sarebbe possibile correggere la deriva linguistica e superare l’inclinazione alle soluzioni di “inglese immaginario”.
La verifica che tale mutazione del sistema comunicativo sia percepita, ha già una certa evidenza nella recente produzione letteraria: trascinando anche un linguaggio che include termini tecnici, particolarmente inglesi, e sigle. Cito qui un recentissimo romanzo di Alessandro Gazoia, Tredici lune, [Gazoia, 2021]. Gazoia, il cui ruolo come operatore di cultura va consolidandosi, come autore si è già fatto notare, in saggi e romanzi brevi, per la forza visionaria con cui si immerge in situazioni contemporanee, problematiche, sorretto da una parte da consapevolezza teorica, dall’altra da un linguaggio sobrio che miscela diversi piani psicologici, il percepire accanto all’associare. In questo ultimo romanzo il protagonista, in prima persona, si muove nella dimensione attuale del professionista scrittore, mentre viene identificato l’inopinato stato di pandemia. Di fronte alla mutazione generale dello scenario, il protagonista presenta abitudini che dovrà scrollare e mettere alla prova. Qui linguaggio e metalinguaggio si toccano e s’intrecciano, creando situazioni e offrendo materiali diversi: il protagonista, da scrittore, è anche attraversato da uno specifico ripensamento, lungo il quale scopriamo gli stratagemmi delle forme letterarie e delle filiere produttive – richieste anche ad agenti stranieri – che raggiungono i lettori.
Nel romanzo lo stile medio prevale, ma con luoghi di stile basso e anche di stile alto. A partire dal colera ricordato presso Thomas Mann in Morte a Venezia, molte sono le citazioni colte che rintracciamo leggendo, dall’antico al contemporaneo, spinte anzi fino all’efficacia dell’analogia: in particolare il titolo, che identificando la condizione astronomica dell’anno pandemico è riproposto in varie pagine, diventa esplicita citazione del film di R. W. Fassbinder, Un anno con 13 lune a pag. 104. Il protagonista attraverserà una gamma di prove durante la pandemia, tanto più che è coinvolto in una storia sospesa sul piano sentimentale, con una partner come lui professionista della scrittura, che, in fuga a Napoli presso la famiglia, rende più acuti i suoi travagli e insieme per brevi frasi telefoniche lo indirizza nelle scelte. Accade così che egli si confermi e insieme si reimposti, tra ibridazioni di calcoli, vaneggiamenti e attese, per attingere infine ad un’energia, forse coincidente con l’istinto di sopravvivenza, che lo spinge ad una sublimazione-reimpostazione delle esperienze professionali. È circa a metà della narrazione che il protagonista, combattuto tra lo stato d’animo d’inetto o di eroe, si immedesima nel film di Fassbinder. Come spinto dal proprio doppio, precipita in una situazione-limite di quasi suicidio, benché abbia pure provveduto ad avviare l’alternativa desiderata di scrittura.
Passiamo così, anche incontrando vari colleghi, tra presentazioni di generi letterari diversi, ma anche di diverso prestigio, dalla poesia al romanzo alla novella alla traduzione al pamphlet all’instant book al ghosting al memoir. Verificando alla fase di scioglimento la filosofia che «un libro è cospirazione», alla fine la soluzione per il protagonista è un’opera di “ghosting nobile”, se così si può dire, in interlocuzione col “politico-emblema-ambíto”. Dall’assistenza offerta al protagonista politico «che in questi mesi ha contato» si produrrà la ricostruzione della pandemia. Tra i generi presentati, che però all’acme della trama si interrompono, ci sono le deliziose-inquietanti brevi novelle che hanno alimentato il primo progetto creativo del protagonista, raccolte sotto il titolo di Microdemie, storie “a parte” che in realtà richiamano in modo intenso personaggi e situazioni della storia principale, e in questa si sciolgono, intrise di quella realtà densa di scorie registrate nell’attuale esistere, e di quei forestierismi su cui ci stiamo interrogando. Qui sembrano denotare in modo elettivo l’effervescente modificarsi delle esperienze, come quando notiamo che l’iniziale termine noto e appropriato “chiusura totale”, forse perché non abbastanza connotato, presto si specializza in “lockdown”, diventando così parola di cronologia situata, inconfondibile.
Talora quelle parole ibride impersonano il cosmo circoscritto della storia, ma si infittiscono negli aneddoti delle Microdemie. Ecco allora, tratti dalla quinta novella della serie, Un euro e cinquanta, costruita intorno al personaggio “Milena”, che si sovrappone a un personaggio presente nella trama del romanzo, qualche esempio: ridercercatrice, gig economy, app, Glovo, Deliveroo, pop, rider, social, googlare, Zoom, blog, necropolitica, cybercontrollo, kimchi, quest’ultima, un cibo coreano, essendo unica parola segnata con il corsivo. Per aiutare a interpretare: Milena ha un lavoro all’università, senza però alcuna posizione, per cui integra, disinibita e allegra, di che vivere, facendo la rider: o scriverò “rider”? o sostituirò con “consegnataria a domicilio”? Credo che se ne debba parlare: prima, però, occorrerà intendersi sui processi in corso, che tipo di sviluppi abbiano, se locali o delocalizzati: poi, intendiamoci su come nominarli.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Riferimenti bibliografici
«Domenica», supplemento del «Sole 24 ore», 21/02/ 2021
Gazoia, Alessandro, Tredici lune Milano, nottetempo, 2021
Italia, Paola, Editing 2000. Per una filologia dei testi digitali, Roma, Salerno editrice, 2021
Maraschio Nicoletta e Domenico De Martino (a cura di) Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, Roma-Bari, Laterza 2012
https://www.theguardian.com, 01/02/2021
https://www.treccani.it/enciclopedia/forestierismi_(Enciclopedia-dell%27Italiano)/)
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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