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Musica e suoni secondo Pasolini

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Pasolini violinista a 8 anni

di Claudia Calabrese

Che cosa c’entrano musica e suoni con Pasolini?

Ha senso oggi porsi questa domanda? Sembrerebbe di no, visto che la materia è stata variamente trattata da studiosi e appassionati di Pasolini. Che musica e suoni, ripensati e declinati in molteplici forme, siano, poi, uno strumento espressivo della massima importanza è un dato confermato dall’opera e dalla vita stessa del poeta. Eppure, la questione non è oziosa, giacché, nonostante da diversi anni in Italia la critica riconosca il ruolo significativo della musica – non così dei suoni [1] – almeno nella produzione filmica, l’impressione è che, fatte salve alcune eccezioni, non si consideri utile approfondire, come se si trattasse di un argomento insufficiente a far progredire la conoscenza del poeta. Il che equivale a sottovalutare uno dei codici del pastiche [2] pasoliniano cui è affidato un compito, a mio avviso, non di natura estetica ma antropologico e culturale: come Orfeo con la cetra o Gesù con la parola, Pasolini con musica e suoni non ambisce a incantare e meravigliare ma vorrebbe smuovere le montagne e indicare che è possibile raggiungere un altrove sacro che riveli all’uomo un senso profondo al proprio esistere.

Ecco una delle ragioni per cui il poeta ci parla ancora oggi e se vogliamo conoscerlo in modo partecipato non possiamo escludere nessuno degli strumenti del suo complesso laboratorio e, semmai, dobbiamo tenere a bada la paura di muoverci in territori di confine e imparare agilmente a fluire da un codice all’altro, adottando una sorta di pastiche metodologico necessario e speculare al pastiche che dà forma alle sue opere. E invece la tendenza di molta critica all’iper-specialismo, l’esplorazione ripetuta di mondi già noti, le barriere fra le discipline spezzettano la cultura in compartimenti stagni sulla base di convenzioni che hanno poco in comune con la realtà – il piacere, e anche la fatica, della ricerca non stanno forse nel rischio, nell’esplorazione di mondi sconosciuti?

 71o0jl4a0pl“Vorrei essere scrittore di musica”

Bisogna dire subito che se si vuole davvero cogliere il ruolo che musiche e suoni hanno nella produzione cinematografica di Pasolini è necessario allargare la prospettiva d’indagine alla poesia, alla narrativa e alla riflessione razionale soprattutto del periodo friulano, cioè del tempo in cui Pasolini, nel rappresentare la realtà, va alla scoperta di se stesso, anche attraverso i suoni e la musica. Certo, questo tipo di indagine, molto stimolante, pone diversi problemi sia perché musica e suoni compaiono in forme sempre diverse all’interno di una produzione vastissima, sia per la stessa materia oggetto di studio, costituita di parole e non di elementi specifici del linguaggio musicale, se escludiamo le analisi che troviamo nel saggio Studi sullo stile di Bach (Pasolini, 1944-1945) [3].

Tornare al Friuli degli anni Quaranta ci permette di scoprire alcune interessanti applicazioni o enunciazioni di un pensiero musicale che riconosce a musica e suoni, annidati nella parola o di per sé, o accostati ad altri codici, la capacità di oltrepassare i confini visibili del reale, evocarne il mistero e condurre l’espressione a un livello tanto complesso e profondo da fargli dire vent’anni dopo nell’autobiografia in versi del 1966-67, intitolata Poeta delle Ceneri (Pasolini: 1288):

 […] vorrei essere scrittore di musica,
vivere con degli strumenti
dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare,
nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto
sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta
innocenza di querce, colli, acque e botri,
e lì comporre musica
l’unica azione espressiva
forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.

Ancora più avanti, nel 1972, (Pasolini, La musica nel film: 2796), riferendosi al cinema, così scrive: «La fonte musicale […] sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita». Suggestionati da queste dichiarazioni, iniziamo un percorso non lineare che ci porterà a verificare, tra le altre cose, come alcune idee che sostengono l’applicazione musicale nel cinema degli anni Sessanta e Settanta, si presentino già alla riflessione di vent’anni prima e, forse, affondino le radici in alcune lontanissime esperienze preverbali e nella relazione simbiotica del poeta con la madre.

Tutto risuona nella vita e nella produzione artistica pasoliniana: il “grembo sonoro” del Friuli (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 34) accoglie le proiezioni interiori del poeta e le vicende di un’intera comunità che si esprime anche attraverso i suoni, i rumori e le preferenze musicali; risuonano le voci dei parlanti e gli spettacoli musicali; risuona la musica di Johann Sebastian Bach nella quale Pasolini trova il punto di congiunzione, esterno a sé, tra due poli di una dialettica della passione opposti e contraddittori ma sempre in relazione; risuona il canto, manifestazione immediata del corpo, con la sua capacità di porsi fuori dalla Storia e, insieme, evocare il passato fino a sprofondare nel mito. Risuonano i versi scritti per Laura Betti e le canzoni dei borgatari, giovani feroci, soli, abbandonati, che anche cantando esprimono una passiva adesione alla Storia e s’avviano a essere incorporati nella società consumistica senza opporre resistenza.

Proviamo a leggere, con partecipazione, le riflessioni di Pasolini sulle capacità espressive della musica e sull’in-canto per l’arcaica parola poetica; gli scritti sulla musica classica e le ricerche sulla canzone popolare; e ancora, gli interventi sulla canzonetta di consumo; le sue idee sulla “narrativa musicale” (Pasolini, 1961, Cinema e letteratura: appunti dopo «Accattone»: 147) del “cinema di poesia” dove ciò che conta è la relazione tra ciò che emerge in superficie e in qualche modo è sottoposto a un divenire (la narrazione orizzontale) e ciò che è nel fondo, immutabile (il senso verticale, potremmo dire) la cui espressione è affidata alla musica che «sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita» (Pasolini, 1972, La musica nel film: 2796). Arriveremo agli anni Settanta, al tempo in cui gli estremi tentativi resistenziali del poeta di esprimere, per mezzo della musica associata alla parola poetica, la dimensione sacra della realtà si scontrano con le trasformazioni avviate dal “Nuovo Potere” capitalistico: è l’approdo a un mondo fondato sul denaro e sul potere che corrode le strutture più profonde e vicine al “sacro” dell’uomo e rende orfana la musica che, sola, non riesce più a verticalizzare l’espressione.

Pasolini, si sa, non ammette semplificazioni: è un continente complesso e per commentarlo bisogna utilizzare tutti gli strumenti del pensiero complesso. Anche la sua biografia che, come quella di ognuno di noi, si intreccia con la Storia, a volte le si avvicina a volte si allontana a seconda delle stagioni della vita e influenza il bisogno di riflettere sul rapporto tra forme espressive e realtà: realtà esistenziale, intima e soggettiva sin dal tempo della giovinezza; realtà storica, sottoposta al divenire, e realtà delle strutture profonde che appartengono all’uomo e vanno oltre il tempo e il momento storico, nell’età matura. A questi temi si mescolano suoni e musiche che entrano nel laboratorio di Pasolini come strumento espressivo lirico, soggettivo – così i suoni del Friuli e la musica classica, impiegati in funzione puramente poetica, sacrale – e insieme oggettivo, specchio dell’epoca: basti pensare alle villotte e alle tante canzoni citate ne Il sogno di una cosa o alle “Canzoni di vita” che danno il titolo a un capitolo di Una vita violenta. Con compiti così importanti musica e suoni sorvolano forme, oltrepassano confini e connettono in uno stesso organismo i riferimenti culturali del poeta, le risonanze interiori e il mondo esterno. Così anche se tra le carte del laboratorio degli anni Quaranta troviamo poche riflessioni razionali su musica e suoni, ne intuiamo ugualmente l’importanza se comprendiamo che le idee sulla realtà, anche soggettiva, sull’arte e la significazione musicale, sui suoni della lingua friulana, gemmano le une dalle altre.

Una sintesi non è mai sufficiente a mostrare tanta ricchezza da esplorare (e tant’altra che si trova negli archivi, alcuni dei quali si possono consultare solo dopo aver ottenuto l’autorizzazione degli eredi del poeta) che reclama soltanto studiosi appassionati disponibili a cimentarsi con una materia di sicuro fascino. Il tema è immenso e in continuo divenire, si dirama in mille rivoli, trova spazi diversi ma conduce a un fiume che percorre tutta l’esistenza, l’eterogenea opera e il pensiero di Pasolini e la nostra stessa cultura, tanto da giustificare, a mio parere, ulteriori riesami e, perché no, l’avvio di un filone di studi che irradi nuova luce sul poeta.

Chi desideri intraprendere il viaggio deve sapere che serve tempo, amore e conoscenza per trovare i fili di una materia così complessa. Bisogna cercarli e ricomporne l’unità: sono spezzettati e variamente articolati ma non si dissolvono mai e tracciano un cammino ricco di riflessioni, immagini fantasiose, comunioni di risonanze, idee. Chi un percorso l’ha già fatto può individuare dei cardini fondamentali del pensiero ai quali il poeta accosta musica e suoni che si compenetrano, sono in relazione tra di loro, servono a definire la realtà e a evocarne la dimensione profonda e hanno a che fare con la poesia e la ricerca della verità, con la storia e con il sacro, con le viscere e con il cuore, con l’“irraggiungibile”, con il grembo materno e il “grembo sonoro” friulano, con le voci e i corpi di un’umanità non corrotta che danza e canta innocente e che mai si vorrebbe perduta per sempre.

81egtjj7ell“Prima il silenzio, poi il suono o la parola”

«Prima il silenzio, poi il suono o la parola» scrive Pasolini nel saggio Studi sullo Stile di Bach (Pasolini, 1944-45: 79). Come il suono della musica, anche il suono della parola poetica scaturisce dal silenzio, scava nel caos primordiale e approda alla matrice profonda del reale. Da lì quei suoni devono essere recuperati, dalle viscere della natura, anche della natura umana, se si vuol far risuonare quell’«infinità che [è] in noi e in tutte le cose terrene» (Pasolini, 1945-46, I nomi o il grido della rana greca: 197).

A contare è la dimensione acustica: nel 1941, agli amici Serra, Leonetti e Roversi scrive che la poesia si legge ad alta voce; nel 1962 accetta l’invito di Sergio Bardotti a leggere alcuni suoi versi per una collana di 33 giri dal titolo La loro voce, la loro opera. D’altronde, come in una leggenda, il primo impulso a scrivere poesie proviene dal richiamo di una suggestione sonora (Pasolini, 1965, Dal laboratorio: 1317-1318):

 «[…] risuonò la parola ROSADA.
Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. […] La parola «rosada» pronunciata in quella mattinata di sole, non era che una punta espressiva della sua vivacità orale.
Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. 
Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m’interruppi subito […] E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA».

Per lui, uomo e poeta, che aspira ad aderire il più possibile al mondo contadino, carico di proiezioni soggettive, anche linguistiche, la dimensione orale e sonora della realtà è un invito a dargli forma grafica, forma “orale-grafica” (Pasolini, 1965, Dal laboratorio: 1319 e ss.). Una parola siffatta contiene nel suono anche l’immagine, ha una forma potremmo dire orale-spaziale, pittorica – com’è noto, già sul primo Pasolini influiscono le “pale d’altare” e l’insegnamento di Longhi: il poeta la coglie dalla realtà e la trasferisce, la fissa sul foglio. Il che contribuisce in qualche modo a stabilire un più stretto rapporto con quel mondo da comprendere – nel doppio significato di accogliere e insieme essere accolto – e, forse anche, trattenere qualcosa che altrimenti andrebbe perduto per sempre e che proprio nel possedere natura orale manifesta maggiormente la sua fugacità. Interessante a questo proposito il colloquio del regista con Gideon Bachmann del 1974 (In: Pier Paolo Pasolini, Polemica Politica Potere, conversazioni con Gideon Bachmann: 60):

«Gideon Bachmann – Adesso ho capito perché fai trenta inquadrature al giorno, mentre un altro regista ne fa cinque: perché sei di fretta. Quando tu lavori mi dai sempre l’impressione di essere di fretta.
Pier Paolo Pasolini – Sì, è vero.
Gideon Bachmann – In fondo anche questo […] è tutto volto….
Pier Paolo Pasolini – … a salvare qualcosa».

Cosa salvare se non quell’originaria innocenza dell’uomo che s’annida nelle lingue dei parlanti, nei corpi, e persino nei suoni del paesaggio? È forse la capacità che i suoni hanno di contenere quel quid da salvare, che gli fa dire che la musica è un’azione espressiva come le azioni della realtà?

pasolini-a-letterePasolini, dunque, già all’altezza degli anni Quaranta scopre che i suoni del suo friulano [4] posseggono una loro profonda musicalità che gli permette, senza che sia necessario ricorrere a mezzi esteriori, di tendere alla composizione di una “melodia infinita[5]. Perciò il poeta connette il casarsese a quelle tradizioni poetiche per le quali più stretto era stato il legame con la musica, opera del poeta-musico: e cioè la tradizione che dalla lirica greca giunge al Medioevo, alla lirica provenzale, a Dante e alla poesia simbolista francese. E infatti pone in esergo alla prima raccolta poetica Poesie a Casarsa i versi di Peire Vidal (“Ab l’alen tir vas me l’aire/ Qu’eu sen venir de Proensa:/ Tot quant es de lai m’agensa”). Molte liriche de La meglio gioventù alludono nei titoli al canto o a forme musicali: Ciant da li ciampanis, Vilota, Lied, Suite furlana, Dansa, Pastorela, Cansoneta, Cansiòn, Spiritual, Balada, Chan plor

Certo, Pasolini sa che v’è una distanza che separa musica e poesia – le due arti si possono confrontare solo attraverso il ricorso all’analogia; ogni opera d’arte in fondo tramuta un sentimento in “discorso” – tuttavia l’impressione è che a contare sia il bisogno di agganciare qualcosa di molto profondo, tant’è che ancora nel saggio Studi sullo stile di Bach scrive: «nella musica abbiamo le vere parole della poesia; cioè parole tutte parole e nulla significato». Ricorre l’attenzione al suono della parola poetica che ha il compito di sostenere profonde necessità espressive (Pasolini, 1970, Al lettore nuovo: 2514):

«Erano poesie in dialetto friulano: l’“hésitation prolongée entre le sens et le son” aveva avuto un’apparente definitiva opzione per il suono; e la dilatazione semantica operata dal suono si era spinta fino a trasferire i semantemi in un altro dominio linguistico, donde ritornare gloriosamente indecifrabili».

Già il 22 agosto del 1945 il poeta scriveva da Versuta a Franco Farolfi (Pasolini, Lettere [1940-1954]: 204):

«[…] le parole, caro Franco, sono come una foglia o un viso, sono colore e suono, un dato materiale, sono l’anello che ci lega alle forme inconoscibili».

L’impulso al comporre poetico proviene dunque da una parola-suono che è anche parola-immagine e incorpora l’infinito nella forma. Non a caso la riflessione approda alla musicale lingua greca: in un saggio molto importante risalente a quegli anni e intitolato I nomi o il grido della rana greca così scrive (Pasolini, 1945-46: 194-195, 197):

«“Εμπυρα χαλκοαρᾶν” due parole greche ignote, limiti a un infinito che echeggia tra gli spiragli delle loro sillabe. La prima parola, di cui non so il significato, empie uno spazio, è qualcosa, perfettamente terrena. Empie lo spazio con tre sillabe vaghissime; la sua bellezza deriva dall’aver l’accento nella prima sillaba, dall’incontro soavemente sonoro dell’μ e del π… E cosa dire della tenue bianchezza dell’ipsilon, del tremore impercettibile del ro? […] Apre, la plumbea χαλκοαρᾶν, il varco all’infinito, recando il peso di qualche affetto o di qualche gesto terreno […] [Νεφέλη], nube. […] è l’immagine di ciò che pei Greci era νεφέλη e per noi nube, e che è una cosa infinita».
«[…] nelle parole s’annida la stessa infinità che [è] in noi e in tutte le cose terrene […] v’è anche della musica, o, meglio, del suono. E l’immagine è legata a quel suono».

La sonorità della parola greca è tale che coincide con la cosa reale e mette in comunicazione l’uomo con l’infinito. In un altro saggio giovanile (Pasolini, 1947, Sulla poesia dialettale. Due postille. Per Salvatore Di Giacomo. Per Delio Tessa: 261), ragionando sull’opera di Salvatore Di Giacomo, Pasolini ritorna alla purezza della lingua greca e la definisce insieme musicale e “verista”, laddove con “verismo” bisogna intendere proprio la capacità di Di Giacomo, come sostiene il Flora citato da Pasolini, di poggiare sul vero la metafora e insieme rinviare a qualcosa che oltrepassa la superficie. «Così la musica non è scoperta nell’agevole superficie, ma attinta al suo luogo primevo donde sale per farsi il suo vero corpo e la sua vera ombra sonora».

copertina-poesia-a-casarsa-1942Ora, a Casarsa negli stessi anni Pasolini conosce la violinista slovena Pina Kalč e queste riflessioni – che sono il frutto di una ricerca espressiva ma anche, come ci ha detto il poeta, di verità – si combinano con l’ascolto partecipato e lo studio delle Sonate per violino solo di J.S. Bach. Sono musiche che lo colpiscono perché gli sembra che Bach riesca con fatti puramente musicali a incorporare l’infinito – e il sentimento umano – nella forma. Perciò decide di analizzare quegli spartiti per comprendere come sia riuscito il compositore a creare tanta perfezione (il Preludio, perfetto, tanto da essere disumano) e pure il Siciliano che, nella sua visione, rappresenta un’eccezione da cui traspare l’immagine umana dell’autore. Pagine significative insomma che rivelano alcune fonti intime della poiesi e lasciano intravedere il modo in cui musica e suoni confluiscono nelle idee sui rapporti tra forma ed espressione. Proprio a questi ragionamenti e agli stessi anni risale la lirica Variasion n. 12 dalla «Ciaccona» di Bach (Pasolini, 1943-1949: 325): i versi sono interessanti per il nostro discorso perché ci permettono di toccare con mano uno degli esperimenti pratici del poeta che verifica quali trasformazioni la sola tecnica musicale della variazione sia in grado di compiere sulla parola poetica.

Variasion n. 12 dalla «Ciaccona» di Bach
La moral selesta
a sclapa li peraulis di amour;
li romp, li dispiert,
li alsa, li sofla.
DIU al è un dolsissim IUD,
e MUART un AMURT lizeir.
A svualin li peraulis come nulis
par il seil dut viert.
JO al è un OII plen e dols!
«VARIAZIONE N. 12 DALLA «CIACCONA» DI BACH. La morale celeste fa scoppiare le parole d’amore; le rompe, le disperde, le alza, le soffia. DIU è un dolcissimo IUD, e MUART è un AMURT leggero. Volano le parole come nuvole per il cielo tutto verde. JO è un OII pieno e dolce!»

DIU, MUART e JO diventano IUD, AMURT e OII. Attraverso la variazione, il mistero profondo della musica libera le parole dal peso del significato consueto che le àncora alla terra ed esse si disperdono, volteggiando, nel cielo. Altrimenti detto: dal contenuto terreno, che ne riduce la portata simbolica, al senso, dal finito all’infinito. Come le note della “Ciaccona” di Bach sottoposte a variazione non esprimono alcuna malinconia, alcun sentimento se non la purezza, così insieme alla forma si dissolve il significato delle tre parole che tornano alla dimensione infinita da cui provengono. Insomma, il profondo valore delle parole della poesia come il profondo valore della musica viene inscindibilmente legato alle loro capacità di significazione: al loro volare in alto nel cielo e insieme scavare nel profondo.

La questione tuttavia, come sempre, è più complessa e contraddittoria: le parole che entrano in una dimensione perfetta grazie al rigore della tecnica della variazione – cioè a qualcosa di esterno che non ha nulla a che vedere con la vita – non interessano al poeta perché sono fuori dalla realtà e forse indicano anche l’illusorietà di una fuga nella purezza del celestiale infinito, apparentemente privo di significati. Le “peraulis di amour” ancorate alla terra dal loro significato prima, e spogliate del significato con la variazione dopo, diventano nuvole: «A svualin li peraulis come nulis [Volano le parole come nuvole]». Che cosa sono le nuvole? Vale la pena ricordare che «Νεφέλη], nube. […] è l’immagine di ciò che pei Greci era νεφέλη e per noi nube, e che è una cosa infinita» (Pasolini, 1945-46, I nomi o il grido della rana greca: 195). Se le nuvole sono le immagini dell’infinito c’è forse qui un collegamento con la sospensione del senso che nel linguaggio di Pasolini rinvia all’acquisizione di sensi potenzialmente infiniti?

mv5bmdbhogjjmwetzwmwni00mgewltk2mjqtntlinzg5zdzioti1xkeyxkfqcgdeqxvynjyyody4ndu-_v1_uy1200_cr10906301200_al_Pensava forse a Variasion mentre girava Che cosa sono le nuvole? (Pasolini, 1967) dove la trasformazione riguarda Jago e Otello non più burattini che vedono per la prima volta le nuvole? Per noi è una domanda importante perché se fosse così significherebbe che, al di là delle variazioni dello stile, c’è una continuità nel pensiero del poeta dagli anni Quaranta agli anni Settanta, e questa continuità ha a che fare anche con le sue idee sulla musica e sui suoni. Anche in Che cosa sono le nuvole?, come in Variasion, non c’è solo il cielo, rifugio nella purezza, nel canto del canto, “moral selesta”: c’è l’immondezzaio, cioè la Carne, che per sua natura ha a che fare con il fango primordiale, ancora grembo materno, e c’è anche la musica che si trasforma e agisce sul senso.

Ricordate quel sublime Adagio dal Quintetto per archi n. 3 in Sol minore K 516 di W.A. Mozart che aveva risuonato nel teatrino come un motivetto popolare in una riduzione per mandolini (una variazione che lo rende quasi parodia di se stesso e orizzontalizza l’espressione) e che nel finale coincide con il cielo, giunge dall’esterno della narrazione, risuona in versione originale e verticalizza l’espressione? Il poeta sembra dirci: laddove le “viscere del cielo” e dell’uomo si rispecchiano le une nelle altre si manifesta il sacro, e con il sacro la musica che evoca le «profondità confuse e senza confini della vita» (Pasolini, 1972, La musica nel film: 2796). Certo, sono ricerche espressive che possono concludersi soltanto con una sospensione del senso che l’artista stesso ci invita a cercare con la domanda che dà forma al titolo del film: la verità è inconoscibile nella sua totalità anche per il poeta che ha a disposizione strumenti espressivi che scavano nel profondo, come la musica, la parola poetica, il “cinema di poesia”.

Cosicché, man mano che le vicende storiche, personali e artistiche conducono Pasolini dalla poesia verso forme meno mediate – il cinema, le lettere luterane, l’intervento sui giornali e nella scena sociale e politica, fino all’uso del proprio corpo – la musica, nella sua visione, acquista sempre più la capacità di evocare direttamente la realtà. Persino nei momenti di maggiore disperazione, quando la frattura con il mondo si fa più profonda, egli ancora con la musica vorrebbe scavare negli abissi della realtà per evocarne mistero e sacralità o forse soltanto mostrare le fratture tra le radici autentiche di un’umanità che non esiste più e la nuova mitologia del consumo. Di tutto ciò mi sembra testimoni l’estremo tentativo di Pasolini di accostare un frammento del pentagramma della Passione di San Giovanni BWV 245 di J.S. Bach ai versi, tremendi per la ferocia del significato e della realtà cui rimandano, de L’orecchiabile (Pasolini, 1969).

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Johann Sebastian Bach

Al tempo in cui l’uomo nella società si frantuma in più figure, nessuna delle quali è in grado di fornire autonomamente del carburante per procedere nel mondo e c’è una mercificazione di tutto, il corpo e l’anima sono mercificati, non c’è più separazione fra il potere e chi lo subisce, a quel tempo in cui nessuno è libero Pasolini resiste: «Io produco una merce, la poesia, che è inconsumabile: morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata»[6]. Come inconsumata è la musica di Bach. Se è così, quel frammento della Passione di San Giovanni che il poeta aveva pensato di applicare ai versi, sarebbe stato l’elemento prevalente del pastiche e dell’ossimoro con la funzione di introdurre un’utopistica ambiguità dentro al contesto mercificato del tempo, tra l’impurità del tempo e la purezza del corpo popolare (che non esiste più). Uso il condizionale perché in nessuna edizione de L’orecchiabile sono presenti quei frammenti musicali e il progetto è rimasto solo nelle intenzioni del poeta, come testimoniano le carte custodite presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze. In tre delle cinque stesure, con piccole varianti, di questa poesia accanto ai versi compare una nota in cui l’autore riferisce l’intenzione di inserire un rigo musicale tra i versi 5 e 6 del testo poetico (ma una freccia indica che il rigo musicale va inserito dopo il sesto verso), o tra i versi 4 e 5; in una carta c’è uno spazio bianco al posto del rigo musicale; soltanto in un caso, non v’è alcun riferimento alla musica. Il frammento di pentagramma, come appunta Pasolini, è da trarre dalla facciata 5 della Passione di San Giovanni di Bach BWV 245. In uno dei fogli, il poeta scrive con la penna rossa: «rigo musicale da prendersi dalla “Passione di San Giovanni” di Bach. Invierò a parte la stesura esatta»[7]. Non sono riuscita a comprendere come mai, nonostante sembri evidente la volontà dell’autore de L’orecchiabile di inserire la musica tra i versi, in nessuna edizione risulti il rigo musicale. Forse Pasolini non ha più inviato la stesura esatta all’editore Garzanti, o forse è stata una scelta dell’editore. Ma se è stata una scelta, quali sono le ragioni? All’altezza degli anni Settanta, Bach sarebbe stato ancora il Cielo, da unire alla Carne.

Tra la carne e il cielo “

Ci siamo già fatti un’idea di cosa evochino Carne e Cielo, che musica e suoni concorrono a definire; sono quei cardini della passione che il poeta in gioventù trasferisce al suo modo di ascoltare la musica di Johann Sebastian Bach e descrive nelle pagine di Atti impuri (Pasolini, 1947-1950: 152-153):

«Rivedo ogni rigo, ogni nota di quella musica: risento la leggera emicrania che mi prendeva subito dopo le prime note, per lo sforzo che mi costava quell’ostinata attenzione del cuore e della mente. […] Era soprattutto il Siciliano che mi interessava, perché gli avevo dato un contenuto, e ogni volta che lo riudivo mi metteva, con la sua tenerezza e il suo strazio, davanti a quel contenuto: una lotta cantata infinitamente, tra la Carne e il Cielo, tra alcune note basse, velate, calde e alcune note stridule, terse, astratte. Come parteggiavo per la Carne! Come mi sentivo rubare il cuore da quelle sei note, che, per un’ingenua sovrapposizione di immagini, immaginavo cantate da un giovanetto. E come, invece, sentivo di rifiutarmi alle note celesti! È evidente che soffrivo, anche lì, d’amore; ma il mio amore, trasportato in quell’ordine intellettuale, e camuffato da Amore sacro, non era meno crudele».

Questa idea della compresenza di Carne e Cielo nella realtà che, come abbiamo visto, ha un ruolo importante nella coeva ricerca della sorgente della parola poetica nella quale più si condensa la sostanza sonora, sembra giungere da lontano (Naldini, Cronologia, in: Pasolini, Lettere [1940-1954]: XV-XVI):

«La mattina in cui nacque Guido, io mi alzai per primo, corsi in cucina e lo vidi dentro una culla. Volai in camera di mia madre a darne la notizia. A lungo mi gloriai di essere stato il primo a vederlo. Dopo qualche giorno ecco mia madre e mio padre, con un aspetto lieto, dentro la cucina. Qui è la tavola, là presso al caminetto la culla di Guido. “Mamma – chiedo – come nascono i bambini? Lei mi guarda ridendo e dice: “Dal ventre della madre. Anche il babbo sorride”. Io ascolto quella frase come uno scherzo, assurda, inconcepibile; difendo con calore il mio amor proprio. Non è vero, vengono dal cielo, grido. […] sono sconvolto (se questa parola si può scrivere per un bambino di tre anni) per il contatto con un ordine di cose troppo diverse».

Se in quel grembo materno, tante volte sacralizzato, l’inespresso prende forma, a partire da quest’esperienza l’infinito (Cielo) e il ventre (Carne), che lo custodisce, si fanno largo nel fanciullo e poi percorrono tutta l’opera. Dal grembo materno si trasferiscono nei territori del “grembo sonoro” – come il poeta definisce Casarsa (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 34) – dove una musica costante risuona sulle cose, nell’aria, nelle voci e nei volti degli abitanti, nei cortili e negli attrezzi di lavoro, nelle feste da ballo, nelle chiese, nei campi, in riva al fiume, nelle foglie, nelle montagne e nelle rogge di quel paese di temporali e di primule:

«Solo una cosa ho avuto nel mondo. Ma che cosa? […] L’orecchio… Sentivo i gabbiani che cantavano, le voci dei contadini, dei pescatori, le campane e le canzonette…» (Pasolini, 1942-1952, Chan Plor: 287).
 «Fuejs, cantavano le foglie, aghis le acque, “Mari, mari” gridava un fanciullo […], radic cantava il radicchio colto da quella mano chinata, vecia cantava il gesto familiare di quella donna chinata» (Pasolini, 1946, Foglie, Fuejs: 1296-1297).

È lì, nel “grembo sonoro”, che l’orecchio percepisce le opposizioni del reale e s’avvia la tendenza alla contaminazione, fondamento della poetica pasoliniana (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 8):

 «In quei giorni gli allarmi e i bombardamenti non davano tregua; una notte una bomba fu sganciata a pochi metri dalla casa […] Lo scoppio fu tremendo. […] Un ricognitore dipana il suo rombo nell’azzurro inanimato. Appena tornati da Messa alcuni miei scolari sono venuti nel cortile della casa dove abito; un giovanotto suona l’armonica […]».

E i sensi s’accordano con le litanie del Rosario (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 37):

«In Maggio tutte le sere andai a Rosario: furono momenti soavissimi. La chiesa spopolata, le rare candele, il pavimento umido come di fantasmi primaverili, e il canto nudo, vibrante delle litanie, da cui un po’ alla volta, ero stordito. Appoggiati alla porta e al fonte battesimale, oppure diritti in piedi, cantavano, tutt’intorno a me, coloro per cui unicamente ero entrato in chiesa…»

Le canzoni s’alternano a Te Deum e Misteri e la musica è per i giovani veicolo di congiunzione con la dimensione sacra. Già allora, Carne e Cielo (Pasolini, 1948, Il sogno di una cosa, prima stesura: 12-13):

 «Milio abbrancò la fisarmonica e intonò un Te Deum a passo di marcia. […] Poi si passò al periodo dei canti: fu un coro infernale […] Il Nini, infiammato dal vino e leggero come un uccello, teneva in serbo per il momento opportuno i Misteri; e quando i ragazzi di Rosa furono spremuti, li attaccò. Subito il coro gli tenne dietro muggendo, con solennità, sui fiaschi vuoti e i bicchieri rovesciati».

1038px-amam-1982Poi, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, Carne e Cielo dalla sfera intima si trasferiscono alla realtà: nello sguardo sacrale di Pasolini, ormai dentro la Storia, coesistono viscere (buio/atemporalità) e cuore (luce/storia). L’esito naturale sarà, in Accattone, l’accostamento della musica sublime di J.S. Bach alle immagini delle polverose, violente e sacre borgate romane: il Corale n. 78 della Passione secondo Matteo BWW 244 di Bach irrompe nel fango delle vicende di Accattone e ci mostra simbolicamente il Cielo della realtà più profonda, ossia la dimensione sacra che si contrappone e insieme s’integra alla Carne evocata dalla bassezza dell’esistenza di tutti quei borgatari.

E pure, ritorna Che cosa sono le nuvole? dove la rinascita speciale, nel segno della meraviglia per il creato, dei due uomini non più burattini, avviene ai bordi di un immondezzaio e sotto un cielo abitato da nuvole spazzate dal vento con l’Adagio di Mozart che risuona, come abbiamo visto, finalmente nella versione originale e ci conduce verso un grado maggiore di consapevolezza del senso di questa morte. L’immondezzaio e le nuvole, luoghi dell’immaginario di Pasolini, ancora riconducono alla dualità di Carne e Cielo, che è il filtro attraverso il quale passa la sua visione della realtà il cui senso, in ultima analisi, è sospeso. I burattini collocati nel punto più basso dell’esistenza sono in punto di morte e da uomini stanno andando verso l’infinito? oppure stanno nascendo come uomini, immersi nel fango della narrazione biblica (il ventre materno) che si mescola al cielo che vedono per la prima volta attraverso le nuvole (l’infinito)?

In ogni caso questa visione dell’uomo, profondamente religiosa, pur essendo al di là di qualsiasi confessione, incide sulla poiesi e interviene nell’applicazione della musica alle immagini in movimento dei suoi film dove egli sembra trovare il punto di congiunzione fra Carne e Cielo: per lui che è poeta la dialettica è sempre tra ciò che emerge in superficie e in qualche modo è sottoposto a un divenire (la narrazione orizzontale) e ciò che è nel fondo, immutabile (il senso verticale). L’espressione di questo senso profondo è affidata alla musica come scrive in La musica nel film del 1972. In Accattone il contrasto perfetto – quello stesso che il poeta aveva sentito nella Siciliana – è evocato dal contrasto tra contenuti musicali e contenuti narrativi la cui combinazione è un riflesso dei contenuti interiori del poeta. Applicazione orizzontale e applicazione verticale della musica alle immagini, come scrive Pasolini, hanno diversa funzione: ci sono musiche che danno ritmo, lineari, che seguono la narrazione. E ci sono musiche che agiscono sul senso perché hanno la loro fonte nella profondità. Mi sembra di intravedere anche un terzo modo, una sorta di verticalità orizzontale: penso ad esempio alle canzoni del Decameron, che scorrono dentro la narrazione, accompagnano le vicende ma ci dicono anche di un intero mondo popolare che non c’è più ed esiste solo nella doppia finzione musicale e cinematografica e lì esprime ancora con le canzoni la sua vitalità.

Una tale ricerca espressiva attinge sempre alla fonte della vita e per Pasolini inizia prestissimo in quel territorio dell’infanzia dove parola e suono non sono ancora separati dalla scrittura (Pasolini, 1946-1947, Pagine involontarie [romanzo]: 131):

«Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe, soprattutto la parte concava interna al ginocchio dove piegandosi correndo si tendevano i nervi con un gesto elegante e violento. Io ne ero soggiogato. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere […] Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. [...] Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome. Io lo inventai allora e fu teta veleta»».

Teta veleta esprime già con un segno/suono la complessa sensazione che il bambino prova di fronte al «senso dell’irraggiungibile» e mostra i primi segni di quel coraggio della novità che cambia il vocabolario della vita e che sarà il tratto distintivo di tutte le scelte dell’uomo che Pier Paolo diventerà. In fondo a tutto c’è quest’idea della musica come espressione diretta della realtà senza la mediazione dei significati e con un senso che viene cercato man mano sia dall’artista sia dal fruitore. A contare è che il linguaggio musicale, composto di cellule significanti, sia capace, senza bisogno di descrivere, di alludere per chi ascolta al sentimento che ha ispirato il compositore. Non è detto che la musica abbia veramente questo potere, ma è importante, anzi essenziale che Pasolini lo creda. Perché lo crede? Perché l’ha sempre creduto in fondo, poi la sua biografia l’ha portato ad essere altro, ad avvoltolarsi nelle parole che non gli bastano, ad addentrarsi nei labirinti del pastiche per esprimere una realtà propria e del mondo sempre più irraggiungibile, sempre meno compresa.

Il fatto che attraverso la musica si realizzi una comunicazione profonda tra l’artista e i suoi fruitori è un tema fondamentale per Pasolini teso da sempre, e sempre di più, a ricercare quella continua comprensione dal mondo, e di sé stesso nel mondo che nel periodo della disperata vitalità, a metà degli anni Sessanta, gli farà dire: «La morte non è/nel non poter comunicare/ ma nel non poter più essere compresi». Risuonano cariche di senso allora le parole che nell’inverno del 1941, da Bologna, il poeta scriveva all’amico Franco Farolfi a proposito delle Sinfonie di Beethoven (Pasolini, Lettere [1940-1954]: 24-25):

«[…] Il fatto è questo che il dolore, il problema, l’anelito (chiamalo come vuoi) dell’anima beethoveniana si è espressa in musica e la musica fa vibrare in te (per mezzo di quel quid puramente musicale che in noi esiste, e deve solo essere coltivato), quel dolore, quel problema, quell’anelito».

Dunque, musica e suoni entrano nella riflessione sul rapporto tra forma ed espressione artistica anche perché favoriscono una comunicazione profonda tra gli uomini. L’artista gli affida ruoli diversi ma sempre importanti nel sostenere la rappresentazione della realtà giacché sanno arricchirla, suggerirne il mistero o anche addirittura, soli, nel sogno rivelarla. Tanti i riferimenti a musica e suoni negli scritti giovanili di Pasolini, leggiamo per esempio dei frammenti tratti da I parlanti (Pasolini, 1947-48: 165-166) e Un mio sogno (Pasolini, 1946: 1304): 

«Già nel ’42, a vent’anni giusti, scrivevo in una mia raccoltina di versi in casarsese parole come queste […]: pai vecius murs – e pai pras scurs (pei vecchi muri e i prati scuri: espressione, che più o meno variata ritorna insistente per tutto il libretto, dando quasi il la nel musicare il paesaggio del tempo di me fanciullo).
 […] capii che quel ponte, quelle case, quella città, io non le vedevo con gli occhi, ma era una musica, una musica dolorosa e altissima, a suggerirmene le immagini».

V’era al mondo luogo migliore della terra friulana dove trasferire le pulsazioni del grembo materno e dar forma a quell’ordine di cose irraggiungibili e inespresse?

 […] Io non voglio esser uomo. (Come?
riascolto un usignolo? Usignolo, nome
udito, bambino, da mia madre)»
[…] (Pasolini, 1945-1946, «Acque cristiane, e voi, campi»: 625)

 V’era luogo migliore nelle cui rogge il poeta/Narciso poteva rispecchiarsi e (ri)nascere, rientrando in quel ventre che è il “grembo sonoro” friulano dove nascita e morte, tanto evocate nella poesia, si contrappongono e simbolicamente dialogano?

 «Sère imbarlumìde, tal fossâl
’a crès l’aghe, ’na fèmine plène
’a ciamìne tal ciamp.
 Jo ti recuàrdi, Narcìs, tu vévis il colôr
de la sère, quànt li ciampànis
’a sunin di muàrtϋ.
 «Sera mite all’ultimo barlume, nel fosso cresce l’acqua, una femmina piena cammina pel campo. Io ti ricordo, Narciso, tu avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto» (Pasolini, 1941, Il nìni muàrt: 10)
«O mè donzèl, memòrie
ta l’odôr che la plòja
da la tière ’a sospìre,
’a nàs. ’A nàs memòrie
Di jèrbe víve e ròja».
[…]
«O me giovanetto, memoria nasce dall’odore che la pioggia ravviva dalla terra. Nasce memoria di roggia ed erba viva» (Pasolini, 1941, O me giovanetto! : 13)

 “Migliaia di uccelli cantavano”

Così nel “grembo sonoro” friulano, modulato analogicamente con il paesaggio interiore, caotico e appassionato, i suoni della realtà e della natura accolgono abissi d’animo.  Pasolini osserva e ascolta il mondo, e se stesso nel mondo, ne enuclea il senso che risuona del suo pensiero – dove il suono è presenza immutabile arcana eppure scorre, sintesi di Parmenide ed Eraclito – e lo travasa nell’opera dopo averlo trasformato dietro la spinta della tensione poetica. Basti pensare al ricorrere del canto degli uccelli e della musica di Bach nei primi due romanzi Atti impuri e Amado mio: dei veri e propri Leitmotive che scorrono come una traccia sonora costante, sempre si collegano al sentimento del protagonista e danno unità a quelle pagine discontinue sul piano stilistico e narrativo. Come l’ambiguo canto degli uccelli che, riprodotto «con modulazioni da gola umana», «suggerisce il pensiero della morte mescolato all’infinito» e assume la funzione di significante sonoro del desiderio amoroso del narratore, vissuto con carezzevole intensità e con «doloroso senso del peccato» (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 51-52):

 «Migliaia di uccelli cantavano, su scale diverse, alternandosi o sovrapponendosi, e laceravano dolcemente il silenzio ora con modulazioni da ugola umana, ora con trilli e squittii impeccabilmente animali. […] Spesso mi pareva di sentire una voce umana rilevarsi dalla rete intricata dei canti degli uccelli, e allora mi alzavo in piedi, tremante, con l’assurda pretesa che fosse Bruno a chiamarmi!».

E ancora il canto dell’usignolo fa da sfondo sonoro a una lunga sequenza narrativa. Nel corso di una passeggiata tra amici, Paolo parla d’amore con grande trasporto fino a sentire il bisogno d’intonare «la sua disperazione sul canto iroso, patetico e pieno di pause dell’usignolo». Qui la connessione con la musica si fa evidente; in una sorta di identificazione fra il suo sentimento e il canto dell’usignolo egli chiede a Dina di insegnargli a suonare (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 106):

 «Ad un tratto Paolo si sedette, anzi, si distese sulla spalletta; e tenendo le mani incrociate sotto la testa, ricominciò ad ascoltare in silenzio il canto stupito e irritante. “Dina gridò a un tratto, lei deve spicciarsi a insegnarmi a suonare. Bisogna che mi esprima in musica. Sento che la musica è il mio più vero modo di sentire l’amore…”
Si rialzò a sedere e guardando un po’ esaltato gli amici disse: “Pensate! … Una sonata per violino solo… È tanto che ci penso… La scriverei in venti tempi, molto brevi s’intende, ma cambierei tutta la terminologia. Invece di Adagio, Allegretto, Con Brio ecc., inventerei dei nuovi nomi. Ecco per esempio: Straziato… Sanguinante… Svenevole… Con Brutalità… Venti tempi brevissimi e con lunghissime pause interne, come quelle che fa l’usignolo… Sentite?”».

Per indicare il tempo della sua composizione musicale, Paolo preferisce parole estranee all’universo della musica ma tali da evocare meglio il legame con il cuore pulsante del sentimento. La concitazione ritmica della sequenza narrativa, sottolineata dalla reiterata percussione fonica sulle t – «Ad un traTTo Paolo si sedeTTe, anzi, si disTese sulla spalleTTa; e Tenendo le mani incrociaTe soTTo la Testa, ricominciò ad ascolTare in silenzio il canTo stupiTo e irriTanTe» – sembra suggerire simbolicamente il battito del cuore del protagonista che «nel parlare era di un’audacia un po’ isterica». Insomma, l’esperienza transita dall’ascolto del canto alla volontà di Paolo di comporre una musica stonata e tenera, dove l’irrazionale si nasconde in una costruzione estremamente razionale che abbia la funzione di ordinare il caos interiore. Una bellissima pagina che parla di musica, scritta in un linguaggio che gioca con effetti acustici:  suoni e silenzi si alternano, i puntini di sospensione sembrano mimare le pause musicali, ricorre il verbo “sentire” che connette la percezione uditiva interiore con il canto dell’usignolo che commuove e irrita Paolo perché s’innesca una comunione di risonanze da cui scaturiscono una serie di processi cognitivi che vorrebbero sfociare nella creazione artistica: una ‘fantastica’ composizione musicale, insieme tenera e stonata, dove l’irrazionale si nasconde in una costruzione estremamente razionale (Pasolini, 1947-1950, Atti impuri: 104):

 «E rimase ancora per un po’ ad ascoltare il canto.
“Ma la vera, necessaria novità proseguì, consisterebbe nella vera e propria tecnica musicale. Capisce Dina? Apporterei delle nuove note stonate e per indicarle dovrei inventare dei nuovi segni. Improvvisamente, nell’attimo più snervante e tenero della melodia, dovrebbero intervenire delle stonature, scelte e dosate con estrema razionalità… Oltre, s’intende, ai disaccordi. Farei un pastiche fantastico: la scala di Debussy, la scala dodecafonica, insieme alle norme più accademiche e formali. Lei pensa che sarebbe un caos, vero”?
“Forse no” disse ridendo Dina.
“No, certo che non lo sarebbe, perché io mi trasporterei tutto nell’anima dell’usignolo, e non ne tradirei questa patetica dolcezza… questa ingenuità esasperante… quest’ordine nella passione…”.
Tornò a distendersi. Ma dopo un poco gridando che non resisteva alla tenerezza di quel canto tra i sambuchi, ordinò agli altri due a passeggiare».

Una musica ambivalente, o meglio, l’invenzione di un sistema musicale a partire da fenomeni naturali – il sentimento amoroso e il canto degli uccelli – con cui Paolo, preso da una specie di enthousiasmòs dionisiaco, vuole ordinare il caos interiore. Ma, – e qui si conferma la tendenza pasoliniana a non appianare mai le contraddizioni – Paolo vuole dare ordine alla passione attraverso i disaccordi di una partitura musicale sperimentale che mescola tradizione e innovazione come propone l’avanguardia (a questo proposito sono interessanti le consonanze con la scrittura musicale di Sylvano Bussotti che in Memoria [1962] ha musicato l’epigramma Alla bandiera rossa [1958-1959] di Pasolini).

Un primo importante punto di rottura in quelle immersioni sonore è la fuga a Roma, dopo i fatti di Ramuscello, che costringe all’abbandono del “grembo sonoro” friulano. Pier Paolo porta con sé la madre: l’endiadi figlio-grembo materno rimane ma tutti i tentativi di traferire il grembo friulano nelle borgate romane sono destinati a fallire. Il mondo del sottoproletariato è ben diverso dal mondo contadino friulano e nella nuova realtà la simbiosi tra grembo materno e grembo friulano non attecchisce: il passaggio è segnato dal contatto del poeta con le trasformazioni storiche. Non bisogna pensare però che nel grembo friulano non ci fosse un embrione di Storia, non solo quella minima, ma anche la grande Storia. Affatto. Tuttavia, ciò che sopravvive, in termini di nostalgia e di persistenza per sempre nelle viscere, è il pensiero germinato nel grembo friulano, metafora del grembo materno. E s’innesta nella Storia.

9788811688921_0_0_626_75Il paesaggio cambia, cambiano forme e corpi, ma sono ancora gli antichi suoni che egli sente, come testimoniano le poesie diaristiche della raccolta Poesia con letteratura (1951-1952) che già nel titolo sembrano suggerire l’intenzione di accostare la parola poetica a una narrazione letteraria che meglio si presti ad accogliere l’espressione della realtà. Tuttavia, l’ascolto, tra voci sconosciute, di antichi suoni che mutano di segno comunicano l’estraneità dei luoghi, la fine di una stagione esistenziale, e l’inizio di una nuova. E mentre l’usignolo allarga la propria visione del mondo i giovani, già durante la guerra ma soprattutto nel dopoguerra, cantano: canti popolari, d’impegno civile, canzonette. Con gli americani arriva lo swing e i balli si mescolano alle canzoni che risuonano nella penisola. Pasolini è molto attento a questo fenomeno di contaminazione tanto da riportarlo in un passo de Il sogno di una cosa (Pasolini, 1948: 13):

«[Eligio canta] un ritmo di boogie […] proprio come un negro: tving, ca ubang, bredar, lov, aucester […] Non si riusciva a capire che cosa cantasse […] Poi […] intonarono una canzone imparata dai soldati romagnoli a Casarsa: ‘Io tengo la pistola caricata con le palline d’oro’».

Ma ora, negli anni Cinquanta, la contaminazione avviene nel pensiero: nelle borgate romane il poeta cerca una proiezione di quel “grembo sonoro” friulano appartenente alla cultura contadina, mitizzata come il grembo materno e il canto remoto affiora in nuovi spazi – «Sì, qualcuno canta, qui intorno, /in questa nuova città ignota/ per il lungotevere piovorno/ “Amado mio”» (Pasolini, 1950-1953, Crisi: 586, vv. 9-12) – e si mescola a nuovi suoni che, dalla città, raggiungono il cuore: «Dai vicoli di Roma i giovinetti/si chiamano con suoni caldi e nudi» (Pasolini, 1950-1953, Frammento: 580). È la riscoperta del canto che risuona nei corpi dei giovinetti romani, come allora… Il sottoproletariato però non è un mondo fermo e invariabile: già nei romanzi romani musica e suoni fungeranno da segnaletica delle trasformazioni di una classe sociale che, avviata all’omologazione, canta e balla soprattutto le canzonette diffuse dall’industria discografica, dalla radio e dalla televisione. La vita è spietata, ma quei ragazzetti senza scrupoli, senza speranza di riuscire a dare una direzione alla propria vita, esprimono tutta la loro umanissima vitalità anche cantando. La sconfitta per loro è dietro l’angolo: svuotate della loro cultura, queste masse sono già incanalate negli ideali di vita piccolo-borghesi che con il boom economico si affermano come modelli.

Perciò, nella seconda parte di Una vita violenta (Pasolini, 1955-1959), nell’intrico di voci e suoni si odono i primi silenzi: d’altra parte, nella visione di Pasolini l’omologazione culturale avviene nel silenzio della Storia. Pasolini tenterà di dare loro una voce, che cede bellezza senza accorgersene, la reiventa mitizzandola fino all’impossibile: così la Roma delle borgate confluisce nei versi per la musica. Teresa, che sembra la protagonista di tutt’e quattro le canzoni scritte per Laura Betti, tra il 1959 e il 1960, e pubblicate in Giro a vuoto [8], prima si presenta e ci dice cosa fa Macrì Teresa detta Pazzia, poi viene ritratta in uno dei tanti momenti della vita di strada, ma è poesia: nel Valzer della toppa s’è ubriacata ed è come se vedesse il mondo per la prima volta e in quella condizione può credere di essere felice. Ma la realtà è nei versi di Cristo al Mandrione giacché in quella condizione nessun riscatto è possibile e la disperazione conduce alla Ballata del suicidio, unica via di fuga possibile.

È il secondo strappo dopo la fuga dal Friuli: la cosiddetta rivoluzione antropologica (in Italia e in tutto l’Occidente) dà alla realtà una curvatura talmente lontana dal suo modo d’essere che gli impedisce qualsiasi idealizzazione. Del resto, se la distanza dal “grembo sonoro” del Friuli col passare del tempo rende il grembo materno meno influente, Pasolini continua a custodire dentro di sé quei cardini che abbiamo individuato nel pensiero: Carne e Cielo, la funzione orizzontale e verticale della musica, l’attenzione ai suoni come espressione primigenia della realtà esterna e interiore. Anche piantati nella Storia, come il poeta e persino il suo stesso corpo, influenzeranno la creazione artistica e caricheranno di mille contraddizioni e contrasti la poetica successiva perché il pieno inserimento nella Storia obbligherà le viscere, inconciliabili con il processo storico, a sprofondare nel mito laddove, invece, nella produzione friulana poesia, ideologia e vita convergevano in uno stesso organismo guidato inconsapevolmente dal grembo materno. 

Qual è allora la musica dell’ultimo periodo, dopo quell’inno alla musica del Poeta delle Ceneri (Pasolini, 1966-1967)?  Converrebbe ancora studiare e approfondire per comprendere meglio, ma l’impressione è che, nei pressi dell’abiura, il poeta contraddittoriamente accentui la ricerca della musica primigenia. Lo testimoniano le scelte musicali nel Vangelo secondo Matteo (1964), in Edipo Re (1967) e in Medea (1969) con le musiche espressione di una realtà e di un io arcaici, quasi fuori dal tempo, dove tra i suoni del reale fa la sua comparsa il silenzio. Pasolini sembra dirci: quando si entra in una terra desolata è l’io primigenio che bisogna cercare, quello non devastato dall’ideologia del consumo e del progresso tecnologico. D’altra parte, il poeta lo dice chiaramente: «La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un ‘altrove’ fisico per sua natura ‘profondo’ – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita». Forse è questo il significato più viscerale di questo “altrove” fisico – “grembo sonoro” primigenio, e perciò “profondo” – che sfonda le immagini piatte (del presente?) aprendole sulle profondità della vita.

71ljolye9lConcludendo, ma senza pretendere di aver esaurito l’analisi di un tema sì vasto e complesso, l’interesse di Pasolini per musica e suoni a partire dagli anni Cinquanta entra nel divenire storico e assume forme diverse, perché oramai diversa dal tempo del Friuli è la realtà esterna, e un po’ anche quella interiore, in evoluzione. Il poeta gradualmente sarà sempre più solo: l’approdo si rivelerà carico di delusione, disperazione, abiura. Se all’inizio suoni e musiche e silenzi avevano una dimensione collegata alla ricerca di infinito (al di là del senso religioso del termine), alla fine ne hanno una umanissima: testimoniano la solitudine. Perciò, il confine tra ciò che muore e ciò che nasce nel divenire storico, nel Pianto della scavatrice (Pasolini, 1956) era stato anticipato dall’urlo che solo l’artista sente, perché questi processi trasformativi avvengono sempre nel silenzio più totale dei significati dentro la Storia. Laddove non si è compresi, si perde di vista persino il senso stesso dell’amore, cioè del proprio esistere nel mondo. Eppure, l’impressione è che quella confessione del Poeta delle Ceneri, rimarrà scolpita nella pietra: non semplice sfogo ma dichiarazione di una poetica dell’esistenza che ha anche valore artistico. Sempre presente, fino alla fine: «vorrei essere scrittore di musica…».

Correspondances

Arrivati a questo punto, possiamo domandarci: si può ancora ampliare l’orizzonte di una tale prospettiva indagine, già molto complessa? La risposta è sì e rinvia alle correspondances nel titolo di questo paragrafo. Vi chiedo di provare a cercare notizie sulle intonazioni dei versi di Pasolini o sulle composizioni musicali che s’ispirano all’opera e alla stessa vita del poeta. Vi accorgerete subito che c’è un movimento di Pasolini verso la musica ma c’è anche un movimento della musica verso Pasolini. È interessante questa reciprocità: il tema è piuttosto nuovo e sorprende la scarsità degli studi, ancora una volta scoraggiati forse dall’eterogeneità della materia. Si tratta di compositori appartenenti a generi, stili ed epoche diversissimi, dal pop all’indie, al cantautorato, alla musica colta d’avanguardia, al folk, che hanno dialogato e dialogano tuttora, in un flusso inarrestabile, con l’opera del Nostro.

L’analisi approfondita di alcune di queste opere – Sylvano Bussotti/Pasolini: Memoria/Alla bandiera rossa, 1962, Ettore De Carolis/Pasolini: Danze della sera/Notturno, 1968 e Domenico Modugno/Pasolini: Che cosa sono le nuvole? Canzone dell’omonimo cortometraggio del 1967 (Calabrese, 2019) – si offre come uno spunto di riflessione utile a chi voglia comprendere su quali incastri poggi il rapporto di reciprocità tra Pasolini e la musica. Per questo aspetto della ricerca, rinvio al mio libro che non ha affatto la pretesa di esaurire la trattazione della materia. Ci sono altre musiche che s’ispirano a Pasolini e reclamano l’attenzione degli studiosi e ci sono ancora diversi aspetti del suo rapporto con musica e suoni che meritano approfondimenti. C’è, insomma, ancora molto da esplorare nel laboratorio sonoro pasoliniano, espressione della Storia e delle strutture profonde dell’uomo e delle società e testimone di un’ininterrotta e profonda ricerca di verità.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Mi riferisco a tutto ciò che risuona nel mondo e trova spazio nell’opera del poeta: i suoni naturali e prodotti dall’uomo nella vita quotidiana – il canto degli uccelli, il suono delle campane – e persino i suoni delle cose che, nell’immaginazione di Pasolini, ‘cantano’: il radicchio nei campi, le foglie, le acque.
[2] Il pastiche per Pasolini è una scelta obbligata e ha a che fare con una ricerca espressiva che è anche ricerca di verità.  
[3] Questo scritto di Pasolini è molto interessante anche perché dimostra, una volta per tutte, la particolare abilità del poeta nella lettura e nell’interpretazione delle sonate per violino di J.S. Bach alle quali si avvicina con grazia e sensibilità inimitabili. Certo, un approccio agli Studi sullo Stile di Bach strettamente musicologico sarebbe fuorviante perché il poeta qui non è alla ricerca di rigorose analisi filologiche. Il tentativo di entrare nelle trame della scrittura bachiana – che peraltro dà evidenza della sua competenza teorica, più di quanta gliene sia stata finora riconosciuta – va valorizzato per comprendere come egli abbia interpretato già allora un compositore che tanta parte avrà nel suo cinema, e quali collegamenti è possibile fare tra queste interpretazioni e i coevi ragionamenti sul linguaggio poetico. Per approfondire il tema cfr. Calabrese, Claudia. Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances. Treviso: Diastema Studi e Ricerche, 2019: 43-80.
[4] Si tratta di un friulano reinventato dal poeta, quella lingua di ca da l’aga, della riva destra del Tagliamento, che non era mai stata scritta e che con lui acquista dignità letteraria.
[5] Così Pasolini s’esprime in una lettera a Franco De Gironcoli nel 1945: «Per noi ormai lo scrivere in friulano è un fortunato mezzo per fissare ciò che i simbolisti e i musicisti dell’Ottocento hanno tanto ricercato (e anche il nostro Pascoli, per quanto disordinatamente) cioè una ‘melodia infinita’» (Pasolini, Lettere [1940-1954]: 209-210).
[6] Risposta di Pasolini a Enzo Biagi che nel 197 lo intervista nel programma televisivo “Terza B facciamo l’appello”. Disponibile su: http://www.teche.rai.it/2017/03/enzo-biagi-e-pierpaolo-pasolini-un-confronto/ Accesso effettuato il: 10 maggio 2020.
[7] Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” Gabinetto G. P. Vieusseux, Firenze. Segnatura: ACGV PPP. II.1.149, c. 89.
[8] Giro a vuoto è il titolo dello spettacolo di Laura Betti che debutta al Teatro Gerolamo di Milano il 16 gennaio del 1960 con la direzione di Filippo Crivelli.
Riferimenti bibliografici
Pasolini, Pier Paolo, Pasolini Lettere (1940-1954), con una cronologia della vita e delle opere, a cura di Nico Naldini, Torino: Einaudi 1986.
Pasolini, Pier Paolo (Inedito), Studi sullo stile di Bach, in: Saggi sulla letteratura e sull’arte [Saggi giovanili], [1ª ed. 1999 – 3ª ed. 2008], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2008, I: 77-90.
Pasolini, Pier Paolo (Inedito), I nomi o il grido della rana greca, in: Saggi sulla letteratura e sull’arte [Saggi giovanili], [1ª ed. 1999 – 3ª ed. 2008], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2008, I: 193-198.
Pasolini, Pier Paolo (Inedito), Variasion n. 12 dalla «Ciaccona» di Bach. In: Tutte le poesie [Appendice IV a «La meglio gioventù». Poesie disperse e inedite], [1ª ed. 2003 – 3ª ed. 2015], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2015, I: 325.
Pasolini, Pier Paolo (Inedito), L’identità (Diario 1950), in: Tutte le poesie [Appendici a «L’Usignolo della Chiesa Cattolica»], [1ª ed. 2003 – 3ª ed. 2015], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2015, I: 573-587.
Pasolini, Pier Paolo (1942), Il nìni muàrt, O me giovanetto!, in: Poesie a Casarsa, Bologna: Libreria Antiquaria Mario Landi 1942.
Pasolini, Pier Paolo (1946), Foglie Fuejs in: Romanzi e racconti [Racconti, abbozzi e pagine autobiografiche], [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2006], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2006, I: 1294-1297.
Pasolini, Pier Paolo (1946), Un mio sogno, in: Romanzi e racconti [Racconti, abbozzi e pagine autobiografiche], [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2006], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2006, I: 1302-1304.
Pasolini, Pier Paolo (1947), Sulla poesia dialettale. Due postille. Per Salvatore Di Giacomo. Per Delio Tessa, in: Saggi sulla letteratura e sull’arte [Saggi giovanili], [1ª ed. 1999 – 3ª ed. 2008], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2008, I: 244-264.
Pasolini, Pier Paolo (1951), I parlanti, in: Romanzi e racconti [Appendice a «Il sogno di una cosa»], [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2013], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2013, II: 163-196.
Pasolini, Pier Paolo (1952), «Acque cristiane, e voi, campi», in: Tutte le poesie [Diari 1943-1953], [1ª ed. 2003 – 3ª ed. 2015], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2015, I: 625.
Pasolini, Pier Paolo (1953), Chan Plor, in: Tutte le poesie [da «Tal còur di un frut»], [1ª ed. 2003 – 3ª ed. 2015], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2015, I: 286-289.
Pasolini, Pier Paolo (1957), Il pianto della scavatrice, in: Le Ceneri di Gramsci, Milano: Garzanti 1957.
Pasolini, Pier Paolo (1959), Una vita violenta, in: Romanzi e racconti, [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2006], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2006, I: 817-1193.
Pasolini, Pier Paolo (1960), Macrì Teresa detta Pazzia, Valzer della Toppa, Cristo al Mandrione, Ballata del suicidio, in: Giro a vuoto, Milano: All’insegna del Pesce d’Oro 1960.
Pasolini, Pier Paolo (1961), Cinema e letteratura: appunti dopo «Accattone», in: Per il cinema [Appendice ad «Accattone»], a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, due tomi, Milano: Mondadori 2001, I: 145-149.
Pasolini, Pier Paolo (1962), Il sogno di una cosa, in: Romanzi e racconti [Il sogno di una cosa. Parte prima: 1948], [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2013], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2013, II: 7-111.
Pasolini, Pier Paolo (1969), L’orecchiabile, in: Tutte le poesie [Trasumanar e organizzar], [1ª ed. 2003 – 3ª ed. 2015], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2015, II: 94-95.
Pasolini, Pier Paolo (1970), Al lettore nuovo, in: Saggi sulla letteratura e sull’arte [Altri saggi della maturità 1958-1975], [1ª ed. 1999 – 3ª ed. 2008], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2008, II: 2511-2522.
Pasolini, Pier Paolo (1972), Dal laboratorio (Appunti «en poète» per una linguistica marxista), in: Saggi sulla letteratura e sull’arte [Empirismo eretico], [1ª ed. 1999 – 3ª ed. 2008], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2008, I: 1307-1342.
Pasolini, Pier Paolo (1972), La musica nel film, in: Per il cinema [«Confessioni tecniche» e altro], a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, due tomi, Milano: Mondadori 2001, II: 2795-2796.
Pasolini, Pier Paolo (1980), Poeta delle Ceneri, in: Tutte le poesie [Poesie varie e d’occasione], [1ª ed. 2003 – 3ª ed. 2015], a cura e con uno scritto di Walter Siti, due tomi indivisibili, Milano: Mondadori 2015, II: 1261-1288.
Pasolini, Pier Paolo (1980), Pagine involontarie (romanzo), in: Romanzi e racconti [Dai «Quaderni rossi»], [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2006], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2006, I: 131-157.
Pasolini, Pier Paolo (1982), Atti impuri, in: Romanzi e racconti, [1ª ed. 1998 – 7ª ed. 2006], a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, due volumi, Milano: Mondadori 2006, I: 5-128.
Pier Paolo Pasolini, Polemica Politica Potere, conversazioni con Gideon Bachmann, a cura di Riccardo Costantini, Milano: Chiarelettere 2015.
Calabrese, Claudia, Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances, Treviso: Diastema Studi e Ricerche, 2019.

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Claudia Calabrese, dottore di ricerca in Storia e analisi delle culture musicali all’Università La Sapienza di Roma, studiosa di musica e letteratura, docente di lettere. Attratta dagli studi interdisciplinari, si è occupata di Giacomo Puccini e di Pier Paolo Pasolini. In Alchimie pucciniane (Accademia di Scienze lettere ed arti di Palermo, 1999) e Manon Lescaut, presagio di una trasmutazione (Avidi Lumi, rivista della Fondazione del Teatro Massimo, 2000) si è accostata all’opera e alla vita del compositore toscano con gli strumenti della psicoanalisi junghiana. Il suo Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Studi e Ricerche, Treviso 2019) ha ricevuto la menzione speciale per l’originalità e il rigore analitico dalla Giuria del XXXIV Premio Pasolini bandito dal Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione della Cineteca di Bologna.  

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