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di Cristina Marchisio
2017… l’anno del nostro viaggio in India, che ha segnato profondamente il mio modo di guardare la vita. Poiché l’India è tutto e il suo contrario. Il paese degli estremi, dove l’impossibile diventa normalità.
Siamo una famiglia di 6 persone e da anni viaggiamo con l’home exchange. All’estero è abitudine diffusa offrire con generosità la propria casa per trascorrere le vacanze: questo ci ha consentito di entrare nel profondo dell’intimità quotidiana di altri popoli, curiosi come siamo dei luoghi, ma soprattutto dell’umanità diversa da noi.
Ogni viaggio è stato un arricchimento personale e un’avventura familiare stimolante e divertente che ci ha unito. Finora abbiamo girato molto in contesti occidentali, riconoscibili. L’India no: ti assale, ti rapisce ogni senso, e non ti lascia andar via.
Pianificando un viaggio ognuno di noi propone una meta, che è soprattutto un sogno: i ragazzi preferiscono gli USA, noi adulti luoghi più esotici, forse perché il nostro tempo scorre più veloce.
L’India è stata la mia sfida, un sogno antico di liceale fricchettona che immaginava di andarci in bicicletta. Ora il ricordo mi fa sorridere ma il sogno, irrealizzato, è ancora vivo.
Ho aspettato anni, il viaggio è difficile e volevo che i ragazzi fossero pronti a far tesoro delle esperienze che avremmo vissuto e ad affrontare un impegno emotivo.
Avendo a disposizione più di un mese, scegliamo la vasta regione del Rajastan, con due tappe finali: Varanasi e Goa, ma questo è un altro capitolo. Ci saremmo presto resi conto che più che una vacanza, l’India è un esperienza, difficile da sintetizzare in poche righe e qualche immagine poiché ogni attimo vissuto è la trama di un racconto.
Alla vigilia del viaggio, riaffiorano ricordi di racconti orrorifici, non riesco a dormire e vengo assalita dai dubbi: abituati alle comodità ci sapremo adattare, anche il nostro piccolo di 10 anni, capirà?
Il bagaglio è ridotto all’essenziale, cambieremo spesso albergo (qui lo scambio casa non esiste) e gireremo in auto per molti chilometri. Pochi abiti leggeri, da lavare e asciugare velocemente. E con il bagaglio impareremo ad alleggerire l’anima liberandola dai preconcetti
L’aereo decolla: una lettura, un film, e in un istante atterriamo su un altro pianeta. L’impatto è traumatico. Quanto ho immaginato, sbiadisce di fronte a tanto: miseria, sporcizia, topi, caos, polvere e afa, sono uno schiaffo violento.
Ammutoliti, turbati nel profondo da ogni immagine che ci si palesa: alcune cose fa male dentro a vederle. Ci cerchiamo con lo sguardo per confortarci reciprocamente. Mi riassale l’ansia, abbiamo sbagliato a partire?
Ma il giorno dopo cambia tutto. Forse la curiosità genuina di ragazzi dai denti splendenti che si avvicinano per chiederci da dove veniamo e farsi qualche selfie con noi (scopriremo che qui è abitudine diffusa). O il sorriso disarmante di una dolcissima ragazza che porta sul capo la spesa di una settimana.
Così iniziamo a rilassarci, divertiti e improvvisamente, inaspettatamente a nostro agio. Questo mondo dalle emozioni estreme, dai toni forti, amore o odio, che non contempla le mezze misure, ci ha accolti con una gentilezza che non avevamo previsto. L’ansia sparisce.
Camminando per le strade di Delhi non sentiamo caldo nè stanchezza, resteremmo per ore a guardare: tutto è fuori da ogni logica. Come essere in un frullatore di suoni (dal rumore assordante dei clacson al coro dei richiami dei venditori); colori (da quelli sgargianti dei sari, al nero di occhi così profondi che puoi annegarci); profumi (aromi di spezie coprono quelli della morte e della povertà).
Tantissime persone, tutte ci guardano. E capisco ora cosa vuol dire che per andare in India devi essere pronto. Pronto innanzitutto ad un confronto con te stesso. A superare paure, e chiusure. Impari ad adattarti.
Abbiamo mangiato samosa fritte in pentoloni pieni di olio scuro, poggiati a terra nei caotici mercati, dove le fogne sono a cielo aperto, la merce è accatastata a terra, il cibo esposto a nugoli di mosche svolazzanti. Lavano le stoviglie a terra in pentoloni di acqua sporca tra scarti di cibo.
La gente cammina scalza nel fango, le mucche leccano e mangiano di tutto. Nel tempio a loro dedicato, i topi vengono nutriti con il latte, come fossero gattini. E nel paradosso, gruppi di donne spazzano la terra polverosa, con scope di saggina. Storpi chiedono l’elemosina. Donne ornate di vistosi monili camminano con sacchi enormi in testa e sembra che danzino con eleganza. Gli uomini sono buffi nel loro dothi bianchi, hanno barbe lunghe e strane capigliature.
Ho letto molto sull’India e visto tanti film, ma nulla prepara a tutto questo. L’atmosfera caotica è incredibilmente allegra e colorata. E diventa per noi naturale, quanto in un altro contesto ci avrebbe inorridito.
Il suono incessante dei clacson nel traffico sregolato e polveroso lo sentirò anche tornata a casa. Mi chiedo dove andranno, così di corsa auto, tuk tuk, carretti, biciclette sulle quali caricano e trasportano di tutto. E spingono e trascinano, con fatica, ma sempre pronti a regalarti un sorriso.
E i motorini: tantissimi…sui quali prendono posto intere famiglie numerose e sorridenti. Ci sono quelli che corrono, e poi quelli che stanno accovacciati per ore nel loro tipico modo, sul ciglio delle strade, ti chiedi cosa facciano. Nulla. Proprio perché loro stanno, non fanno.
La prima evidente contraddizione: traffico, caos, rumore nelle città più grandi, e immobilità, quiete nelle zone rurali.
Dimentichiamo l’orologio e ci abbandoniamo ai loro ritmi, al tempo fluidificato, non possiamo contrastarlo, né esportare lo stress occidentale. Impariamo anche noi a STARE
Dopo due giorni a Delhi partiamo per il Rajastan, la regione più vasta del continente, collocata nella zona nord occidentale, cosparsa di villaggi e cittadine di una bellezza principesca.
Non puoi muoverti da solo e ci assegnano un auto con autista, Josh. È uno dei migliori, dicono, ma siamo perplessi: il suo sguardo è assente il suo inglese incomprensibile. L’auto con la quale percorreremo circa 2.000 Km, convivendo in 7, per settimane, da noi verrebbe classificata come auto d’epoca. I bagagli ancorati sul tetto con improbabili corde. Siamo certi che perderemo le valigie, l’autista si scorderà di noi, la macchina si fermerà. Nulla di tutto questo succede. Raggiungeremo puntali ogni tappa del viaggio. Incredibile l’India.
Addetta ai reportage familiari, mi siedo davanti, per filmare il più possibile, e il sonnolento autista, con la sua auto stanca, sulla quale non avremmo scommesso, ci sorprende. Percorre sicura quelle che chiamano autostrade, per lo più sterrate, e attraversate da mucche, persone a piedi o in bicicletta.
Provo a fare un po’ di conversazione con Josh, ma non lo capisco, e poi per parlarmi si gira completamente verso di me e non guarda la strada. Desisto.
La guida sulle strade indiane è un esperienza che difficilmente scorderò. E capisco perché non consentano il noleggio di un auto privata. Qui non si guida seguendo una corsia, si va dove c’è spazio.
Non esiste un senso, né un contromano: camion, auto, animali o esseri umani possono arrivare da qualunque lato e, quando ti viene incontro un camion enorme che non frena né si sposta ma ti urla con il clacson, pensi sia arrivata la fine. Invece Josh non si scompone: sterza ed evita il peggio. Non sono nemmeno riuscita a fotografare, tanto ero terrorizzata.
Visitiamo tante città: la rosa Jaipur, la romantica Udaipur, la mistica Pushkar e poi Mandawa, Jodphur, Jaisalmer…Vediamo magnifici palazzi imperiali, sfavillanti di ricchezze da Mille e una notte, e straordinarie fortezze che trasudano storia, e poi il taj mahal.
Ma soprattutto viviamo l’esperienza di un’altra umanità. Anche dai finestrini dell’auto abbiamo visto scorrere l’India dei villaggi fuori città: case povere dai muri scrostati, dalle quali si affacciano donne e bambini che con il sorriso ti invitano ad entrare per un tè o per decorarti le mani con l’hennè. Strade fangose dove i ragazzini improvvisano giochi con nulla, tra l’immondizia. Sorridono tutti.
Una mattina a Jodphur ci hanno svegliato dei canti. C’erano persone ovunque, sui i terrazzi di case di pietra, in un attimo hanno riempito il cielo di semplici e colorati rettangoli di carta velina. È il festival degli aquiloni, tutti si chiamano, si sfidano in quella che diventa una danza di gioia. Siamo estasiati da quella vista, da quella pace immensa. Vorremmo non finisse mai.
Abbiamo dormito nel deserto, sotto le stelle di un cielo infinito. La sera avevamo assistito ad un ballo esotico, scopriremo dopo che la danzatrice così sensuale è un uomo. Perché le donne non si esibiscono, ma i maschi vestiti e truccati da donne sì.
A Jaipur gruppi di ragazzini scalzi e sporchi ci vengono incontro per chiederci penne e matite. Da allora ne porteremo sempre un po’ da regalare.
E la magia del raffinato rituale delle abluzioni, celebrato in un atmosfera sospesa nel tramonto impalpabile di Pushkar. Il paese degli estremi ci ha pervaso lentamente, distratti ad osservane la ammaliante bellezza e l’immensa trasandatezza, storditi di fronte alla sfarzosa ricchezza che convive con l’estrema povertà, il tempo è volato.
Tornati a Roma, ho chiesto ai ragazzi cosa li avesse colpiti di più. Tutto mi dicono: la guida folle, il tempio dei topi, la sporcizia nei bagni dei maschi alla stazione dei treni, il profumo delle spezie, i ragazzi maschi che passeggiano mano nella mano, per amicizia, la quantità infinita di bambini. Ma soprattutto la sensazione di aver aperto il cuore ad un altro modo di vivere e sentire, aver visto un mondo dove un acquazzone si trasforma in un momento di gioia e di giochi. Dove si riesce ad essere felici con nulla.
L’India è un fiume in piena che travolge con le sue contraddizioni che non puoi cercare di capire, ma solo vivere, abbandonandoti ad essa e alla sua illogicità. Se vuoi amarla devi prenderla così com’è, non puoi decodificarla con i tuoi schemi che parlano un altro linguaggio, dove quello che a te sembra folle è la normalità.
Siamo tornati a casa diversi. Felici di aver condiviso queste emozioni. Forse non riuscirei a viverci, ma è rimasta una voglia incredibile di tornare.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
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Cristina Marchisio, nata a Roma, dove vive. Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato a lavorare nell’amministrazione dell’allora A.O. S. Camillo Forlanini Spallanzani, prestando altresì attività di docenza nella scuola Infermieri che lì aveva sede. Dopo circa 20 anni ha lasciato per dedicarsi alla numerosa famiglia: quattro figli e un marito molto impegnato nel lavoro. Ha molteplici interessi e le passioni della fotografia e dei viaggi, ereditate dal papà. Si considera una fotografa “istintiva” e solo da poco ha iniziato ad approfondire la tecnica, per scattare in modo più consapevole e sperimentare un tipo di fotografia “creativa”.
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