Il ‘tempo edace’ ha ormai cancellato o sbiadito le lettere incluse nel timbro circolare ‘volume di seconda scelta’ sulla quarta di copertina del mio Splendido violino verde (acquistato a metà prezzo, verso la metà degli anni Ottanta, nella scomparsa libreria Remainders di Prato, di fronte al Castello dell’Imperatore), ma non ha ancora avuto modo di ‘mangiarsi’ l’attimo che ha dato una direzione imprevista alla mia vita. Ero allora, per dirla con García Márquez, un giovane lettore «felice e sconosciuto», sempre in cerca di libri ‘diversi’, di scritture ‘non omologate’, di autori ‘fuori squadra’. Constatai subito che l’esiguo libretto rientrava nella categoria, e che questo a me ignoto Ripellino meritava ascolto.
L’entusiasmo dell’ascolto determinò, per la felice congiuntura di un fortuito incontro con Alessandro Fo, una lunga fase di studi, di ricerche, e quindi di pubblicazioni volte a recuperare le parti più o meno sommerse dell’opera del nostro poeta-slavista. Entusiasmo che oggi riservo al libro che ho sullo scrittoio, dove il gramo quanto galeotto numero 132 della ‘bianca’ [1], assunto nella collana «Proteo» di Artemide, si è giocoforza mutato in un poderoso volume il cui pondo è provvidamente alleggerito da una strabiliante fotografia di Hanna Schygulla che fuma assorta dinanzi a uno specchio (triplicata, come en abyme, da uno specchietto sul tavolo del camerino, e ulteriormente ripresa da un manichino-sosia con sigaretta): scatto che ha anche il pregio di fulminare la dimensione teatrale del testo, insieme illustrando la mirabile quartina che lo conclude: «Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla. | O vita, o Hanna Schygulla, | sciantosa di varietà, sulla riva | del Nulla».
Sto infatti a sfogliare la prima edizione commentata della nostra raccolta, dovuta a Umberto Brunetti (che ha anche procurato una cospicua collezione di scritti ripelliniani)[2] e ulteriormente fortificata dai prestigiosi contributi di Corrado Bologna e Alessandro Fo. Ne scorro le pagine con un orgoglio, mi si perdoni, da sansepolcrista, e con il rammarico di non aver mai avuto io stesso l’animo di addentrarmi in un’impresa così ardua.
La poesia di Ripellino, impastata com’è di una prodigiosa profluvie di strati culturali e linguistici, è tutt’altro che facile, anche se la sua dimensione di spettacolo, la sua molto siciliana estroversione, consente una prima lettura ‘spensierata’, ha una relativa godibilità; ma penetrarne i singoli tasselli, risalire ai riferimenti e alle allusioni che vi si stipano, auscultarne e vagliarne i variegati ritmi, è tutto un altro affare. Ci vuole studio e studio, una riserva di certosina pazienza, un orecchio di poeta. Umberto Brunetti, che nei quindici canti del vivace poemetto goliardico in terzine Urbineide aveva già mostrato un bel talento poetico e non comuni abilità metriche, retoriche e linguistiche [3], e nella sua tesi di dottorato offerto un’ampia fetta del commento alla silloge [4], era la persona giusta.
Lo avevo intuito anni addietro, quando, nell’afa d’agosto mitigata dal ponentino, venne a trovarmi a Roma, sulla Cassia, in cerca di materiali e consigli per il suo oneroso progetto. Mi ispirò fiducia. Lo incoraggiai, gli diedi quel che potevo, in particolare le preziose ‘agende multicolori’ che Ela Ripellino mi aveva generosamente permesso di fotocopiare e che ora risultano in parte disperse. Ne ho poi seguito gli esperimenti, che ho visto crescere e maturare, perfezionarsi con metodo, fino a questo magnifico risultato: un esaustivo baedeker che, per quanto mi riguarda, raddoppia il piacere di visitare i versi prediletti, annullando il disagio di ritrovarli ‘in prigione’, circondati, sopraffatti da alte mura di temibili Apparati.
Brunetti si è in primo luogo impegnato a ‘stanare’ i rimandi occulti e le citazioni taciute che si affollano in questa prova come in tutta la poesia di Ripellino, costituendone virtualmente l’intero tessuto. Il compito era immane. Per assolverlo in pieno bisognerebbe aver confidenza con decine di lingue e letterature, con la pittura, il teatro, il cinema, la musica di tutto il mondo e di tutte le epoche, con varie arti e generi ‘minori’, con le cose più disparate: essere insomma un qualche miracoloso ‘doppio’ dell’autore. Brunetti, che è solo un valente italianista, può comunque esibire un gran bagaglio di illuminanti scoperte, a cominciare da quelle mediate dalle nostre agende (zibaldoni che alloggiano molti materiali connessi con le poesie, ivi compresi parecchi avantesti). Registro dunque, ammirato, che il «cugino dal Paraguay» (poesia 7) è tolto da una lettera di Kafka a Max Brod (la chiusa della poesia 18, «tutti noi siamo nati dal malumore di Dio», è invece indebitata con un frammento di colloquio fra Kafka e Max Brod riportato da Benjamin in Angelus Novus); che nella poesia 8 si annidano le osservazioni della studiosa Carola Giedion-Welcker (nei saggi su Schwitters e Max Ernst); che la poesia 25 («Uscire dalla malferma cabina di proiezione») è esemplata sul film Sherlock Jr. di Buster Keaton; che il nome Opsibeena (poesia 42) è tratto da un limerick di Edward Lear (integralmente trascritto nell’agenda 1972); che il finale della poesia 76 («e gli specchi sono avvelenati | come ritratti ad olio. Non guardarli») proviene da The White Devil di John Webster; che il «violino in fiamme» della citata poesia epilogale è preso dall’articolo Un’ora di applausi al Teatro di Praga costretto «al silenzio» dal regime (conservato in ritaglio nell’agenda 1971).
A questo bottino, si fa per dire già pronto per l’uso, Brunetti ha poi saputo aggiungere un ricco tesoro di acquisizioni tutte sue, frutto, è da credere, di pazienti indagini e di un fiuto da segugio. Ne darò solo qualche esempio, da lettore a lungo frustrato e ora finalmente pago. Nella poesia 6 il distico «Himmelblau mi consola con un melato “Amor mio”, | quando trascino il respiro come una sfera di ferro» chiama nientemeno in ballo la «Coop Himmelb(l)au, cooperativa di architetti con sede a Vienna, che nel 1971 si esibisce a Basilea in Restless Sphere: nella performance, al fine di mostrare le possibilità offerte dalle costruzioni pneumatiche, i tre soci percorrono il centro storico della città camminando dentro una sfera trasparente di quattro metri di diametro». Il verso «Il signor Debussy accorrerà con le forbici» (poesia 9) rimanda alla biografia debussiana di Edward Lockspeiser, dove si legge che «quando il musicista era ospite della famiglia von Meck, il giovane rampollo Maximilian lo definí con disprezzo “un petit coiffeur parisien”». Il verso «Il sole si offusca come un sacco di crine» (poesia 31) cita l’Apocalisse di Giovanni (6, 12). La «Violante tra i capelli di rame di un fràssino» (poesia 39) allude alla «Violante, figlia di Jacopo Palma, amata da Tiziano e da lui raffigurata con i caratteristici capelli color biondo ramato, oltre che nel ritratto omonimo, anche in Flora e in Amor sacro e amor profano», mentre l’Aquilia Zborowska della poesia 39 implica il «ritratto di Hanka Zborowska realizzato nel 1917 da Amedeo Modigliani, che viene citato al v. 25». Il verso «starnazza un corvo sul busto di Pàllade» (poesia 46) cita il verso 41 del Corvo di Poe («Perched upon a bust of Pallas»), laddove quello incipitario della poesia 47 («Giorni di luglio, cristalli di sciroppo») riconduce a un passo del capitolo XXIX di Moby Dick e «l’elmo del sole» del terzo verso alla lirica blokiana Sul crocicchio, tradotta da Ripellino. Ancora, i primi due versi della poesia 50 («Pian piano anche tu ti sfilerai dalla stretta | cruna della rivolta») traducono Re Giovanni, V, 4 («Unthread the rude eye of rebellion»), laddove il successivo «sarai buffo sul làstrico verde» è un prelievo dalla kafkiana Descrizione di una battaglia.
Trascrivo, a interrompere l’ingorda lista di cui chiedo venia, l’attraente congettura sul colore del violino: scontato il volto (e la mano destra) del violinista di Chagall, «un’altra fonte per l’immagine può essere identificata in Benn, Flutto ebbro, Caffè inglese, v. 4: “Die Geigen grünen. Mai ist um die Harfe” (“I violini inverdiscono. Maggio è intorno all’arpa”)». E aggiungo, per animare la lizza, avendo amara esperienza della perfettibilità dei commenti (i lettori di questa rivista ne hanno avuto nuove), che la decrittazione dei «nani del Veronese» della poesia 2 (preceduti da «violinisti querci» e «furbi larifari»), per i quali Brunetti chiama in causa il celebre dipinto La Bella Nani, potrebbe più linearmente riferirsi ai contegnosi omuncoli degli altrettanto celebri L’ultima cena (o Convito di casa Levi) e Nozze di Cana, e che nella poesia 80 il non considerato «Sono cotogne, attori di un’eclisse» presuppone senz’altro il Cotogna di A Midsummer Night’s Dream.
In parallelo con le ricognizioni nell’«ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze» [5] Brunetti ha cercato di individuare le fonti letterarie delle voci italiane vetuste o desuete che concorrono alla ricercata «contiguità stridente» della poesia ripelliniana. Così, insieme alle contribuzioni dell’«acerbità lessicale della nostra poesia del Due e del Trecento» [6] (Jacopone, Cavalcanti, Dante, Boccaccio) e dei prevedibili Secentisti (Marino, Tesauro, Lancellotti), ha saputo accertare i numerosi apporti di vari scrittori del Cinquecento (Giordano Bruno, Pietro Fortini, Straparola, e soprattutto Pietro Aretino). Questo raccolto si somma al dovizioso inventario linguistico che documenta un espressionismo da avvicinare alle esperienze ceche di Halas, Holan, Horten e, lateralmente, a quella gaddiana [7].
Brunetti ha poi dedicato una particolare attenzione all’ambito metrico, provvedendo per primo a classificare tutti i versi della raccolta: schedatura che gli ha consentito di rilevarne la «ricchissima varietà ritmica», l’assiduità di «precise sequenze anapestiche», di «trisillabi replicati con accento fisso sul secondo elemento», «l’uso insistente della rima ipermetra» (collegato alla «koinè pascoliano-dannunziana» disegnata da Mengaldo) e la sua originale variante di «rima ipermetra imperfetta in cui l’ultima vocale della parola sdrucciola replica l’atona della piana».
Del pari accurata l’analisi stilistica e retorica, la valutazione delle figure ricorsive (allitterazioni, paronomasie, omeoteleuti, anafore), degli aspetti fonosimbolici (valorizzati da una lettura ‘in voce’ piuttosto che silenziosa), dei meccanismi grammaticali che chiamano sofisticate esegesi: penso, ad esempio, alla «contrapposizione tra ieri e oggi, segnalata a livello verbale dall’alternanza tra i tempi imperfetto e presente, dove il primo si carica positivamente, mentre il secondo introduce uno stato negativo con la sferzata dell’avverbio di tempo (“ora”, “adesso”), foriero di un senso di declino»; o all’uso della congiunzione avversativa come «formula magica che getta uno spiraglio di luce nell’ombra».
Appropriati e perspicui anche i paragrafi sui rapporti fra la poesia di Ripellino e la tradizione poetica del nostro Novecento. Testi alla mano, «l’attenzione agli oggetti, specialmente quelli desueti o prosaici», «l’onnipresente attesa della morte precoce», la malinconia ritorta in ironia, il cortocircuito aulico-prosaico, l’uso intensivo di rime per l’orecchio, parlano di Gozzano. Le «metafore del poeta-saltimbanco e del poeta-incendiario» riportano a Palazzeschi. La tendenza alla «divagazione geografica», la «passione per la musica colta, che sfocia nell’impiego di nomi evocativi attinti al più svariato repertorio operistico», il «dirompente nominalismo» che si dirama nella «creazione di pseudonimi», il «valore emblematico attribuito agli oggetti», il «rifiuto del vatismo», l’impiego sistematico della rima, degli infiniti acronici e ottativi, il «modulo del verso a ritornello», denunciano l’influsso di Montale. Infine, il gusto dei «versi non sense» è un tratto comune con il coetaneo Toti Scialoja.
Un catalogo così completo, che è la necessaria premessa del gesto propriamente interpretativo (si guardi alle finissime notazioni sul modo con cui Ripellino declina i temi della malattia e della vecchiaia iconizzandoli in miele e dolcerie, in respiro che manca, in torpore e floscezza, o sulle sue singolari variazioni del tema baudelairiano del clown malinconico), e che per questo è da auspicare per tutte le altre raccolte, segna l’avvio di una riconsiderazione della poesia di Ripellino: una ponderata e dimostrata disamina che finalmente la candidi fra le maggiori del secolo trascorso [8].
Dei due ‘padrini’ che da un capo all’altro del libro stringono in un ideale e augurale abbraccio il lavoro di Brunetti, Corrado Bologna [9] offre all’ingresso una rapsodica, labirintica, ma anche scientificamente fondata divagazione sul Violino Ripellino. Avanzando impavido nell’«oceano ritmico e metrico, fonetico e semantico» della poesia ripelliniana, zigzagando fra gli sdruccioli «che sdrùcciolano nei suoi versi […] quasi a volerne trattenere la fine per la falda, acciuffàndoli per i baffi!», Bologna impernia il suo dispositivo sull’albero maestro di «Su questo magico violino verde», la poesia che apre la seconda sezione, eletta a «laboratorio di fonetica spirituale, un prisma nella cui perfetta diffrazione si coglie il raggio di luce che entra e si immilla con la potenza cromatica e la tenera, transeunte fantasmagoria del fuoco d’artificio nella tenebra della notte». Si affida, cioè, a una lettura per linee interne, complice, solidale, che ne ruba per così dire le scintille, ne ‘acciuffa’ con mosse da aruspice le innumerevoli suggestioni.
Fra gli approdi di questa appassionata e appassionante navigazione piace qui menzionare il riconoscimento del «mitologema del clown-acrobata sauveur dérisoire» dispiegato nel Portrait de l’artiste en saltimbanque di Jean Starobinski (titolo prontamente recensito, alla sua apparizione in Svizzera, da Ripellino)[10]; o quello di una «umbratile linea crepuscolare, però rimodulata su un meridiano europeo, in un intreccio ove Crepuscolarismo e Futurismo svaniscono come vane etichette, trasformandosi in sfumature di declinazione emozionale-verbale»; o la funambolica folgorazione del barocco ripelliniano come «modernissima, complessa scienza mnemonico-combinatoria universale camuffata da Das letzte Variété», «orchestrazione cosmologica di futili minuzie lampeggianti, comete lanciate in una danza folle nell’universo esploso, di cui nonostante tutto si continua a sognare, anche “dopo il Diluvio”, la smarrita Armonia, la fondazione unitiva del visibile e dell’invisibile, il sistema di corrispondenze dell’universo del molteplice garantito dalla Poesia, unica meraviglia, che “cerca di abbracciarlo e di render viva l’unità del mondo”».
Bologna associa la lirica di Ripellino a una galassia che si dirama dal barocco e dalla ‘metafisica’ di Donne fino alla ricerca baudelairiana di correspondances e a tutta l’epoca del simbolismo europeo. Ripellino è un «poeta gnostico-barocco del Novecento, illusionista e teatrale, saltimbanco malinconico e metafisico, che con “gli stracci dei versi”, “l’ingordo viluppo di inutilezze”, “l’inguaribile malsanìa di parole” sogna, visionario, di riscattare “l’azzurra malinconia di tutte le cose perdute”». Il suo barocco, affamiliato a quelli di Benjamin e di Gadda, è il sogno di «una Sophia che ha abbandonato il mondo armonioso e consonante facendolo uscire dai cardini: lasciandolo out of joint, secondo l’antico motto di Amleto studiato da Giorgio Santillana».
La sua poesia, giustamente apparentata alla «tradizione antica dei canzonieri lirici e del petrarchismo», visibile anche nello schema bipartito dello Splendido violino verde, tradisce un’ambizione poematica, di poema «incrinato, crepato, così come lo è ormai il cosmo», di flusso narrativo governato dal violino-metronomo. E le sue narrazioni poetiche sono il segno vitale che si contrappone alla morte, vogliono «aprire una finestra nel tempo immobile, una via di fuga iniziatica dall’infera “torbidezza” del sempreuguale», così rifacendosi alle accumulazioni anacronistiche di oggetti care a Gozzano e autorizzando la formula di un «crepuscolarismo trascendentale» votato al «catalogo di “tutte le cose” e di “tutte le immagini” da salvare, con sublime compassione, contro l’apocalisse quotidiana del banale, dell’incolore, dell’“implacabile senso di morte che vegeta dentro di noi”»: un immenso regesto in cui Ripellino appare il «regista, e addirittura “archivista” delle proprie fantasmagorie, sensibile sismografo e insieme ermeneuta che orienta eticamente con il suo segnavia ritmico-cromatico le emozioni suscitate nel lettore»; un regista-attore che sacralmente, come i Passeurs di Starobinski, «strappa l’umano al mondo animale e al muto universo delle macchine, la Vita alla Morte», rinviando all’Arlequin Trimégiste di Apollinaire (quasi paragramma, suggerisce arguto Bologna, di Ripellino), che, sempre secondo Starobinski, «riunisce per vie sovrannaturali ciò che naturalmente è disgiunto».
Forte di questo impianto, Bologna può permettersi di definire Ripellino, per come presidia «l’interstizio sottile fra la Vita e la Morte, fra il Qualche Cosa e il Nulla», «scrittore interstiziale», e di accostarlo al Dostoevskij delle Memorie del sottosuolo, al Kafka di La metamorfosi e La tana e, anche per il vezzo dell’eteronimo, al Pessoa di Ficções do interlúdio, per chiudere in bellezza (e leggerezza) con un Inno alla Signora Rima, questo «fragile e sonoro interstizio fra i versi», che rende omaggio ai precursori delle rime ironiche di Ripellino (il Gozzano di «Nietzsche/camicie», di «Pattarsy/riconsolarsi», di «Casimire/avvenire»; il Moretti di «Forlì/così», «D’Azeglio/meglio», «Verne/fraterne», il Montale di «delle/quelle»): gli antecedenti della «più arlecchinesca e filosofica delle rime», la coppia «nulla/Schygulla» in cui si spegne, in un soffio, la musica dello Splendido violino verde.
Su questa musica torna, in chiusura del libro, Alessandro Fo, grande fautore dell’opera e della poesia di Ripellino (cui ha dedicato pagine esemplari),[11] per «risalire la corrente di ricordi personali, per testimoniare una volta di più quanto decisivo possa essere, nel percorso intellettuale di una vita, l’incontro con un libro» e riandare alla sua iniziazione, che parte dal Ripellino «alto, slanciato, con la sua cartella», intravisto sui gradini della Sapienza, dalla collezione dei suoi libri in attesa di un futuro in cui poterli agiatamente compulsare, da un’«auletta di slavistica» ormai priva del Maestro gravemente ammalato e prossimo alla morte, fino a convergere, dieci anni dopo, sulla libreria Antica Moderna di Trieste: sull’acquisto dello «smilzo volumetto» dello Splendido violino verde e sulla notturna e traumatica lettura che gli fa immediatamente pensare allo «slogan pubblicitario che, fra aromi di krapfen, riecheggiava in quegli anni al Luna Park romano dell’eur: “Un mondo strano, bizzarro, fantastico”», e che inaugura una fervida stagione, non ancora conclusa, che ho avuto in sorte di condividere. Questa ‘commemorazione dello stupore’ – cosa che un critico, sappiamo, non «dovrebbe fare» – è tuttavia un viatico non meno efficace di uno studio denso di dottrina. Anche se ormai sulla strada dei classici, sono certo che Ripellino ne rifiuterà sempre i paludamenti, o li guarderà da lungi, in tralice (se non con l’«accento circonflesso sul ceffo» della poesia 71), come l’ennesima sua ‘meraviglia’.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Collana nata da un lapillo del vulcano Ripellino, l’esca lanciata in una lettera del 9 marzo 1963 a Italo Calvino: «A proposito, perché non iniziamo una collezione di poesia, analoga a quella di teatro, piccoli volumetti con brevi prefazioni, allo stesso prezzo? Una collezione che presenti magari autori poco noti: vi metterei Else Lasker-Schüler, Yvan Goll, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Artaud, Tuwim, Nezval, Halas, Benn, forse Breton, ecc.». Vd. Angelo Maria Ripellino, Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di Antonio Pane, introduzione di Alessandro Fo, Torino, Einaudi 2018: 67-68.
[2] Angelo Maria Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), a cura di Umberto Brunetti e Antonio Pane, Torino, Nino Aragno Editore, 2020 (2 voll.: pp. 866).
[3] Umberto Brunetti, Urbineide, prefazione di Daniele Piccini, illustrazioni di Diego Dari, Rimini, Raffaelli, 2017 (pp. 180).
[4] Lo splendido violino verde di A. M. Ripellino. Saggio di Commento, discussa nel 2018 a Macerata (relatore Andrea Rondini). Una primizia ne è apparsa, con il titolo Dalle Tre sorelle alla Primavera di Praga: la poesia n. 76 di Notizie dal diluvio, in Angelo Maria Ripellino e altri ulissidi. Atti del Convegno di studi (Ragusa, 6-7 aprile 2016), a cura di Nunzio Zago, Alessandra Schininà, Giuseppe Traina, Leonforte, Euno Edizioni, 2017: 43-58.
[5] Vd. Angelo Maria Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, «L’ozio», I, 1, 1986: 11.
[6] Vd. Angelo Maria Ripellino, La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli («Poesia»), 1967: 131 (Congedo).
[7] Sulla lingua poetica di Ripellino si veda il pionieristico sondaggio di Franco Pappalardo La Rosa, Angelo Maria Ripellino: dall’«Isola» alla Mitteleuropa (con ritorno), in Id., Lo specchio oscuro. Piccolo – Cattafi – Ripellino, Torino, Tirrenia Stampatori («L’avventura letteraria»), 1996: 113-14, non compreso nel pur vasto repertorio bibliografico predisposto da Brunetti (il trittico è stato ristampato nel 2004 dalle Edizioni dell’Orso di Alessandria).
[8] Un primo passo in questa direzione è costituito dall’antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Torino, Einaudi («Collezione di poesia»), 2005, che fornisce un bel profilo di Ripellino poeta, proponendone due liriche di Sinfonietta e una di Lo splendido violino verde. Ma si veda anche l’incisivo studio di Andrea Cortellessa: Rivestire di nomi l’abisso. Note per un itinerario in Ripellinia, «Ermeneutica letteraria», V, 2009: 115-134. Giuseppe Traina mi annuncia un suo Autunnale ripelliniano. Viva la poesia di Angelo Maria Ripellino, previsto il prossimo autunno da Quodlibet.
[9] Autore, in gioventù, di imprescindibili interviste a Ripellino: L’arte può salvarci con ferite di gioia, «Il nostro tempo», 23 luglio 1972: 3; Angelo M. Ripellino e la magia della scrittura, «La fiera letteraria», 15 giugno 1975: 12-15. Ora in Angelo Maria Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), a cura di Antonio Pane, Messina, Mesogea («La grande»), 2008: 39-42; 69-77.
[10] Quando Amleto si traveste da clown, «L’Espresso», 11 ottobre 1970: 19. Ora in Angelo Maria Ripellino, Iridescenze, cit.: 677-680.
[11] Basti qui ricordare, per limitarsi al ramo strettamente poetico, La poesia di Ripellino, in Angelo Maria Ripellino, Poesie. Dalle raccolte e dagli inediti (1952-1978), a cura di Alessandro Fo, Antonio Pane e Claudio Vela, Torino, Einaudi («Gli struzzi»), 1990: V-XXIX; La poesia-spettacolo di Ripellino come lotta e ricerca, in Angelo Maria Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di Federico Lenzi e Antonio Pane, Torino, Nino Aragno Editore («Biblioteca Aragno»), 2006: 11-20; Notizie dall’inverno: una voce da Praga nei versi di Ripellino, in Angelo Maria Ripellino, L’ora di Praga. Scritti sul dissenso e sulla repressione in Cecoslovacchia e nell’Europa dell’Est, a cura di Antonio Pane, Firenze, Le Lettere («fuoriformato»), 2008: 271-288.
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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