Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente particolarmente attento al rispetto di tutto ciò che era diverso da me; l’educazione che ho ricevuto in ambito familiare, scolastico ed extrascolastico, mi ha permesso di crescere cercando di avere sempre una particolare attenzione al punto di vista del mio interlocutore, che fosse una persona diversa da me per abilità fisiche o mentali, origine, credo o idee politiche. Questo non significa che, negli stessi ambienti in cui sono cresciuta, non abbia assistito (o, in alcuni casi, riprodotto) episodi e pratiche scorrette o discriminatorie.
Questo aspetto mi ha però consentito, quanto meno, di crescere avendo ben presente che io non ero il centro del mondo, e che non per forza il mio punto di vista fosse quello giusto, qualora ne esistesse uno. Probabilmente quest’unica certezza è quella che mi ha condotto all’antropologia come percorso di studi, ma anche di crescita.
Negli ultimi anni, sia per interesse personale che in seguito ad un innegabile cambiamento della sensibilità della società italiana, per merito, forse, anche dei social media, ho allargato i miei interessi a temi variegati: la società post-coloniale, l’identità culturale e di genere, l’impegno femminista; temi che portano con sé enormi bagagli di questioni sociali, ma anche di domande e che richiedono dunque necessari approfondimenti. Tutti questi aspetti mi hanno portato in passato a chiedermi, per esempio, “cosa sia veramente un italiano” [1]: cosa si intenda generalmente nel panorama nazionale con questo termine, ma anche come io lo riempio di significato. Mi sono chiesta cosa mi rende simile ad un ricco imprenditore lombardo di terza età, e cosa invece, in base alla definizione comune, dovrebbe distinguermi da un’adolescente di origine straniera che frequenta la scuola dietro l’angolo di casa mia, che non è formalmente riconosciuta come “italiana”. Ho cercato quindi similitudini e differenze e ho pensato a quale dei due profili, per affinità o solamente per empatia, trovavo più vicino a me.
Ho cercato ad ogni modo di pensare a questi interrogativi come ad una grande fossa nel terreno, e alla risposta come al germoglio che sarebbe poi spuntato. Ho pensato quindi di riempire la fossa di humus, terreno fertile, per permettere poi alla gemma di schiudere e crescere nel migliore dei modi. Ho quindi iniziato una ricerca di letture (romanzi, saggi, articoli), film, podcast, personaggi interessanti da seguire.
Questo processo, ancora in corso, mi ha permesso in primo luogo di posizionarmi all’interno di uno spettro sociale e culturale che mi indentifica (per categorie sociali, ma anche per aspetti biologici) come una giovane donna italiana, bianca, meridionale, di estrazione sociale medio bassa, eterosessuale. Lungi dal voler redigere un testo autobiografico, preciso questi aspetti perché da questi incontestabili dati sulla mia persona derivano a cascata una serie di vantaggi e svantaggi, privilegi e discriminazioni. Conosco per certo sulla mia pelle gli svantaggi e le difficoltà di essere un giovane siciliano alla ricerca di lavoro dopo la crisi economica del 2008; comprendo bene il disagio e, a volte, la paura di una donna che rientra a casa da sola la sera o che si trova ad interagire professionalmente in un contesto prettamente maschile; riconosco le difficoltà economiche del sostenere le spese universitarie in un nucleo familiare relativamente numeroso e monoreddito. Ho vissuto sulla mia pelle queste condizioni avverse e credo sia mio dovere battermi affinché questi ostacoli possano un giorno dissolversi.
Riconoscere queste disparità ed identificare i pregiudizi di cui io personalmente sono stata e sono ancora oggi vittima, non mi esime tuttavia dal riconoscere che altri aspetti che mi contraddistinguono, contribuiscono a posizionarmi, in una immaginaria scala sociale, in una posizione intermedia, che vede sotto di me di vari gradini molte altre categorie che non godono invece di alcuni miei privilegi. Non posso quindi disconoscere la mia immunità rispetto a discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, sull’abilismo [2] o sulla razza. Non mi è mai capitato di essere presa di mira con offese, o peggio ancora con violenze fisiche, perché scambiavo carezze o baci in pubblico con il mio compagno; non sono mai stata vittima di bullismo per una mia disabilità; non ho mai subìto controlli arbitrari delle forze dell’ordine o atteggiamenti scortesi da parte dei controllori dei bus o dei treni a causa del colore della mia pelle. Ma mi è capitato a volte di assistere ad alcuni di questi episodi.
Per quanto la mia condanna a certe azioni sia definitiva, riconosco che in alcuni casi io stessa sono stata veicolo di questi disequilibri, riproducendo dinamiche e utilizzando in modo aproblematico un certo tipo di linguaggio o di espressioni, che per quanto ai miei occhi, agli occhi di un bianco, possano apparire innocenti o addirittura neutrali, sono in realtà come minimo discutibili, se non offensive per qualcun altro.
Certamente io non riuscirò mai a capire cosa significhi essere L’unica persona nera nella stanza, ma, come si può apprendere dalla lettura della suddetta opera di Nadeesha Uyangoda, è possibile impegnarsi affinché le minoranze di cui non si fa parte possano avere un maggiore spazio di rappresentanza sociale e possano migliorare la propria condizione.
Questo è quello che fa un buon alleato:
«un alleato è una persona che sostiene una minoranza pur non facendone parte. Pur non essendo colpito personalmente da una discriminazione, si rende conto della sua esistenza e della sua sostanziale ingiustizia e si schiera al fianco della comunità discriminata. […] Un alleato è una persona bianca che riconosce il privilegio che deriva proprio dall’essere bianco; riconosce le strutture sociali che avvantaggiano persone come lui e invece opprimono persone di altre etnie. Un alleato non deve capire del tutto che cosa voglia dire essere discriminato per il colore della propria pelle, però questo non vuol dire che non veda quella discriminazione. […] Spesso con un privilegio si nasce: essere maschi, avere la pelle bianca, non sono scelte. […] Anche se a volte potrebbe essere facile cadere nella trappola del senso di colpa, bisogna cercare di uscirne. Semplicemente perché non serve, ci fa sprecare energia per qualcosa che non possiamo cambiare, mentre le nostre energie devono essere usate per cambiare quello che ci sta attorno. E come lo possiamo fare? Leggendo, informandoci, analizzando il nostro razzismo interiorizzato, praticando attivamente l’antirazzismo» [3].
La riflessione sul ruolo dell’alleato è stata per me di centrale importanza, perché mi ha permesso di guardare in modo trasversale alle diverse battaglie per i diritti sociali e civili di cui spesso, nel mio piccolo, ho cercato di farmi portavoce. In particolar modo, per esempio, la battaglia femminista ha sempre avuto il limite, a mio avviso, di escludere in modo risoluto e definitivo gli uomini, accusandoli di incomprensibilità ed incomunicabilità. Il mondo maschile, o meglio il mondo patriarcale di cui anche le donne fanno parte, non si è mai interrogato sui suoi limiti e non si è mai riusciti a creare un vero clima di dialogo che mettesse prima di tutto in discussione il paradigma della virilità tossica. Questo atteggiamento di chiusura ha finito per rimestare un dibattito che resta comunque relegato dentro i confini del movimento femminista stesso e ha issato un muro di antagonismo, che preclude spesso a reali cambiamenti sociali. Trovo che oggi i tempi siano maturi perché generazioni di uomini miei coetanei si alleino con le donne e si uniscano alla battaglia per la parità dei generi, da cui loro stessi trarrebbero indiscutibilmente vantaggi. Se vogliamo che ci siano dei reali cambiamenti dobbiamo fare sì che la svolta avvenga dall’interno dei sistemi che riproducono la discriminazione, che sia sessista o razziale.
È proprio a questo scopo che negli ultimi anni ho deciso di concentrare la mia attenzione su nuove letture, sulla ricerca di testi e prodotti editoriali che mi permettessero di approfondire e capire il problema della discriminazione razziale in generale ed in particolare la condizione degli italiani di diverse origini[4]. A questo scopo ho acquistato il libro della casa editrice 66thand2nd L’unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda, giornalista freelance, che collabora con diverse testate nazionali e internazionali tra cui Al Jazeera English, Rivista Studio, The Telegraph, Open Democracy, Vice. Avevo da tempo iniziato a seguire l’autrice sui social, per rimanere aggiornata sul suo lavoro. Tra le sue attività un altro utilissimo strumento per approfondire e imparare moltissimo sul tema della questione razziale è il podcast Sulla razza, scritto da Uyangoda insieme alle co-speakers Nathasha Fernando e Maria Catena Mancuso [5]. Il podcast bimensile presenta e analizza in ogni puntata una parola o un concetto proveniente dalla cultura angloamericana che spesso in Italia non ha ancora corrispondenti o traduzioni. Questo è dovuto al fatto che Paesi come gli USA o la Gran Bretagna, con un passato coloniale forte e di lunga data, hanno elaborato un vocabolario della questione razziale che permette di descriverne sfumature e fenomeni; in Italia, dove si assiste a una sistematica rimozione storica del passato coloniale e vige ancora la retorica degli “Italiani brava gente”, il razzismo è un tabù, e si assiste, spesso anche in contesti televisivi, ad episodi di stereotipizzazione delle minoranze etniche o all’utilizzo di un linguaggio offensivo [6]. Per questa stagione il podcast si svilupperà in 12 episodi e i primi cinque concetti analizzati, uno per puntata, sono: razza, colourism, la one drop rule, la parola con la n e il model minority myth.
Il grande pregio, sia del libro che del podcast con alcune simmetrie rispetto a temi e contenuti, è quello di essere supportati da un fortissimo apparato di citazioni bibliografiche in primo luogo, ma anche cinematografiche. Nadeesha Uyangoda e le sue co-speakers raccontano la questione razziale in Italia, facendo continui riferimenti alla storia dei termini e alla loro etimologia, citando moltissime fonti accademiche, ma anche letterarie in senso lato. Sono moltissimi i romanzi, i saggi, i documentari e i film di finzione che vengono citati e che fanno del libro e del podcast delle preziosissime risorse, valide come punto di partenza per ulteriori approfondimenti [7].
In particolare, nel suo testo a metà tra il genere letterario saggistico e il memoriale, Uyangoda racconta episodi, esperienze e sensazioni della propria vita: dagli episodi dell’infanzia di una bambina nata a Colombo ma arrivata nella Brianza per raggiungere la madre all’età di soli 6 anni, alla scoperta inaspettata (quasi ingenua) di non poter partire per l’Irlanda, perché sprovvista di visto (necessario ovviamente solo a chi non possiede passaporto italiano), ai routinari avvenimenti della sua vita di adulta, che la vedono bersagliata di domande che la mettono a disagio [8] o in cui è presa in considerazione nello spazio pubblico come “quota etnica” più che come giornalista. Nella lettura si passa con facilità dalle citazioni di Kimberlé Crenshaw e Angela Davis alla narrazione di episodi di vita vissuta in Italia nell’ultimo trentennio, riuscendo quasi a toccare con mano e mostrare empiricamente le declinazioni pratiche di concetti come il razzismo sistemico o la necessità di decolonizzare il nostro immaginario. Un fotogramma dell’Italia contemporanea che con uno sguardo analitico esamina le condotte politiche e mediatiche macchiate, indistintamente sia a destra che a sinistra [9], di un razzismo, nel migliore dei casi, latente, ma più spesso esplicito e senza sottintesi.
Quello che però colpisce è che il libro non è semplicemente un j’accuse [10], un testo rivolto solo a lettori di nuova generazione che mira ad accusare la società bianca italiana. Mi sembra piuttosto che il libro sia rivolto a tutte le etnie, compresa quella caucasica, e abbia anche il fine di spiegare [11], far comprendere, come ci si senta ad essere discriminati, ad essere sempre relegati entro i limiti che la società ha costruito per te, sia in termini pratici che in termini di aspettative. Io, da aspirante alleata, mi sono sentita accolta nel leggere queste parole, e ho inteso il libro come un consiglio, un invito a riflettere, ad analizzare il mio linguaggio e a far fronte comune per far pressione su chi detiene il potere di decidere per noi.
Il mio impegno è quello di continuare a percorrere un percorso, sia interiormente che nelle mie relazioni sociali, di decostruzione dei valori e delle certezze che socialmente rimangono spesso indiscusse come dogmi. Il mio augurio è che, quanto prima, la riforma della cittadinanza torni ad essere al centro del dibattito pubblico affinché Nadeesha Uyangoda e tutti gli italiani che come lei sono ancora vittima di questa ingiustificata violenza civica possano esprimere la propria voce tramite il voto, contribuendo a eleggere una rappresentanza politica che rispecchi la reale composizione della società italiana, per preparare un mondo più rappresentativo e democratico.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Ne ho parlato nell’articolo sul n. 37, maggio 2019 di Dialoghi Mediterranei dal titolo Perdere o ritrovare un immaginario comune (https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/cosa-e-un-italiano-perdere-o-ritrovare-un-immaginario-comune/)
[2] Faccio questo riferimento in particolare perché è proprio di questi giorni la notizia relativa all’impedimento della calendarizzazione del voto al Senato del cosiddetto DDL Zan (“Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”). La proposta legge, che introdurrebbe inasprimenti di pena per chi si rende colpevole di atti di violenza dettati da omotransfobia o abilismo, è stata presentata nel 2018; già votata alla Camera rimane “impantanata” al Senato da diversi mesi, a causa di evidenti azioni di ostruzionismo politico di alcuni partiti della maggioranza del governo italiano. Alcuni recenti episodi di violenza ai danni giovani omosessuali, come il caso dell’attivista Lgbt Christopher Jeanne Pierre Moreno e il suo compagno picchiati nella stazione della metropolitana di Valle Aurelia a Roma, o la storia di Malika Chalhy, la ragazza di Castelfiorentino cacciata di casa e minacciata dalla famiglia perché ha fatto coming out, hanno portato ad una mobilitazione social di diversi artisti e persone dello spettacolo che ha preso il nome di #diamociunamano.
[3] L’estratto che propongo è tratto dall’ Episodio 1 (dal minuto 16.48) del podcast Sulla razza.
[4] Sull’espressione “italiani di diverse origini” ho molto riflettuto: ho cercato di utilizzare un sintagma che tenesse conto di tutte le provenienze, considerato il fatto che nella lingua italiana siamo ancora sprovvisti un lessico inclusivo. L’approfondimento delle tematiche che affronto inoltre in questo articolo mi ha portato ad analizzare anche le espressioni più o meno diffuse per parlare delle cosiddette “nuove generazioni” (ecco uno dei termini), o anche italiani neri, di colore, afroitaliani (queste ultime espressioni escludono, per esempio, tutti coloro che hanno origini asiatiche o est-europee, o comunque mettono insieme, in unico calderone, tutti coloro che hanno la pelle nera/marrone ma che provengono da diverse aree del mondo). Per un approfondimento su questo aspetto rimando al capitolo 6 Tutte le sfumature del nero de L’Unica persona nera nella stanza e all’episodio 3 Una goccia di sangue nero del podcast Sulla razza. Ne approfitto inoltre per inserire alcuni riferimenti ad autori e soprattutto autrici che più o meno recentemente hanno pubblicato libri o partecipato al dibattito pubblico su questi temi, e che possono essere un utile punto di partenza per approntare una esplorazione o un approfondimento su questi temi: Igiaba Scego, Angelo Boccato, Sabika Shah Povia, Angelica Pesarini, Espérance Hakuzwimana Ripanti, Djarah Kan, Oiza Q. Obasuyi, Bellamy Ogak, Nathasha Fernando, Antonio Dikele Distefano, Takoua Ben Mohamed, Marilena Umuhoza Delli.
[5] La produzione del podcast, che vanta la sponsorizzazione di Juventus, è stata affidata ad Undermedia, mentre approfondimenti e iniziative correlate ai contenuti del podcast saranno ospitati da Vice Italia. Oltre a Nadeesha Uyangoda di cui parlo nel corpo dell’articolo, le altre due co-speakers sono Nathasha Fernando che insegna alla University of Westminster e Maria Catena Mancuso che lavora nel settore no-profit ed è web content editor per Essere Animali, dove scrive di ambiente, agribusiness e cibo. Loro due, insieme, si sono occupate in precedenza di un altro podcast, S/Confini. Per maggio informazioni su Sulla razza: https://www.sullarazza.it/.
[6] Sono recenti i casi dell’utilizzo in due circostanze diverse della parola n***o in due diverse trasmissioni andate in onda sulla RAI, mentre risale proprio a questi giorni una gag televisiva in prima serata su Canale 5 in cui due noti conduttori lanciavano un servizio su Pechino facendo il verso agli occhi a mandorla e parlando sostituendo le R con L. A tal proposito è interessante notare come a TVTalk, talk show in cui generalmente si commentano programmi, personaggi e avvenimenti della TV italiana, si sia aperta una velocissima parentesi sull’episodio della “gag cinese”: nello specifico, in un consesso di discussione composto da sole persone italiane bianche, uno dei conduttori ha chiesto a un ospite se “[rispondendo alle accuse di razzismo] le scuse erano dovute o si è trattato di un eccesso di politically correct un po’ all’americana?”. L’ospite, altrettanto italiano, chiaramente non sinodiscendente, si è affrettato a dichiarare che si fosse trattato di un eccesso di politically correct, perché “i cinesi non li offendi facendo una cosa del genere, ma li offendi rincorrendoli per strada, dandogli degli untori, come è successo all’inizio della pandemia”. Sarebbe bello pensare che una volta tanto possa essere una persona di origine cinese o almeno di origine straniera a stabilire ed esprimere in prima persona se si è sentito offeso da uno sketch che la vedeva rappresentata. Rispetto alla rappresentazione mediatica è in corso una campagna di sensibilizzazione dal titolo #cambieRAI, attraverso la quale si è chiesto alla televisione pubblica di escludere dal proprio linguaggio espressioni sessiste e razziste e di non trasmettere più trasmissioni, film e fiction che offendono le minoranze etniche italiane e le donne. Per informazioni: https://www.nuoveradici.world/leditoriale/cambierai-la-nuova-sfida-delle-nuove-generazioni-di-italiani-da-non-ignorare/
[7] Ogni settimana su Vice.com, media partner del podcast, vengono pubblicati articoli con interviste e approfondimenti. È possibile inoltre iscriversi alla newsletter bimensile di Sulla razza, che contiene moltissimi spunti e link di riferimento.
[8] Ecco alcune delle domande menzionate dall’autrice: «Com’è che parli l’italiano così bene?», «Come si dice papà nella tua lingua?», «I tuoi genitori fanno le pulizie?», «Pensi di tornare in Sri Lanka?» (più in generale questo è il tema del capitolo 4 Sono un’italiana…vera).
[9] Le critiche non risparmiano neanche intellettuali che personalmente stimo (come Michela Murgia o Chiara Tagliaferri), ma che, a ben vedere, hanno riprodotto comportamenti discriminatori. Ciò a dimostrazione del fatto che anche il più progressista dei progressisti è coinvolto. A pagina 69 si legge «Penso che chi si trova a perpetrare un razzismo involontario è a sua volta vittima della Storia, vittima di strutture mentali che sono il risultato di secoli di diseguaglianze tra bianchi e neri».
[10] In questo caso faccio un riferimento chiaro all’introduzione che Igiaba Scego, fa al testo da lei curato Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, edito per effequ nel 2019. Citando il testo scritto da Émile Zola nel 1898 «per denunciare pubblicamente le irregolarità commesse durante il processo a carico del capitano francese di origine ebraica, in servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, Alfred Dreyfus», Scego dichiara apertamente gli intenti delle autrici dei racconti della collettanea: «Il nostro J’accuse non solo vuole essere ascoltato, ma vuole urlare il proprio disappunto per lo stato di questo presente che ci sta sempre più stretto» (ivi: 10). Non intendo certamente affermare che lo scopo di questo testo, importante passo dell’editoria italiana verso uno spazio culturale più inclusivo, sia deprecabile. Voglio piuttosto rimarcare che l’approccio di Uyangoda mira a creare empatia nel lettore, e questo aspetto, unito ad una ricca cornice teorica, risulta in ultima analisi vincente.
[11] Spiegare in prima persona, prendendo, una volta per tutte, la parola per sé, senza permettere che siano coloro che appartengono ai gruppi riproduttori dell’oppressione a spiegare la discriminazione alla minoranza in causa, come frequentemente avviene, invece, nei fenomeni del man- e white-splaining.
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.
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