- Tu hai fatto meno che tu possa osare. Ed è questa la tua saggezza? – Io ho fatto più che tu abbia osato. Ho amato, (ho parlato). – Le tue parole sono censurate. Nessuno ti ha ascoltato. È rimasto soltanto il suono. – Ma il suono ha sempre un’eco – Robert Prifti, Aforismi e pensieri (2019: 58).
L’opera poetica di Robert Prifti (1925 – 1993) – circa cinquecento componimenti in versi sciolti scritti a Tirana tra la fine degli anni Cinquanta e il 1993, in perfetto italiano, di nascosto e lungo i freddi decenni comunisti – è una scoperta recente nel panorama letterario albanese contemporaneo, di cui costituisce forse la più penetrante denuncia dei poteri psicosociali praticati dallo scorso regime. Solo oggi essa ha potuto vedere integralmente la luce in tre volumi (2019) che ho avuto l’onore di curare: Le subcorticali ed Epitaffi di vita, le due principali raccolte, Divertimento col pianto che dà il titolo all’ultima serie incompiuta di testi, e Aforismi e pensieri quale selezione di riflessioni filosofiche, appunti, proverbi, osservazioni morali tratti da quaderni, agende, fogli, dopo la morte ritrovati nella casa di Robert Prifti e che, per molti aspetti, costituiscono la chiave più utile a comprendere la sua intera progettualità poetica e politica [1].
Tra questi I sogrammi, aforismi disposti in ordine alfabetico, in cui il poeta sperimenta possibili “alchimie” simboliche di parole, concetti, figurazioni. Tre volumi che completano finalmente l’edizione dell’opera omnia di Prifti, già avviata anni fa con la pubblicazione dei quattro romanzi, anch’essi scritti in italiano, di nascosto e durante il regime – L’occhio di Polifemo, I due letti di Procuste, La felicità della paura, Il santo della violenza – e della raccolta di racconti brevi Il sole dei morti. Narrativa di cui auspichiamo presto la pubblicazione in Italia e che sinora ha visto la luce solo in albanese, nella puntuale traduzione di Edgar Prifti, figlio del grande poeta da anni amorevolmente impegnato nel portare all’attenzione della cultura internazionale l’eccezionale opera del padre [2].
Eccezionalità data dalle particolari implicazioni storico-antropologiche che presenta. Opera fiorita in segreto, in un italiano davvero stupefacente se pensiamo appreso da autodidatta e probabilmente favorito dalla lettura, anch’essa nascosta, di Guido Gozzano, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti e altri poeti allora proibiti dal regime. Italiano denso, verticale, per molti aspetti ermetico che Prifti elegge a linguaggio perfino criptato, dietro la monotonia d’una tranquilla vita domestica trascorsa con la moglie Luigjina Kodheli, botanica e agronoma, e il figlio Edgar, in una piccola casa di Tirana; tra i margini notturni di una brillante professione di chimico presso l’Istituto della ricerca scientifica.
Robert Prifti, tuttavia, proveniva dal Sud dell’Albania, dalla città di Korçë, dov’era nato in una famiglia di sarti il 15 dicembre 1925. Nei primi anni di vita si sposta a Tirana con la famiglia e lì frequenta un ottimo liceo classico durante l’occupazione italiana; poi proseguì gli studi presso l’Istituto di scienze biologiche diventando a sua volta docente e chimico a Peshkopia, a Tirana e, per qualche anno, nel villaggio di Surrel dove, ricorda il figlio Edgar, fu relegato «per le sue idee civili che rappresentavano un rischio per l’ideologia e il sistema educativo comunista nelle scuole» (2009). Tale formazione biochimica, al contrario di ciò che saremmo portati a pensare, sarà determinante nella poetica di Robert che insisterà proprio sulle relazioni tra natura e cultura, realizzando un vero e proprio progetto di alchimia linguistica, retorica, simbolica, antropologica teso a rilevare e comprendere le ripercussioni minime, intime, perverse del potere politico e del comunismo albanese in particolare.
Anche Robert, come altri intellettuali albanesi del tempo, talvolta dovette usare pseudonimi – Robert o Trevor Elin – per segretare una letteratura che sarebbe stata davvero esplosiva per il regime e che, come bomba letteraria, riuscì a nascondere in casa fino alla caduta della dittatura avvenuta nel ’91. Unica, emblematica eccezione le oltre duecento pagine de L’occhio di Polifemo, romanzo incentrato sulla pervasività capillare del totalitarismo comunista e di taglio autobiografico che, nel 1987, Robert tentò di esportare clandestinamente e pubblicare in Italia. Riuscì a miniaturizzarlo, trascrivendone le complessive duecento pagine in soli sedici fogli così nascosti nel sottofondo della borsa di viaggio con cui, grazie a un visto concessogli faticosamente dal partito, poté recarsi qualche giorno a Bolzano in casa del nipote Franco Bellotti. Prima di partire, all’aeroporto, sussurrò al figlio Edgar che l’aveva aiutato ad occultare il manoscritto in miniatura: «Se dovessero scoprirmi, le mie ossa non avrete dove cercarle» [3].
Nel corso della sua vita Robert coltivò così l’appassionato studio delle lingue: greco, latino, italiano, russo, spagnolo, inglese, tedesco, francese per le quali fu spesso chiamato per lezioni private. In modo simile a Musine Kokalari – grande scrittrice, poetessa, studiosa di Argirocastro, di poco più grande e terribilmente perseguitata dal regime di Enver Hoxha (Kokalari 2009, 2016) – oltre all’aspirazione verso un’Albania socialdemocratica, antifascista e antistalinista, Robert ricercava la solitudine quale dimensione riflessiva alta, chiusa ma esplosiva, avvertita come l’unica adatta a ripensare nei dettagli le cose osservate nei teatri del potere, nella maturazione di un pensiero umanistico libero da costrizioni e censure («brindo con la solitudine, la mia salute» scrive ne Le subcorticali). E se Musine scoprì la forza conoscitiva della solitudine a Roma, nelle camere affittate negli anni universitari o nelle chiese dove si recava ad ascoltare il silenzio, Robert scrisse di nascosto lungo i blindati decenni comunisti, dietro l’impeccabile vita di chimico terminata all’improvviso il 22 ottobre 1993 (cfr. Leka 2015).
Dalla fine degli anni Cinquanta sino a quando visse, nella sua casetta di Tirana, nel segreto del suo studiolo, su una piccola scrivania, con una macchina da scrivere e due lumetti a petrolio, in una sequenza oggi difficile a ricostruirsi, Robert così manoscrisse e dattiloscrisse romanzi, racconti, poesie, versi sparsi assieme a un’infinità di pensieri, appunti, annotazioni, aforismi, scegliendo l’italiano quale lingua segreta, diversa da quella madre. Scelta forse unica nella letteratura albanese di metà Novecento, di cui va apprezzato il rischio politico visto che, al di là dei contenuti, l’uso stesso dell’italiano, ritenuto di per sé «fascista» e «borghese», costituiva grave motivo di condanna da parte dell’ex regime.
Quello di Prifti è, dunque, un percorso poetico che, come esplicita il titolo stesso della silloge principale, mira sostanzialmente a penetrare il mondo subcorticale dei poteri, in una logica che fa pensare all’Underground così ben svelato, nel ’95, dal grande cineasta serbo-bosniaco Emir Kusturica. Insolita nella poesia, subcorticale è una parola che, se non fosse stata celata dall’autore, sarebbe di sicuro stata recepita come ostile da parte del regime di Hoxha che, con il IV Plenum del 1973, aveva rigorosamente proibito ogni disposizione psicologica, esistenziale, ermetica, astratta imponendo a ogni artista albanese il realismo socialista quale poetica di Stato improntata alla celebrazione dello stalinismo, della lotta di classe e del partito [4].
Ogni poeta albanese, scrive infatti Prifti in alcune emblematiche subcorticali (Al poeta della corte, Sacerdoti del chiostro, Arrivano i commedianti), fu svuotato dell’anima e reso «poeta di corte», schiavo, sacerdote di una Guida che mentre proclamava l’ateismo di Stato, s‘ergeva essa stessa a incarnazione del Popolo [5]. Usata per lo più per denunciare le violenze intime, psicologiche, domestiche, quotidiane causate dal totalitarismo, il titolo di questa raccolta ci pone anzitutto di fronte a una parola difficile, tratta dall’universo neuropsichiatrico per molti aspetti vicino a quello che ogni giorno Prifti impiegava nella professione di chimico, vero e proprio contraltare di quella letteraria. Uso “chimico”, scompositivo della parola poetica attraverso cui Prifti propone cento analisi di immagini, sentimenti, pensieri, azioni, implicazioni riconducibili alla dimensione subcorticale, all’habitus profondo, automatico di poteri ancor oggi tutt’altro che scomparsi in Albania.
L’operazione poetica di Prifti, per richiamarci ancora a Pierre Bourdieu (2005) come a Gregory Bateson (2000), è cioè “chirurgica”, estrattiva, scompositiva, metacomunicativa, tesa a scovare e classificare modelli d’azione, emozione, associazione simbolica, ideologie ormai da tempo radicate al di sotto (sub) di quell’umana attività che nella corteccia cerebrale trova ogni potenzialità motoria, cognitiva, mnemonica, sensoriale, linguistica.
Dall’iniziale Mea culpa in cui sconfessa l’abitudinario silenzio che rende ogni «vita morta», il poeta s’appresta a denunciare i danni intimi, «subcorticali» della vicenda umana attraversata dall’Albania comunista, così densa di tradimenti, contraddizioni, cortocircuiti; imposta con l’ipocrisia (Vanno i filibustieri), l’inganno (I profeti d’oggi), col ferro, col fuoco e col sangue, sulle ceneri della seconda guerra mondiale e di partizan liberatori risorti come «tiranni apostoli». Questa la dilacerazione che anima Sulla tomba di un partigiano e Comunismo che, con caustiche parole, addita il cortocircuito menzognero che vide il comunismo sorgere col «sorriso dell’infinito» (dirà in Brindisi con la solitudine) e tramontare sull’orizzonte stesso dell‘oppressione, della reclusione, della fame, del pianto popolare. Sono i motivi delle promesse mancate, delle «libertà usurpate», dei «dolci inganni», del «pane e paura» a intrecciarsi ne Le subcorticali che così svelano le intimità del tradimento politico, quelle che giorno per giorno entrarono nelle «tasche dell’abitudine», nei sogni stessi degli albanesi attraverso l’imposizione del Partito, del Politburo, del Tribunale e tante altre agenzie e spie astratte del controllo che si dissero emanate dal Popolo. Da qui Tiranni apostoli, ritratto della Guida popolare che come divo del cinema passa con la limousine nera del potere ergendosi in un paese ormai blindato, ridotto al silenzio (Dittatura), assoggettato alla «religione della forza», prigioniero dei suoi stessi eroi, terrorizzato dalle sue stesse statue (cfr. Geraci 2014).
Allo svelamento dei metodi più sottili che portarono al pensiero unico, al “teatro del potere“ e alla generale perdita della libertà e del futuro (Embrione, Padri e figli, Le foglie d‘età), Le subcorticali affiancano testi malinconici sulle miserie della guerra (Atene 42), sull’attesa struggente dell‘amore (Quella sera di lunga pioggia, Attesa gioiosa), sulla follia e sul senso di svuotamento che segue la negazione della libertà (Se vuoi fare il folle, Sensazione). Con un italiano intimo, sapiente, potente, pieno di profonde simbologie cosmiche (Immensità stretta nel silenzio, Aurora boreale, Tramonto, Amore cosmico, Alba primaverile), vegetali (Aglio, Le foglie d‘età) e animali (Animalità, La lumaca grigia, Un uomo solo e tanti cani, Saggezza di scimmia) Prifti conduce dentro gli incatenamenti antropologici indotti dal totalitarismo. Ne viene fuori un mondo subcorticale fermo, bloccato, blindato, inespressivo, monco, «foruncolato» come i funghi (Ritorno ai pioppi) che, tuttavia, non perde mai la speranza di tornare a risuonare come La campana di bronzo che riesce a rubare al Sole il suono prometeico della luce ricominciando a squillare, nella contrada desolata, note di libertà. Un mondo, quindi, non perso ma popolato da speranze (La speranza), ritorni (Il ritorno), uomini e poeti che non rinunciano mai a farsi Ladri di luce nella notte. Pullulante di mestieranti (L’antiquario, Il sarto), mendicanti (La moneta del santo di liquore), soldati (Il soldato della patria), madri, nonne, fanciulle, compagne; come anche oggetti che si personificano come Il guanciale, che di notte raccoglie per restituire ai giovani sogni a lungo repressi; e la Vecchia porta di casa mia che crepita ma non cessa di porsi quale possibile varco fresco e luminoso per evadere neri ricordi.
La poetica prometeica del furto della luce, corrispondente alla possibilità d‘una liberazione, inquadra già dal titolo anche le centouno poesie di Epitaffi di vita. L’«epitaffio» – dal greco epitáphion, «ciò che sta al di sopra del sepolcro» – nella prima poesia che dà il titolo alla raccolta viene subito posto sulla tomba di un uomo albanese che credeva di essere vivo ma che invece era solo «vivo di sangue» ma «morto di anima». Più che al passante, che il poeta sprona comunque a rigenerare con un getto di acquavite il sogno perduto di gioventù, l’epitaffio risveglia qui la coscienza politica allo stesso uomo che diventa metafora di una società albanese relegata dal regime a una condizione di morte cerebrale, di vegetazione, di finta vita. Il tema torna in Scrigno chiuso dove Prifti rivela il suo stesso progetto, quello dei suoi scritti segreti, raccolti in uno scrigno che un domani s’aprirà a «ravvivare la mia storia […] con la speranza che il tempo li accetterà». Gli Epitaffi proseguono, così, nello svelamento degli infimi procedimenti attraverso cui l’ideologia del partito riuscì a condizionare gli stessi sentimenti della società albanese, le espressioni controllate del dolore e delle lacrime (Lacrime a comando) quale mezzo per riconoscere, legittimandola o meno, l’adesione al sistema, ai suoi idoli, alla Guida [6].
Allo stesso modo Prifti smaschera le tremende pratiche di deportazione, internamento, reclusione, espiazione attraverso cui l’enverismo s’impose trasformando per mezzo secolo l’Albania in un Paese-carcere (La prigione dei porci, Espiazione); la soffocante, penosa burocrazia (Il burocrate, Impiegato); le capillari pratiche di spionaggio, isolamento, diffamazione e delazione (Dove sono ora gli amici?); la propaganda letteraria e la censura (E il riso del tempo che risuona, Mia madre mi voleva poeta); la megalomania che accomunava le Guide comuniste al Duce (Fascismo); l’idolatria e la pantomima delle statue e delle foto disseminate in ogni angolo (Vittoria degli idoli, L’idolo di bronzo). Anche qui, oltre ai simbolismi animali (Due pellicani di pietra), di piante o stagioni (Siamo ortiche selvagge, I mesi, Richiamo dei marzi proditori, Sinfonia di vento), ricompaiono figure emblematiche del tempo che non passa o dell’illusoria transizione del potere, come il Ponte antico, che richiama la poetica balcanica che da Ivo Andrić giunge a Ismail Kadare, e I falchi neri che minacciosi s’aggirano sui cieli sorvegliando a ogni istante sonni e sogni albanesi. Così La beffa del potere dove in pochi versi Prifti prefigura l’ipocrisia strategica che congiunge la propaganda comunista agli attuali imprenditori o padroni della democrazia.
Dunque, un vero e proprio catalogo psicoantropologico dei poteri striscianti, oppressivi, fraudolenti che continuano a «rubarci il tempo». Catalogo che richiama quello di Hannah Arendt (1951) cui, però, s‘accompagna la forza segreta ed esplosiva di una poesia tanto lucida e ferrea nel denunciare, quanto dolce nel rintracciare possibili vie di fuga ne L’aquilone, nell’Al di là, in Lea che ascolta il mio silenzio, nel Domani, in Libera, in Verso un paese… Elefteria che, con Il poeta, chiude gli epitaffi quali scritture di vita e mai più di morte.
A proseguire simili contrasti è anche Divertimento col pianto, raccolta cui Prifti lavorava al momento della scomparsa avvenuta a Tirana nel 1993. La lirica che ne dà il titolo sceglie il paradosso del «pianto senza lacrime», del «divertimento col riso del mio pianto» per esprimere l’amara commiserazione nei confronti degli uomini-macchina prodotti dal regime, dei burocrati, ciechi «esecutori dell’ordine», dei «poliziotti del verbo, dell’amore, del gusto» rispetto ai quali, con lacrime camuffate da finte risate che paiono «vendette», il poeta sottolinea il suo distacco, l’incomprensione ma anche il disprezzo per quel potere unico e assoluto di cui sono automatiche emanazioni. Il pianto qui si presenta come linguaggio sommerso, silenzioso come quello che, in Io e il silenzio, il poeta ci dice aver accompagnato le sue segrete notti di scrittura, di tanto in tanto camuffato da risate tragicomiche nei confronti di un totalitarismo rispetto al quale il poeta prosegue la sotterranea denuncia del resto già avviata nei romanzi e nei racconti de Il sole dei morti.
Proprio nel segno di un ulteriore approfondimento delle logiche surreali e crudeli del potere, liriche quali Panta rei, L’Uomo nuovo, La rivolta dell’eroe pongono di nuovo l’accento sulle forzature dello stalinismo, contro le quali sembrano rivoltarsi le stesse statue dei partizan. In un’altra poesia, dissimulato nelle sembianze di Prometeo traditore, Prifti torna a rimarcare tutta l’ambiguità di una Guida comunista, tanto liberatrice quanto traditrice della sua stessa, sottomessa umanità [7]; mentre in Terrore come in Cappello protezione, cappello oppressione la società albanese appare schiacciata, repressa, popolata solo da ombrelli, da cappelli immobili come «funghi neri» sotto la pioggia battente, costretti ad ascoltare dall’altoparlante infinite «sentenze di morte». Quella dell’Albania comunista emerge così come una società forzata di compagni di cui, in Canta compagno, il poeta ora invita esplicitamente a non cantare più la «spina», la «patria», la «gloria», la «scimmia», il «riso dell’eroe», il «potere», la «fame e la sete» bensì la «rosa», la «terra e il cielo», l’«uomo e la sua volontà», il «pane e l’acqua», una «canzone» e mai più una «marcia».
Si tratta, nel complesso, di testi poetici in cui Robert avverte in modo più chiaro l’imminente fine del comunismo albanese crollato, infatti, nel 1991, e vi allude (ad esempio ne La rivolta delle ombre) con maggiore sicurezza confidando in un futuro democratico nel quale riporre speranze di libertà, serenità e poesia. Qui il panorama tematico si fa più ampio e diversificato rispetto alle raccolte precedenti, costellato da liriche amorose (Doveri d’amore), idilli cosmici e leopardiani (Luna, Scienza senz’arte), ricordi e sensazioni (Prime gocce di pioggia), esplorazioni simboliche di volta in volta incentrate su oggetti (La chiave), piante (Salice piangente, Olivo, Canto del girasole), animali (Il volo delle tartarughe, Tartaruga tutta ruga, Sul palazzo di giustizia due colombe bianche, Trovai una conchiglia sulla riva del mare, Aquila), sul passare delle stagioni (Autunno, Tuoni d’aprile). Veri e propri viaggi allegorici nei colori, nelle forme, nelle movenze, nelle proprietà di elementi naturali sempre capaci di rinviare ai pesanti condizionamenti della vita sociale e del potere, alla precarietà della vita umana, al passare del tempo, alle violenze, alle piccolezze, alle claustrofobie d’ogni esistenza. Così, ad esempio, il dramma del Baco da seta ossia metamorfosi interrotta: la morte prematura del baco che, ignaro di tutto, prima di diventar crisalide e farfalla, si ritrova legato, imprigionato ad «una macchina a tesser quadrati di stoffa umana».
Tra le poesie senza titolo, a partire dai fenomeni naturali, scopriamo, infine, una miniera di spunti riflessivi sul senso del vivere, sull’apparire, sulle quotidiane maschere e finzioni, sulla solitudine, sul vuoto e la speranza, sull’impazzimento, l’amore e la morte. Visioni di cui, con grande capacità, il poeta ci fa arrivare le onde, le vertigini, i movimenti, i cromatismi, gli umori, i vapori, i paesaggi sonori, perfino gli odori che in un dolce disincanto diventano profumi del tempo, della precarietà d’ogni storia, dello stato di eterna convalescenza in cui viviamo, di un’evanescenza tanto inquietante quanto calma e ospitale. Sono flash visivi, acustici, olfattivi, tattili appuntati, forse, con l’intenzione di successive riutilizzazioni. Frammenti che ci riportano ai materiali poetici selezionati da Prifti nel silenzio della sua stanza; alla tavolozza tematica, emotiva, filosofica della sua poesia tesa a scoprire corrispondenze tra i piccoli, grandi drammi della natura e del potere.
Annotati in ordine alfabetico su di una rudimentale rubrica, a ciò rispondono anche I sogrammi quali parti degli Aforismi e pensieri. Nel complesso si tratta di approfondimenti filosofici condotti su vocaboli, significati, concetti, sui possibili impieghi retorici e simbolici che rivelano una profonda conoscenza della lessicologia italiana e delle sue possibilità verticali, associative, evocative, estensive. Lo stesso titolo, I sogrammi, mostra come Prifti fosse in grado di creare neologismi nella lingua straniera da lui eletta: la parola sogrammi in italiano non esiste; essa è creata dal poeta attraverso la fusione della parola anagramma – che indica ciò che sta al di sopra (ana) della parola (gramma) – a sonogramma – termine riferito alla rappresentazione grafica dei suoni. Prifti conia così sogramma per indicare l’aspetto sonoro, poetico-musicale, la polifonia dei sensi che egli ascolta in ogni termine, trascritto in perfetto ordine alfabetico nella rubrica da lui stesso confezionata. Qualche esempio chiarirà la poesia musicale dei sogrammi: «Cristo: un uomo senza essere uomo», «Chiesa: lavatrice dell’anima», «Cuore: non sa, fa», «Democrazia: una società d’opinioni con uno stato senza opinioni», «Ipocrisia: il latte del potere», «Mito: la venerazione della paura», «Memoria: la fabbrica del tempo», «Paura: oh, quante volte l’uomo s’inginocchia davanti alla sua ombra pregandola di non seguirla», «Partito: una tribù alla conquista del diritto di caccia», «Poeta: iperteso del bello», «Rivoluzione: chirurgia della società quando terapia non sa», «Superiorità: il complesso dell’inferiore».
Sogrammi e Aforismi e pensieri inscenano insomma acutissime riflessioni sull’onestà, sul potere e l’«oppressione sociale», sull’ipocrisia, sul coraggio e la libertà d’espressione, sulla natura, sulle paure, sulla saggezza, sull’amore e tante altre condizioni esistenziali. Ed è proprio il disporsi apparentemente casuale di queste brevi, intense riflessioni che, invece, ci conduce alla funzione fondamentale che esse hanno svolto nell’operatività di Prifti, poeta e chimico. Altrettanto alchemico e sperimentale è, infatti, il suo approccio alle parole, alle lingue, alle figure, ai movimenti discorsuali. Le poesie di Robert Prifti sembrano, cioè, esperimenti che mettono alla prova le parole, i loro significati immediati e reconditi, i sensi, i concetti nelle loro possibilità di mescolamento; possibilità che danno luogo a contenuti nuovi, a composti morali imprevedibili, inattesi. La poesia di Prifti, in altri termini, appare precipitato di collegamenti ideali, incroci concettuali, ricadute come quelle, ad esempio, della fenomenologia naturale o politica che egli minuziosamente registra nella sfera dei sentimenti e delle abitudini quotidiane.
Aforismi, sogrammi e pensieri rivelano così la loro fondamentale funzione conoscitiva solo se letti come chiavi di volta o come tavola semiologica degli elementi che, un po’ come quella di Mendeleev, il poeta-chimico costruisce a latere delle sue opere per permettere a ognuno di decodificare i messaggi nascosti di una poesia politica maturata nel silenzio di casa; la complessiva edificazione di un monumento sotterraneo ed esplosivo dell’antipotere; il catalogo di romanzi e poemi filosofici che, in forme criptate, tramanda ai lettori del futuro tutto l’armamentario linguistico, retorico e simbolico per decostruire ogni regime cogliendone gli esercizi più intimi, ipocriti, oppressivi e onnipervasivi. Ermetismo, questo di Prifti, che rientra, dunque, tra gli altri temutissimi dalla passata dittatura albanese, che ne fece sempre motivo grave di proibizione, persecuzione e condanna in grandi poeti come Visar Zhiti, Pano Taçi, Kasem Trebeshina, i trentenni Vilsom Blomshi e Genc Leka fucilati nel 1977 [8].
Per questi motivi il progetto di Robert Prifti è una grande scoperta nel Novecento letterario europeo, laddove i suoi versi e il periodare dei romanzi s’avvalgono di un dotto campionario di simbologie derivate dal mito e dal naturalismo greco, dal pensiero filosofico antico e moderno, dalle scritture giudaico-cristiane, da Dante, dalla letteratura illuminata europea, da William Shakespeare e Johann W. Goethe. Insieme di elementi piegati a ritrarre figure, momenti, consuetudini, relazioni, emozioni che svelano i sottilissimi processi psicoantropologici attraverso cui il totalitarismo di Hoxha giunse all’assoluto impadronimento della vita onirica, quotidiana, emotiva, spirituale di un popolo. Al lettore arriva così una sofisticatissima tavola di elementi, metodi, progressioni poetiche, surreali misconoscimenti (pensando ancora Bourdieu), fraintendimenti, tradimenti, inganni politico-ideologici, insomma alchimie discorsuali attraverso cui, giorno per giorno, si giunge all’imposizione consensuale, contagiosa, glaciale, forzata del pensiero unico. La composizione e, al tempo stesso, la scomposizione poetica di Prifti è, dunque, richiamo diretto a chi ha vissuto la dittatura e tende a dimenticarne le piaghe. Richiamo altissimo ai nuovi politici che oggi, con dubbia sicurezza, fanno presto a dirsi immuni dall’epidemia totalitaria. “Ogni suono – scrive Robert in uno dei suoi quaderni – ha sempre un’eco”; così quello della sua poesia che, nel sottofondo di una borsa da viaggio, tenta ancora di cantare al di là d’ogni confine.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] L’archivio personale, quale base documentaria indispensabile per comprendere la biografia come l’intera progettualità letteraria e politica di Robert Prifti, è, da anni, oggetto di un ampio studio archivistico, storico e antropologico condotto da Mauro Geraci e Simonetta Ceglie di prossima pubblicazione (in proposito v. Geraci 2020). Una sintetica anticipazione di tale studio sarà presto disponibile nel saggio di M. Geraci, Albanismi d’oltre confine. Gli universi poetici di Musine Kokalari, Robert Prifti, Visar Zhiti e Gazmend M. Kapllani, di prossima pubblicazione presso l’editore Aracne di Roma.
[2] Nella traduzione albanese di Edgar Prifti i romanzi di Robert Prifti sono stati di recente pubblicati dall’editore Omsca-1 di Tirana con i seguenti titoli: Syri i Polifemit (2009), Dielli i të vdekureve (2010), Shenjtori i dhunës (2011), Lumturia e frikës (2012), Dy shtretërit e Prokustës (2013).
[3] Testimonianza raccolta dal figlio dello scrittore, Edgar Prifti, che più volte ho avuto modo di rilevare in diverse conversazioni, in Albania come in Germania dove attualmente egli risiede.
[4] Si tratta del IV Plenum del 26 giugno 1973 che vide il Partito del Lavoro d’Albania varare misure estremamente restrittive per il controllo politico del campo artistico-letterario. Nel volume Mbi letërsinë dhe artin furono raccolti gli interventi di Enver Hoxha relativi a tale materia, nonché il decalogo con cui il partito intese imporre a scrittori, poeti, artisti, architetti i temi, gli stili, gli orientamenti formali ed etici conformi al «realismo socialista» quale poetica di derivazione sovietica assunta quale unica dimensione espressiva praticabile nella Repubblica socialista d’Albania.
[5] Sul rapporto tra religione e potere politico nell’Albania comunista cfr. R. Morozzo della Rocca (1990) e l’interessantissima opera di Gezim Qëndro (2017) che, nella storia e nell’analisi dell’edificio di Tirana dedicato a centro di produzione cinematografica (Kinostudio), esplora i contrasti simbolici del potere politico-religioso in Albania (2017).
[6] Sull’espressione obbligatoria dei sentimenti e sul controllo delle lacrime messo in atto nell’Albania comunista, specie in occasione dei funerali di Enver Hoxha avvenuti nel 1985, cfr. i romanzi di V. Zhiti, Funerali i pafundmë, Omsca-1, Tiranë 2003 (trad. it. Il funerale infinito, 2017); Y. Aliçka, Valsi i lumturisë, Tiranë 2013 (trad. it. Il sogno italiano, 2016); rinvio anche al mio recente saggio Prometeismo e morte nell’Albania comunista. Riti dell’immortalità o dell’annullamento in Enver Hoxha e Musine Kokalari (2018).
[7] Per uno studio storico-antropologico del prometeismo quale dispositivo retorico e simbolico che accomuna la recente storia politica albanese a quella letteraria v. M. Geraci, Prometeo in Albania. Passaggi letterari e politici di un paese balcanico, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2014.
[8] Per un primo quadro d’insieme delle censure, delle persecuzioni, delle condanne a morte eseguite dal regime comunista nei confronti di scrittori, poeti, studiosi a vario titolo non allineati v. soprattutto di V. Zhiti, Panteoni i nëndheshëm ose letërsia e dënuar, Omsca-1, Tiranë 2012.
Piccola appendice antologica
A scopo esemplificativo riporto qui poche poesie tratte dalle raccolte di Robert Prifti
Da Le subcorticali ed Epitaffi di vita
Religione della forza
O tu religione della forza/
mi hai rubato l’età
la mia età
Rendimi l’età
dell’ispirazione
Hai strappato i petali
al fiore del tempo
a distillare
incensi di culto
Oh, come ti ho maledetto nel sogno!
Di giorno ti ho imparato
O tu religione della forza
mi hai rubato l’età
la mia età
Rendimi l’età
della maturazione
Il frutto è cresciuto acerbo
sconsolato di sole
e io ti ho pregato nel sogno
di giorno ti ho sopportato
Alla fine il frutto è caduto per terra
senza semi di vita
e l’età mi riposa
senza aver fatto l’età
la mia età
rubato da te
religione della forza.
***
Brindisi con la solitudine
Ho venduto il pensiero
all’oblio
con il silenzio
Perduto
lo credevo perduto
quando ritorna
più virulento
nelle notti di sonno
nel sogno
a vendicarsi
e s’annida nella coppa della vittoria
campione sfidante
Io
povero mortale
a non morire
prendo la coppa
e brindo
con la solitudine
la mia salute.
***
La notte del poeta
Il poeta
ha versato
l’inchiostro
dell’anima sua
in versi di luce
sulla notte vinta
e suda
ricordi d’infanzia invecchiata
a costruire
il ponte del sole.
***
Epitaffi di vita
Qui giace
il fu uomo
che credeva di essere vivo
accarezzato e frustrato
onorato e sputato
osannato e annullato
vivo di sangue
morto di anima
Tu passante della storia
versa
sulla calvizie della sua anima
dell’acquavite
a rigenerare
il sogno
della sua gioventù
Sull’epitaffio inciso
lui lesse il proprio nome.
***
Madre mia mi hanno rubato il tempo
Madre mia
mi hanno rubato il tempo
il mio tempo
il nostro tempo
Tu hai strillato
a darmi
il riso della vita
Loro mi hanno dato
pianto senza lacrime
e riso di viso
Nelle gioie solari
dell’innocenza infantile
nei notturni incontri
delle favole eroine
nelle sbocciate risa
della ricreazione adolescente
nelle vicende ambigue
dei venti primaverili
Mi hanno rubato il tempo
il mio tempo
il nostro tempo
madre mia
nei sogni grondanti
di sudore pubescente
nei ridenti vascelli
delle fantasie giovanili
nelle consuete sirene
delle quotidiane permanenze
nel pietrame sacro
delle sincere confidenze
Mi hanno rubato il tempo
il mio tempo
il nostro tempo
madre mia
Me l’hanno rubato
con il tentacolo barbarico
del primo vedere
con l’affascinante corda
del primo amore
con la corona ideale
del verbo pastorale
con la vittoriosa scorta
della gloria usurpata
Me l’hanno rubato
con l’astuta prigione
della libertà sconveniente
con speranze futili
di slogans deliranti
con l’odore promettente
del miracolo comune
con orde devote
dello sparo giustiziere
Mi hanno rubato il tempo
il mio tempo
il nostro tempo
madre mia
con menzognere gioie
della vergogna sociale
con sordi terrori
delle carogne risuscitate
con noiosi lamenti
della morale oppressiva
con alluvioni religiose
della forza bruta
Mi hanno rubato il tempo
che mi hai donato
tu madre mia
E mi offrono
confetti fedeli
di legge
ostie
di culto sacrificale
e sto legato
a guardare
santi di medaglie
sui capaci altari
del potere
Anche la speranza
ha piluccato il mio tempo
e morì
Ora mi trovo spogliato
nudo
essere senza tempo
residuo testimone
del sole negato
con la carcassa dell’istinto
tra le mani
e attendo te
madre mia
attendo il tempo
il mio tempo
il nostro tempo
infinito
senz’età.
***
Da Divertimento col pianto
Scienza senz’arte
Homo sapiens
gigante di laboratori grigi
Dio di scienze senz’arte
Hai ucciso il pensiero verde della vita
hai scaraventato il sogno
della tua potenza contro il sole
E il sole invalido di foschie cerebrali
non guarda più l’uomo sulla terra
Ed egli se ne va inebriato ancora
d’orgoglio scientifico
con la superstite facoltà della forza
in ventura verso il trono
della sua gloria.
***
Anno nuovo
Dopo una lunga notte di pioggia
l’anno nuovo si sveglia
mattino senza dubbi
salutato
di sole guarito
E il sole accende
l’erba verde
in umore tiepido
di vapore
(E il nuovo viandante s’incammina)
sugli alberi dischiomati
rifioriscono
riflessi di limpidi cieli notturni
Il pensiero natura
orna
la beltà dell’uomo
con distillati di pioggia
su aghi di pini festivi
al nuovo anno
Sospese perline scintillanti
s’infrangono
sulla terra
suonando
ritmi alternati
in alfabeto morse
xilofonati
nel silenzio mattutino
in questo parco
lasciato solo
quest’anno nuovo
ai pensieri della notte
a cavallo di due anni
veglia di una fine
veglia di un inizio
di cantore
augurio di sole.
***
T’odio o pio bove
Guardo il bue
sdraiato
con occhi spioventi
che rumina il cibo
del padrone
beatitudine di digestione!
Rassegnazione
la notte
nel sogno
vedo il toro
nella corrida.
***
Trovai una conchiglia sulla riva del mare
Trovai una conchiglia sulla riva del mare
Non so perchè
forse per similitudine
l’avvicinai all’orecchio
Dalle infinite spirali del suo labirinto
mi giunsero flussi remoti
suoni di gioia di sofferenze
e quella vita di silenzi marini
sprigionava fluidi di coscienze
sublimati in pensieri onesti
che s’annidarono nel cavo del mio
cranio pressato
Questa conchiglia me la porto sempre
amuleto di sogno conduttore
di luce
a bruciare miti d’apologia
E ogni tanto
a purificarla dall’unto e sudore umano
La tingo nell’onda del mare.
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Mauro Geraci, professore Associato di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Messina, è autore del volume Le ragioni dei cantastorie. Poesia e realtà nella cultura popolare del Sud (1997), primo studio sistematico sulle prospettive poetiche e conoscitive dei poeti-cantastorie siciliani. Da molti anni è anche riconosciuto quale attento interprete e continuatore dei cantastorie siciliani e, come tale, protagonista di una fiorente attività spettacolare che lo ha visto lavorare a fianco di famosi poeti-cantastorie quali, soprattutto, Franco Trincale e Vito Santangelo. Da anni ha rivolto il suo interesse antropologico all’Albania, dove la letteratura gioca un ruolo centrale nella ridefinizione della memoria storica del paese. Da qui il suo studio Prometeo in Albania. Passaggi letterari e politici di un paese balcanico (2014) e la cura, assieme all’archivista Simonetta Ceglie, dell’autobiografia della prima grande scrittrice albanese, Musine Kokalari, La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista. 1937-1941 (2016).
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