di Cristina Lavinio
Inglese e anglismi: allarmismi fondati?
Forse un po’ provocatoriamente, parto dalla segnalazione di un paradosso: se si deplorano i tanti anglicismi che invadono il nostro italiano sarebbe meglio parlare di anglismi, dato che anglicismo ricalca pari pari la forma dell’inglese anglicism ed è dunque un anglismo esso stesso, per quanto di più antica data e più diffuso rispetto ad anglismo. Tra l’altro anglicismo ha una sillaba in più, e una volta tanto il calco dell’inglese anglicism è meno economico della parola italiana anglismo. Ed è divertente che Google, che ormai permette di leggere anche fatti linguistici documentando, per esempio, la diffusione in rete di parole o espressioni, se scrivo anglismo mi dice che forse cercavo anglicismo (di cui anglismo è sinonimo, come qualunque dizionario recita), ma poi mi rimanda a un articolo di Tullio De Mauro dove si parla proprio di anglismi fin dal titolo [1]. Comunque, letto quest’articolo, come ha sottolineato anche Nicola Grandi [2], sembra che sia stato già detto tutto a proposito di quell’itanglese su cui tanto si discute.
Indubbiamente fa impressione vedere tutti insieme i tanti anglismi elencati recentemente da Ugo Iannazzi su questa rivista [3]. Ma, guardando in particolare il suo elenco C, ricavato dai media in tempi di pandemia, non ci vuol molto a realizzare che si tratta di un inventario eterogeneo in cui anglismi di ormai vecchia data e di ampio uso (come baby-sitter, blackout, blitz, flop, gap) sono mescolati ad altri molto più recenti, molti dei quali sicuramente occasionali, comparsi nell’uso intensificato di rete e mezzi informatici cui la pandemia ci ha costretto, con emergenziale lavoro e didattica a distanza, convegni e webinar in piattaforme varie e anch’esse dal nome rigorosamente inglese (Team, Zoom, Google Meet…). E come non citare, tra un recovery fund, un recovery plan e una Next Generation EU, gli anglismi della finanza e dell’economia internazionale che, a partire dalla burocrazia dell’Unione Europea, inondano il linguaggio pubblico, politico e istituzionale dei vari Paesi, in un’Europa che parla inglese, che cioè ha di fatto l’inglese come propria lingua ufficiale, nonostante i suoi proclamati intenti plurilingui e nonostante (altro paradosso) la Brexit? Ma sarebbe stucchevole negare il fatto che nel mondo globale è da tempo l’inglese la lingua della comunicazione internazionale. Ed è la lingua dell’OMS, cioè dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che quotidianamente viene citata a proposito di coronavirus, spike, droplet, screening, cluster, hub vaccinali e così via.
Possiamo denunciare tutto il capitalismo internazionale e angloamericano che vogliamo, di cui questo strapotere linguistico dell’inglese è spia, ma con ciò stiamo spostando il problema da fatti meramente linguistici per parlare d’altro (per quanto più che fondatamente); e forse stiamo anche sottovalutando un po’ le esigenze di un mondo globale che ha comunque bisogno di strumenti internazionali di comunicazione e in cui l’esperanto che alcuni continuano a proporre non ha mai avuto né avrebbe mai la possibilità di attecchire. Così come dimentichiamo che nell’ambito della cultura europea l’inglese ha da tempo soppiantato (non certo per meriti linguistici interni) il prestigio egemonico del francese. E prima ancora c’era il latino, con uno spazio persino per l’italiano in età rinascimentale. Sono nati così quegli europeismi già notati da Leopardi, che fanno sì che in certi ambiti del lessico intellettuale i termini di ogni lingua colta europea per esprimere i medesimi significati si rassomiglino tutti. Leopardi faceva l’esempio di europeismi a base francese, oggi ce ne sono tanti a base inglese, che magari rilanciano vocaboli di origine greca e latina, come nel caso della stessa parola media [4].
Quanto all’itanglese, esistono gli equivalenti in altre lingue (senza andar lontano il franglais, il denglish o lo spanglish), variamente avversati e stigmatizzati in nome di istanze anche latamente puristiche, pur se di vario tipo e motivazione. Ma ogni linguista sa e ogni parlante dovrebbe sapere che le lingue, tutte le lingue, come del resto tutte le culture di cui esse sono nello stesso tempo manifestazione ed espressione, cambiano inevitabilmente nel tempo. Una spinta al cambiamento proviene proprio dal contatto con altre lingue e culture, che si contaminano a vicenda e che si fanno vari doni, specie lessicali, l’una all’altra. A lungo peraltro il dare-avere tra italiano e inglese è stato alla pari, se è vero che, come è stato calcolato, gli anglismi tradizionali (ma sottolineo tradizionali) sui dizionari dell’italiano e gli italianismi su quelli dell’inglese sono stati largamente equivalenti.
Del resto, nella capacità di una lingua di accogliere senza problemi apporti provenienti da altre lingue sta la sua vitalità e ‘sicurezza’. Ciò avviene ora acclimatando i forestierismi alla propria struttura (per esempio con adattamenti morfologici), ora lasciandoli immutati, almeno graficamente, secondo una linea che attualmente è la più seguita (benché si trascuri il fatto che un adattamento almeno fonetico c’è sempre ed è inevitabile in qualunque prestito). Né ci possono essere protezionismi linguistici efficaci, fatti per legge, da autorità convinte che in questo modo si salvi l’unità lingua-nazione, cioè una costruzione ideologica romantico-risorgimentale che ignora il plurilinguismo esistente ovunque nel mondo se è vero che a fronte di poco più di 200 Stati ufficiali esistono almeno 7000 lingue differenti, le quali a loro volta si differenziano al proprio interno in varietà diverse e diversificate in diatopia (cioè nello spazio geografico), in diastratia (nello strato sociale), in diafasia (a seconda delle situazioni comunicative).
Anche in Italia, nei primi anni del 2000 (caduto il governo Amato, era di nuovo al governo Silvio Berlusconi) fu presentato un disegno di legge per l’istituzione (presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) di un Consiglio superiore della lingua italiana che stabilisse la grammatica e il dizionario ufficiale dell’italiano. Inutile dire che il disegno, il quale prevedeva anche ricadute nella scuola e che ignorava la straordinaria ricchezza di parlate locali (dialetti e lingue di minoranza) del nostro Paese, trovò l’opposizione compatta di tutti i presidenti delle maggiori associazioni di linguistica allora esistenti [5], dalla SLI (Società di Linguistica Italiana) alla SIG (Società Italiana di Glottologia), dall’ASLI (Associazione per la Storia della Lingua Italiana) al Giscel (Gruppo di Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) e al Centro Internazionale sul Plurilinguismo [6]. Tale opposizione era mossa da ragioni analoghe a quelle per cui si dovrebbe oggi mettere in discussione una proposta di legge protezionistica verso l’italiano. Tra l’altro, le lingue vive si tutelano da sole e la massa parlante ne determina le trasformazioni a seconda dei suoi bisogni: non c’è legge o Accademia che tenga che possa arginare il contatto interlinguistico, come oggi dimostra anche in Francia l’alto uso degli anglismi, almeno nei media, nonostante la citatissima legge Toubon del 1994, pur emanata in un Paese che fin dai tempi della Rivoluzione francese ha sempre perseguito una politica linguistica di tipo sciovinista.
E sento risuonare la voce di De Mauro che, ai tanti preoccupati per le sorti di un italiano definito di volta in volta, da almeno cinquant’anni in qua, “lingua selvaggia”, lingua parlata male e piena di dialettalismi e popolarismi, lingua lontana dai modelli letterari di un tempo, lingua infarcita di troppi anglismi ecc. ecc., rispondeva che l’italiano sta bene, mentre a star male è semmai la cultura linguistica dei parlanti italiani [7].
Si può anche tralasciare di ricordare il fatto ovvio della raggiunta e pressoché totale diffusione dell’italofonia: l’italiano è diventato lingua materna della maggior parte dei parlanti italiani, benché in una varietà locale o regionale più o meno marcata (fino ad alcune decine di anni fa non era certo così, data la persistente dialettofonia esclusiva di buona parte della popolazione).
Ma per poter dire che l’italiano sta bene è necessario soprattutto guardare un po’ di dati, utili per correggere quella che può rivelarsi invece come una percezione distorta, accentuata dalla crisi pandemica attuale. Se per esempio prendiamo il GRADIT (cioè il Grande Dizionario Italiano dell’Uso di Tullio De Mauro), scopriamo che gli anglismi sono 5850 rispetto ai complessivi 328.387 lemmi (e dunque sono solo l’1,78%) [8]. Sono certo, tra gli esotismi, marcati come ES, il gruppo più consistente rispetto al cumulo di tutti gli altri esotismi provenienti da lingue diverse (arabismi, francesismi, tedeschismi, ecc.), ma la loro incidenza complessiva non è poi così preoccupante. Né lo è nell’edizione 2021 dello Zingarelli, dove gli anglismi sono 2927 su un totale di 145 mila lemmi (e dunque il 2,01%), in una percentuale un po’ superiore alla prima. Inoltre, ci si può chiedere quanto senso abbia contare la presenza e la percentuale degli anglismi accolti nei dizionari dell’italiano, senza considerare la diseguale frequenza d’uso di questi stessi anglismi (ed evidenziare in quali testi e situazioni comunicative vengono usati, oltre che con quale densità rispetto alle altre parole del medesimo testo).
Possiamo però prendere in considerazione il Vocabolario di Base dell’italiano, messo a punto nel 1980 da Tullio De Mauro. Fino al 1980 non esisteva per l’italiano l’equivalente del Basic English o del Français fondamental, cioè un elenco delle parole più frequenti nell’uso e/o verosimilmente più note in almeno un’accezione ai parlanti di una lingua, quelle da imparare per prime se si studia quella lingua come straniera, ma anche quelle che tutti i parlanti nativi conoscono a prescindere dalle loro differenze sociali e culturali, grado di istruzione compreso. Quelle del Vocabolario di base (VdB) sono un pacchetto di circa 7 mila parole che si usano e riusano nei testi italiani e costituiscono almeno il 92% di tutte le parole presenti entro un medesimo testo. Il VdB è ulteriormente suddiviso in
- Vocabolario Fondamentale (FO): le prime 2000 parole più frequenti in assoluto;
- Vocabolario di Alto Uso (AU): le successive 2937 parole più frequenti dopo le prime;
- Vocabolario di Alta Disponibilità (AD): altre 1753 parole che sfuggono ai testi usati per istituire le liste di frequenza, ma che riguardano nozioni o oggetti d’uso quotidiano e che dunque tutti conoscono (es.: crisantemo, cullare, rosario, ventaglio).
Questi dati, della prima edizione del VdB, pubblicato da Tullio De Mauro in calce a Guida all’uso delle parole (Editori Riuniti, 1980) sono stati leggermente modificati nelle edizioni successive del medesimo volume. Analogamente, è cambiata leggermente e si è modificata nelle diverse edizioni del GRADIT la somma dei lemmi marcati rispettivamente come FO, AU e AD, fino ad arrivare ai circa 7400 lemmi del Nuovo Vocabolario di Base dell’Italiano (NVdB) [9], elaborato a partire dallo spoglio di un numero molto più grande di testi (anche parlati, mentre quelli usati in precedenza erano solo scritti). Se ne ricava un’immagine più aggiornata del lessico di base dell’italiano di oggi. Certo, vi si intensifica la presenza di anglismi, in precedenza limitati a poche unità (bar, film, sport, tennis, tram, whisky) e ora invece ben più numerosi. In particolare, troviamo tra le parole FO, computer, email, euro “moneta”, internet, ok e okay, quiz, test, web; tra quelle di AU: band, brand, baby, bit, boss, box, cliccare, copyright, design, detective, digitale “numerico, discreto”, fax, fan, fiction, flash, gay, global, gossip, hobby, hotel, home, hyperlink, jeans, killer, leader, link, live, look, marketing, menu, monitor, network, news, offline, online, party, poker, pop, post, privacy, pub, pullman, record, rock, set, sexy, share, shopping, show, single, slogan, software, spot, stress, style, tag, team, top, trend, weekend. Tuttavia, rispetto alle circa 7400 parole del NVdB, gli anglismi di queste prime due fasce sono solo l’1%; e si resta abbastanza al di sotto del 2% anche aggiungendo quelli registrati per la fascia AD (tra cui babydoll, boxer, cracker,hamburger, ketchup, kit, mister, motel, nylon, pony, punk, pullover, puzzle, shampoo, shorts, snack, sneaker, spray, stop, toast).
Quelle del VdB dovrebbero essere parole note a ogni parlante italiano in possesso di licenza media inferiore (ma ogni parlante, ovviamente, ne conosce molte altre, a seconda del mestiere che fa e degli interessi che coltiva, degli sport che pratica o segue ecc.). Il lessico ha una struttura stratificata di cui il VdB costituisce il nucleo condiviso. Ci sono poi circa 40 mila parole catalogabili come CO (italiano comune), che dovrebbero essere note ai parlanti italiani in possesso di licenza medio-superiore. E ci sono i lessici specialistici: vere e proprie terminologie (TS), che attraversano i saperi di ciò che si studia o che si conosce meglio; le parole di basso uso (BU), spesso obsolete (OB) o marcate come letterarie (LE), ecc. [10] Nel mare delle parole di una lingua (un numero indefinito e molto grande, di milioni e milioni di parole se si considerano anche i lessici specialistici: si tenga presente che neanche i dizionari più ampi le registrano e le potrebbero registrare tutte) [11] le parole del VdB costituiscono dunque il tessuto connettivo di tutti i testi, che consente a tutti di capirsi da un punto all’altro del Paese. Usarle il più possibile, rinunciando a parole più precise ma meno note se si vuole rispettare il diritto di tutti di capire, è qualcosa da ricordare soprattutto nel caso della comunicazione pubblica e destinata al grande pubblico.
Sarebbe poi interessante guardare al linguaggio giovanile, che in genere è molto influenzato dai consumi culturali, dall’uso degli strumenti informatici, dai videogiochi e dalla frequentazione dei social: oggi instagram e tik tok (dove si moltiplicano immagini, meme e gif e si riduce la comunicazione verbale) più che facebook e twitter, percepiti ormai come cose da ‘vecchi’. Uno sguardo veloce a quanto si trova in rete fa scoprire che quello giovanile attuale sembra un linguaggio ricco di sigle che arrivano dritte dritte dall’angloamericano (come LOL, da lots of laughs, OMG da Oh My God, TBH, da To Be Honest), comprese quelle in codice tipo POS (da parents over shoulders: un avvertimento perché una data conversazione rischia di essere letta dai genitori) o PAH (per segnalare parents at home).
Ancora una volta, ci si trova di fronte a lunghi e impressionanti glossari, in cui poi sigle e anglismi si mescolano anche con forme e parole italiane che circolano da tempo e che vanno da fra (forma abbreviata di fratello, per rivolgersi amichevolmente a qualcuno, ora in concorrenza con bro, da brother) a limone/limonare. Ma sarebbe importante capire quanto ciascuna di queste voci sia davvero conosciuta e usata, da quali giovani, di quale età e in quali situazioni e aree. E ho l’impressione che anche ai più ‘digitali’ tra i giovani (la didattica a distanza ha dimostrato che non tutti lo sono, privi persino dei mezzi e della possibilità di entrare in rete) suoni come fortemente caricaturale il brano con cui Nicola Grandi apre l’intervento che citavo inizialmente.
Posso qui accennare a dati ricavati da una ricerca svolta in Sardegna nel 2006-2007, in un campione rappresentativo di studenti dei diversi ordini di scuole e delle diverse zone e distretti scolastici dell’intera isola [12], usando un ricco e articolato questionario sociolinguistico che è stato compilato da 1546 ragazzi. Da alcune delle risposte alla domanda n. 35, una domanda onomasiologica articolata in più voci e tesa a ottenere la denominazione usata per nozioni e oggetti tipici del linguaggio giovanile, si ricavano alcune informazioni utili anche nell’ambito che in questa sede ci interessa. Infatti, gli anglismi che emergono in ciascuna delle risposte per le singole voci sono veramente pochi: in particolare, solo nel caso della designazione degli omosessuali la risposta di gran lunga prevalente è gay, mentre chi segue la moda è trendy (oppure trend o trendino) in 23 casi, chi non è alla moda è detto out in 20 casi e si trovano due attestazioni di anglismo grafico: in un papy (in risposta alla domanda “come chiami i tuoi genitori”?) e in un divertente schetty figa (in risposta a “cosa dici per una gran bella macchina?”), dove un ragazzo trascrive all’inglese l’avverbio sardo scetti “solo”, accompagnandolo al tipico e persistente giovanilismo figa “bella”. Inoltre, si è calcolato che, in risposta alla domanda (la n. 36) che chiedeva di citare esclamazioni e modi di dire usati con gli amici, i forestierismi e i falsi forestierismi ammontano all’1,6% del totale delle risposte ottenute. Assieme a qualche francesismo (comment ça va) o ispanismo (oh amigos), si tratta prevalentemente di anglismi: oh my God, ok, brothers, facciamo after, bette trend (dove bette, l’apertura tipicamente nuorese di esclamazione, equivalente al che esclamativo, si affianca alla parola inglese), Arold du Steward (un gioco di parole tra falso inglese e sardo che, per chi conosce il sardo, suona come un’imprecazione molto volgare). Un po’ pochi, insomma, questi anglismi rispetto al gran numero delle numerosissime altre risposte, ora in italiano, ora in sardo, ora in un mixing delle due lingue (talvolta con parole-macedonia e giochi linguistici vari), ma lontane dall’inglese.
Né quella appena ricordata è un’indagine troppo datata, se risultati analoghi sono emersi da alcune tesi di laurea successive e dall’uso di un questionario un po’ semplificato, compilato – in zone più circoscritte – da un numero molto inferiore di ragazzi, ma mantenendo ferma la domanda onomasiologica (“cosa dici per…”) già citata. Dalla più recente di queste indagini [13], per esempio, e dall’analisi accurata dei 265 questionari compilati dagli studenti, risulta confermata la prevalenza massiccia (in numero di 146) del prestito di ormai antica data gay per designare gli omossessuali, mentre compaiono solo 3 occorrenze (antifrastiche) di nerd per designare chi studia molto, 3 papy nella designazione dei genitori, 2 girl per indicare la fidanzata e 2 boy per il fidanzato, 1 in love per “essere innamorato”; cui si possono aggiungere 5 flirtare registrati a proposito di “corteggiare”, con un anglismo anch’esso corrente da decenni, diventato la base per un verbo con desinenza italiana.
A star male linguisticamente sono gli italiani
I dati citati permettono di ridimensionare fortemente la presunta snaturazione dell’italiano, che appare frutto di una percezione fuorviante. È una percezione che, certo, è stata accentuata dalla pandemia, ma di cui è responsabile, più che altro, il fare linguistico di una minoranza di italiani che contano e fanno ‘opinione’ (opinion leaders) nel nostro Paese: giornalisti, economisti e politici in primis. Ci sono poi i burocrati e gli autori di atti normativi e regolamenti che operano all’interno di vari ministeri e istituzioni. Hanno a che fare da una parte con un apparato burocratico europeo che, inevitabilmente, come si è detto, parla inglese e dall’altra con l’esigenza di adeguare la normativa interna a quanto l’Europa cui apparteniamo prevede. E così, esagerando, travasano anche in testi pubblici in italiano e destinati a cittadini italiani la terminologia presa di peso da documenti europei. Con somma noncuranza delle raccomandazioni e delle regole per lo scriver chiaro che per anni hanno circolato nella pubblica amministrazione e che ormai sembrano essere state completamente dimenticate [14].
Esemplare, in tutto ciò, quanto è invalso nel mondo accademico, con l’acquiescente complicità e adeguamento anche dei tanti docenti che ne governano gli organismi. Sembra che, in nome di una corsa verso una mal concepita internazionalizzazione, sia obbligatorio parlare, per esempio, di student satisfaction, di summer school, di assessment, di counseling, di contamination lab e così via, negli eccessi di una università aziendalisticamente concepita e dove in tanti teorizzano che si dovrebbe parlare inglese il più possibile, anche nel fare lezione, per essere competitivi e attirare studenti (o clienti?) stranieri. Senza neanche essere sfiorati dal sospetto che tra gli stranieri ci possano essere tanti che, specie in ambito umanistico, vogliano venire in Italia proprio per studiare e imparare meglio l’italiano, rischiando di trovarsi invece di fronte a lezioni svolte in un inglese, spesso scolastico e approssimativo, in un Paese in cui non si è mai brillato e non si brilla ancora oggi nello studio delle lingue straniere. Né è un caso che nelle scuole secondarie di secondo grado, dove per legge si dovrebbe svolgere in inglese l’insegnamento di almeno una materia (i corsi CLIL, Content and Language Integrated Learning), la cosa sia spesso rimasta disattesa. Per fortuna, aggiungo.
Tornando all’Università, sappiamo tutti da tempo che i “prodotti” della ricerca da presentare per conseguire l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) o per vincere concorsi nazionali, se scritti in inglese, secondo la logica buro-dominante varrebbero di più a prescindere. E come non ricordare quanto è accaduto solo lo scorso anno, quando si è preteso che fossero redatti solo in inglese i progetti di ricerca (di qualunque area scientifico-disciplinare) da inviare al Miur per sperare in un finanziamento? La cosa è poi rientrata grazie alle proteste di tanti (docenti di lingue diverse dall’inglese e Accademia della Crusca in primis), reintroducendo anche la versione in italiano a fianco a quella, rimasta come indispensabile, in inglese. E abbiamo visto, anni fa, commissioni ANVUR e/o di concorso in cui era obbligatoria la presenza anche di un commissario non italiano (l’unico retribuito, e lautamente) che poteva dunque trovarsi a ‘valutare’ titoli per lo più scritti in italiano. Peccato che poi, come si è ampiamente scoperto, l’italiano fosse talvolta per lui una lingua completamente ignota.
Tutto ciò aveva e ha a che fare con una linea di incentivazione all’uso dell’inglese nelle pubblicazioni. Purtroppo si sottovaluta il pericoloso impoverimento che alla lingua italiana può derivare dall’espungerne l’uso nell’ambito della comunicazione scientifica. Inoltre, se il ricorso all’inglese può avere un qualche senso (sempre?) nell’ambito di certe aree ‘bibliometriche’, ce l’ha nello stesso modo in quello delle aree scientifico-disciplinari di ambito umanistico? Che senso ha, in particolare, che anche italianisti, francesisti, ispanisti, slavisti e così via pubblichino in inglese i risultati delle loro ricerche? E che senso ha parlare in inglese in convegni in cui poi partecipino solo italiani o persone che comunque capiscono l’italiano?
Senza porsi tali quesiti, molti Atenei e corsi di studi cercano invece di pubblicizzare e far apprezzare la propria mission ricorrendo all’inglese e agli anglismi il più possibile. Né si sospetta che atteggiamenti del genere possano invece essere indici di grande e subalterno provincialismo. Inoltre, i convegni o i congressi si chiamano sempre più spesso conferenze (per la pressione formale di conference) e sempre più numerosi sono coloro che approcciano (e non affrontano) questioni e problemi, ricorrendo dunque a parole italiane, ma suggerite e ‘allargate’/deformate nella loro semantica da usi che dall’inglese derivano direttamente. Sono insomma anglismi anche questi, più insidiosi perché meno evidenti, e arrivano ad intaccare anche qualche regola dell’italiano, come quella che prevede l’articolo di fronte a sintagmi con valore temporale: per esempio, espressioni come (ci vediamo) settimana prossima diventano sempre più frequenti e le si sente quotidianamente, non solo sui media ma anche nel parlare comune (e coincidono con l’uso inglese corrispettivo).
Se poi ci chiediamo a cosa sia dovuto questo asservimento, anche inconsapevole, all’inglese, non possiamo non ricordare l’evidente insicurezza linguistica di tanti italiani, prima di tutto nei confronti dell’italiano stesso. Un fondo di insicurezza c’è o ci può essere persino in chi esibisce un vocabolario mutuato dall’inglese pur quando potrebbe usare benissimo una delle tante parole equivalenti nella nostra lingua. Inoltre, magari in un impasto di esibizionismo e mal riposto autocompiacimento nel disseminare il proprio dire di anglismi di ogni tipo, c’è chi pensa di diventare in questo modo più attendibile e di far colpo, per quanto nella noncuranza più totale della possibilità di essere davvero capito. Lo fanno persino certi esperti di comunicazione e di marketing, usciti magari da corsi di laurea in Scienze della comunicazione dove si studia, assieme a numerose discipline economiche, come curare immagine e aspetti grafici nei messaggi più vari, ma non come curare gli aspetti verbali (spesso concomitanti) del comunicare, le parole da usare e con cui rivolgersi agli altri non per imbrogliarli (anche questo può essere fatto intenzionalmente mediante tecnicismi inglesi) ma per parlare in modo onesto e chiaro.
Si potrebbe continuare a lungo nell’elencare vari aspetti della scarsa cultura linguistica degli italiani, che mediamente studiano poco e male le lingue e che, anche ricorrendo all’inglese per darsi un tono, possono cadere in quei malapropismi di cui, per l’italiano, esistono lunghi inventari, e di cui, specie in ambito medico, si fa spesso collezione: vene vanitose (per varicose), gambe in attrazione (per in trazione), arachidi al seno (per ragadi), tendine del gommista (per gomito del tennista), amministrazioni (per mestruazioni) ecc. Analogamente, infatti, solo per fare qualche esempio, il lockdown può diventare lookdaun e il fund del recovery viene confuso con found; mentre l’apparentemente più accettabile smart working è un’invenzione italiana se gli inglesi parlano invece, piuttosto, di working from home.
Chi poi l’inglese lo sa davvero non ha bisogno di esibirlo in continuazione e sa tenere meglio separate le lingue che parla. Ma la cosa più preoccupante è, ripeto, che troppo spesso non si conosce bene neppure l’italiano e si è in fondo linguisticamente maleducati, in due sensi fondamentali:
1) nel senso di una vera e propria maleducazione che sta nel mancato rispetto dei destinatari cui ci si rivolge. Ciò, come ho già anticipato, diventa particolarmente pesante nella comunicazione pubblica e istituzionale rivolta al grande pubblico. Tra l’altro, si fa finta di non sapere che in Italia, come risulta anche dalle più recenti indagini internazionali OCSE-PIAAC (l’ultima è del 2017) tra la popolazione adulta in età lavorativa (tra i 16 e i 65 anni d’età), si registra un drammatico e diffuso analfabetismo funzionale di chi non riesce a comprendere un testo scritto piuttosto semplice. In particolare, nelle prove di literacy somministrate, non solo il 28% si colloca decisamente tra i low skilled (livelli 1 e 2), ma il 70% non raggiunge il livello 3, «considerato come elemento minimo indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali, economiche e occupazionali»[15]. È dunque al di sotto della possibilità di orientarsi nella vita sociale ed esercitare in modo pieno e consapevole i propri diritti di cittadino.
Senza tenere conto di tutto ciò, anche ricorrendo a inutili anglismi (entro un complessivo non badare alle regole fondamentali dello scriver chiaro) [16], si aumenta la distanza tra chi scrive (o parla) e chi legge (o ascolta) e avrebbe il diritto di capire i messaggi a lui destinati e che su di lui dovrebbero essere calibrati il più possibile. E non si rispettano così i princìpi più elementari di buona educazione, linguistica e non, violando il principio di cooperazione e in particolare la massima della chiarezza (sii chiaro) che dovrebbe caratterizzare ogni comunicazione efficace [17]. E, come sappiamo, quando si viola una delle massime che regolano la comunicazione, scatta una qualche ‘implicatura conversazionale’ da interpretare nei modi vari cui sopra si è accennato (malafede, volontà di essere oscuri per parlare o ammiccare solo a un gruppo più ristretto di parlanti, snobismo, insipienza e così via);
2) nel senso che manca una buona e generalizzata cultura linguistica. Le idee che gli italiani, hanno sulle lingue e su come funzionano sono intrise dei luoghi comuni più tradizionali e la loro capacità di guardare alla lingua e alle lingue che usano sono molto scarse. Non solo le scienze del linguaggio (e tra queste la linguistica) sono considerate troppo ‘tecniche’ dagli stessi studenti universitari di Facoltà umanistiche, ma le stesse nozioni più elementari relative alle parti del discorso (nomi, verbi, pronomi…) e al loro funzionamento entro i testi che si producono parlando o scrivendo sono quasi del tutto ignote o dimenticate («sono cose da scuola elementare», mi sono sentita dire tante volte da studenti universitari stupiti perché pretendevo di accertare le loro (in)esistenti conoscenze al riguardo). Eppure poi in tanti, in Italia, finiscono per discutere appassionatamente, in termini categorici e prescrittivi (si dice/non si dice, giusto/sbagliato), delle mille piccole questioni linguistiche, veri e propri tormentoni, che nascono periodicamente intorno a un petaloso oppure intorno a nomi di professioni che siano (o non) rispettosi delle differenze di genere (direttore o direttrice d’orchestra?). Senza sospettare minimamente che, in fatti di lingua, sia meglio parlare, piuttosto che di giusto/sbagliato, di scelte (tra le tante possibili) più o meno adeguate all’argomento, al contesto e ai destinatari a cui si parla. E che ci possano essere tante norme d’uso differenti a seconda delle varietà linguistiche in cui una stessa lingua si articola.
La situazione appare insomma piuttosto sconfortante, benché da oltre un cinquantennio si senta l’esigenza di un’educazione linguistica democratica [18] che fornisca a tutti consapevolezze di questo tipo, che sia rispettosa di tutte le lingue e di tutte le varietà di lingua dello spazio linguistico e culturale in cui la scuola opera o da cui gli allievi provengano, per costruire, a partire da quelle che già possiedano, competenze linguistiche sempre più avanzate relative prima di tutto all’italiano e al suo plurilinguismo interno. E senza dimenticare che occorrerebbe studiare bene a scuola, oltre all’italiano e oltre all’inglese, almeno un’altra grande lingua europea, come a lungo l’Unione Europea ha raccomandato.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] T. De Mauro, È irresistibile l’ascesa degli anglismi? In “Internazionale”, 14 luglio 2016.
[2] N. Grandi, Chi ha paura dell’inglese?, in “LinguisticamenteBo” (https://www.linguisticamente.org/chi-ha-paura-dellinglese/ )
[3] U. Iannazzi, La difesa dei nostri patrimoni linguistici sopraffatti dall’inglese, “Dialoghi Mediterranei” n. 47, gennaio 2021.
[4] Quella degli europeismi è comunque una nozione problematica, dato che essi possono essere assorbiti entro la nozione più ampia di internazionalismi; e anche così non mancano i problemi in quanto, nel passaggio da una lingua all’altra di parole che sembrano le stesse, si hanno più o meno grandi mutamenti semantici, nascono falsi amici (come libreria/library) ecc. Cfr. H. Stammerjohann, Europeismi, in R. Simone (dir.), Enciclopedia dell’italiano, 2010.
[5] Bisogna precisare allora perché successivamente ne sono nate varie altre.
[6] Tracce delle discussioni su tale disegno di legge sono nel volume a cura di F. Lo Piparo e G. Ruffino, Gli italiani e la lingua, Palermo, Sellerio, 2005.
[7] Cfr. le sue “Considerazioni conclusive: l’italiano sta bene, gli italiani un po’ meno”, alla fine del capitolo “Nuove parole dell’uso”, in T. De Mauro, La fabbrica delle parole. Il lessico e problemi di lessicologia, Torino, Utet, 2005 (lettura fondamentale e istruttiva per chiunque voglia dare uno sguardo d’insieme a questi problemi).
[8] Ricorro qui ai calcoli fatti su Gradit e Zingarelli, presentati utilmente da Vera Gheno, Sull’uso e abuso delle parole inglesi in italiano, “Valigia blu” del 24 marzo 2021.
[9] Reperibile anche in rete (“Internazionale”, 23 dicembre 2016) e pubblicato in calce alle edizioni più recenti e postume di Guida all’uso delle parole (Laterza 2019 e 2021). Sul NVdB e sui criteri seguiti per definirlo cfr. I. Chiari e T. De Mauro, The New Basic Vocabulary of Italian as a linguistic resource, in R. Basili, A. Lenci e B. Magnini (a cura di), First Italian Conference on Computational Linguistics CLiC-it 2014, Pisa, Pisa University Press, 2014: 113-116.
[10] La presenza di tali marche d’uso rende particolarmente utile il già citato GRADIT.
[11] Occorre ricordarlo perché persino le persone colte sembrano spesso cadere nella trappola del ritenere che tutto ciò che non è registrato sui dizionari non esista o, peggio, sia erroneo. Per approfondire, cfr. T. De Mauro e S. Ferreri, Quantità dei lemmi nei dizionari, in T. De Mauro e I. Chiari, Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua, Roma, Aracne, 2005: 297-306.
[12 C. Lavinio e G. Lanero (a cura di), Dimmi come parli… Indagine sugli usi linguistici giovanili in Sardegna, Cagliari, Cuec, 2008.
[13] I. Deiana, Dimmi come parli. Indagine sugli usi linguistici giovanili in Ogliastra e a Cagliari, Università di Cagliari, a.a. 2014-2015. La stessa indagine ha permesso di mettere a fuoco anche alcune variabili di genere nel ricorrere alle lingue in contatto e a vari disfemismi (I. Deiana, Atteggiamenti e usi linguistici di ragazze e ragazzi in Ogliastra e a Cagliari, in “Rhesis. Linguistics and Philology”, 10.1, Cagliari, 2019: 113-136).
[14] Cfr. almeno il Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, pubblicato nel 1993 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per la funzione pubblica, e al successivo Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche a cura di A. Fioritto, Bologna, il Mulino, 1997.
[15] G. De Francesco (a cura di), PIAAC-OCSE: Rapporto nazionale sulle competenze degli adulti, Roma, ISFOLD, 2014: 31.
[16] Ovviamente l’oscurità può scaturire soprattutto da frasi troppo lunghe e sintatticamente complesse, da verbi in forma implicita, da passivi, da sigle e acronimi non sciolti, dal ricorso a termini tecnici e specialistici anche quando non ce ne se sarebbe bisogno e si potrebbero usare parole del VdB ecc. ecc.
[17] Cfr. P. Grice, Logica e conversazione, Bologna, il Mulino, 1993.
[18] Cfr. T. De Mauro, L’educazione linguistica democratica, a cura di S. Loiero e A. Marchese, Roma, Laterza, 2018.
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Cristina Lavinio, già professoressa ordinaria di Linguistica educativa all’Università di Cagliari, ora in pensione, è responsabile per l’italiano nel polo della Sardegna (sede di Cagliari) del progetto nazionale promosso dall’Accademia dei Lincei “I Lincei per una nuova didattica nella scuola”. È stata segretaria nazionale del GISCEL (Gruppo di Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) e si è sempre occupata anche di formazione degli insegnanti su temi di educazione linguistica, curandone la trasversalità e i rapporti con l’educazione letteraria. I suoi lavori vertono su temi di linguistica del testo, di sociolinguistica e di linguistica italiana, riguardano la comunicazione orale e scritta e la variazione diatopica documentata, per l’italiano regionale in Sardegna, anche dall’analisi della lingua di numerosi scrittori sardi. Delle sue numerose pubblicazioni, si citano qui i volumi Comunicazione e linguaggi disciplinari (Carocci 2011) e Testi a scuola. Tra lingua e letteratura (Cesati 2021), oltre al saggio Aspetti grammaticali dell’italiano regionale di Sardegna (in “Studi di grammatica italiana”, vol. XXXVI, 2017).
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