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di Simona Ottolenghi
Quando ho visto, appena uscito, il film Lost in Translation di Sophia Coppola, non ero ancora mai stata in Giappone. Nonostante avessi già viaggiato molto in Oriente, da subito sono empaticamente entrata nel “mood” del protagonista, perso nel linguaggio di una cultura che non gli apparteneva, una cultura che difficilmente, al primo impatto, si capisce e mette a proprio agio.
Il film mi è piaciuto tantissimo, e ho spesso pensato alle emozioni che mi ha lasciato nei miei successivi svariati viaggi a Tokyo.
L’impatto con la città è esplosivo: masse di gente che camminano in un disordine ordinatissimo in tutte le direzioni, uomini d’affari – come in divisa – con abito nero, camicia bianca e borsa 24 ore, e se piove gli ombrelli sono anch’essi tutti uguali, trasparenti, perfetti per i miei scatti fotografici, giovani universitari che creano un arcobaleno di colori con capelli fosforescenti, spesso vestiti da cartoni animati o le ragazze con abiti rosa da cameriere sexy, nell’unico periodo della loro vita sono liberi di uscire dagli schemi.
Tutto segue regole rigidissime. Questa almeno è la mia impressione, l’idea che mi sono fatta osservando, scattando e rivedendo ciò che avevo scattato, cercando di comunicare. Comunicare. È proprio questo il punto.
Ho percepito una fortissima solitudine, una solitudine che porta ad un senso di inadeguatezza mista al rispetto delle regole.
Ogni momento della vita di un giapponese è scandito da Regole. Fin da quando sono piccolissimi. E uscire da questo sistema è difficilissimo. Spesso, troppo spesso, ci si arriva solo con il suicidio. L’atto finale.
Nel camminare per le vie di Tokyo tutto questo è percepibile. È percepibile nell’insolito e inaspettato silenzio delle strade super affollate. È palese nel vedere che camminano tutti da soli.
E anche chi non è solo, di fatto lo è nel profondo. Vedo gli sguardi che vanno oltre, sommersi forse da mille pensieri o forse dal nulla. È vietato dire di no. O “non lo so”.
Mi è capitato per esempio di chiedere indicazioni sulla strada che cercavo, qualcuno scappava vedendomi avvicinare con la mappa, altri, palesemente in imbarazzo, si sono inventati l’impossibile pur di darmi delle risposte.
Qualcuno ha chiamato a casa, qualcun altro mi ha accompagnato perdendosi lui stesso assieme a me. Ma nessuno mi ha mai detto “scusami non lo so. Non posso aiutarti”.
Emblematica è anche la metropolitana. Le file per salire sui treni sono rigorose e ordinatissime. Nelle ore di punta, all’interno, a mala pena si riesce a respirare per quanto è alta è la densità di gente.
Ma anche qui c’è un silenzio assoluto, anomalo. Ognuno è prigioniero di se stesso nel lungo percorso che collega la famiglia al lavoro, o viceversa. Un percorso in cui devono fare i conti con loro stessi, e le loro coscienze.
Tutto questo, le mie sensazioni ed emozioni vissute tra la gente di Tokyo, le ho volute tradurre in immagini fotografiche, scatti che ritraggono frammenti di un mondo affascinante ma per me ancora difficile da decifrare.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
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Simona Ottolenghi, architetto, fotografo ed accompagnatore turistico abilitato. Il viaggio è sempre stato parte della sua vita. La curiosità, lo spirito di osservazione, e l’approccio etico l’hanno accompagnata nei più svariati Paesi, sempre, con l’immancabile macchina fotografica. Nel 2013 crea viaggiofotografico.it col suo compagno Roberto Gabriele, e da allora accompagna piccoli gruppi di appassionati fotografi nei quattro angoli del mondo, insegnando fotografia direttamente sul campo.
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