di Benedetto Meloni, Francesca Uleri
Introduzione
Negli ultimi decenni lo sviluppo del turismo rurale legato all’unicità dei territori, all’interesse per produzioni specifiche e al fare esperienza di conoscenze e saper fare locali ad esse connessi, si è affermato come tendenza parallela – e contrastante – a un turismo di massa legato soprattutto a singole stagionalità e a un’omologazione dei servizi. Questa nuova tendenza di mercato data da una diversificazione dei comportamenti di consumo e da una rispettiva de-standardizzazione dell’offerta turistica composta da una molteplicità di specialities, ovvero beni e servizi caratterizzati da un forte radicamento territoriale (Brunori et. al 2020), ci pone davanti alla necessità di avere una nuova concettualizzazione e ridefinizione di cos’è rurale o ruralità e cos’è sviluppo rurale. Dando conto e prendendo coscienza di una ruralità non orientata alla sola produzione di prodotti agricoli e materie prime bensì una ruralità differenziata che soddisfa una molteplicità di bisogni derivanti da uno spettro variegato di attori, come sottolineano Messely et. al (2013), vi è la necessità di formulare quadri teorici (come base per un’azione pratica) che tengano in considerazione queste dinamiche complesse – scaturenti da un sistema di interazioni tra attori differenti – e soprattutto che includano una riflessione sul come queste interazioni impattano sull’ambiente, le risorse naturali e le comunità locali. In questo contributo si arriverà a definire cos’è oggi il turismo rurale vedendolo all’interno della suddetta complessità rurale in costante trasformazione.
Le “campagne difficili” tra produttivismo e post-produttivismo
A partire dal secondo dopoguerra, in coerenza con una traiettoria globale di promozione della Rivoluzione Verde (Patel 2013), si è assistito a un progressivo adattamento del settore agricolo italiano alle logiche di standardizzazione e replicabilità proprie del paradigma produttivista-industriale, al fine di garantire e supportare il binomio produzione-consumo di massa. Divenendo la crescita settoriale il principale obiettivo delle politiche di sviluppo economico in agricoltura, la prospettiva attesa prevedeva un’integrazione del settore nella supply chain attraverso processi di intensificazione e razionalizzazione produttiva con la conseguente scomparsa delle piccole aziende contadine, considerate inefficienti e non specializzate (De Filippis, Henke 2014). Questo modello fu inoltre concepito come ricetta per la riduzione del divario nello sviluppo della crescita economica tra Nord e Mezzogiorno, dove caratteristiche peculiari delle sfere agrarie locali come le ridotte dimensioni aziendali, la forte e diffusa base familiare dell’azienda agricola e la marcata pluriattività dei suoi membri così come la non residuale presenza di un carattere di informalità negli scambi tra produttore e consumatore, venivano viste come freno al radicamento di una traiettoria sviluppista omogenea.
Tali elementi, sommati alla scarsa dotazione di infrastrutture, alla fragilità ambientale e una connessa difficoltà di meccanizzazione agricola in terreni impervi, anche in altri contesti territoriali non solo meridionali, segnano l’avanzamento di una modernizzazione disomogenea, escludente, che taglia fuori dal suo radicamento queste campagne definibili “difficili” [1]. Non è fatto nuovo, né fatto endemico del contesto italiano, ma natura stessa del capitalismo caratterizzata da un procedere temporalmente e spazialmente disomogeneo che dà vita a una molteplicità di frizioni, asincronie, e rapporti di subalternità non solo tra gruppi sociali ma anche tra territori. In quest’ultimo caso specifico si crea una condizione di funzionalità attraverso cui le campagne “difficili” perdono risorse – in particolar modo lavoro e capitale sociale – dirette ai territori-centro (“core regions”). È proprio questa emorragia, affiancata e aggravata da politiche di sviluppo centralizzanti, che ne ha determinato nel lungo periodo una conseguente marginalizzazione-periferizzazione (Cersosimo et al. 2018). Cosi, citando Berti et al. (2010: 64), «il temine “rurale” perde la sua connotazione territoriale complessa ed è utilizzato come sinonimo di marginalità, intesa in termini geografici come perifericità ma che implica metaforicamente altri tipi di distanza: distanza tecnica, socioeconomica e culturale rispetto ad un modello di sviluppo socio-economico dominante». L’unico sviluppo rurale possibile passa – ove le caratteristiche territoriali lo consentono – attraverso lo sviluppo del settore agro-industriale. Ciò non è incentivato solo dalle politiche nazionali ma anche, e soprattutto, dalle politiche Europee, in particolar modo dalla PAC e dal sistema di sostegno all’agricoltura “accoppiato” ai prezzi e alle quantità prodotte.
Tra gli anni 70 e 80, si inizia però ad assistere alla comparsa di elementi quali il decentramento industriale (Petsimeris 1989), la terziarizzazione dell’economia e il cambiamento della struttura occupazionale (Chiesi 1998), piccoli flussi di contro-urbanizzazione (Dematteis, Petsimeris 1989) diversificazione dei consumi (Ilbery, Bowler 1998), che delineano i primi accenni di una traiettoria di transizione post-fordista e post-produttivista – in virtù della quale il rurale inizia a essere concepito non necessariamente come spazio agricolo di produzione beni per il mercato ma anche come spazio di produzione e consumo servizi ricreativi, turistico-esperienziali, culturali, residenziali.
Nel rurale si incontrano nuovi e vecchi bisogni, interessi, richieste, aspettative sempre mutevoli proprie di gruppi differenti (es: turisti, consumatori, produttori, artigiani, popolazioni nuove, migranti, istituzioni, ecc.) i quali ne ridelineano il profilo economico, culturale e sociale. Coerentemente la ruralità appare come costruzione sociale, come un prodotto complesso di un’interazione tra attori differenti, il quale ci pone di fronte a una campagna non-unitaria, differenziata che per essere compresa nella natura complessa delle sue strutture e dei suoi processi di transizione necessita – da parte dei ricercatori così come dei progettisti e pianificatori – dell’adozione di un approccio territoriale che vada oltre la lente settoriale.
L’approccio territorialista e l’endogeneità dello sviluppo
L’approccio territorialista per l’attenta lettura della mutevolezza del rurale così come delle unicità e specificità che lo differenziano consente di focalizzare l’attenzione sull’insieme di risorse disponibili contestualizzate. In una prospettiva di progettazione dello sviluppo dei territori rurali, questo garantisce un mantenimento del controllo dei processi di sviluppo stessi all’interno della dimensione locale, e una generazione di valore – data dalla capitalizzazione e/o riattivazione delle risorse disponibili – che si riversa sulla comunità locale (Bowler 1999; Belliggiano et al. 2020). L’allontanamento dal focus settoriale guida verso un sviluppo trasversale teso a ricreare connessioni sostenibili tra produzione e consumo (siano questi di beni o servizi), tra urbano e rurale, e soprattutto tra bisogni e richieste esterne (legati per esempio all’approvvigionamento di alimenti, alle attività sportive e ricreative, al benessere, al turismo, ecc.) e bisogni e richieste delle comunità locali (legati ad esempio al reddito, ai servizi, alla vivibilità del territorio in generale, ecc.). Queste ultime ricoprono un ruolo essenziale nel ricreare tali connessioni in considerazione del fatto che non sono solo dei portatori di interesse ma veri e propri co-creatori dello sviluppo. Di questo approccio, a livello internazionale, ne fu precursore teorico e metodologico Robert Chambers (1983) che con il suo Rural Development: Putting the last first marcò l’esigenza di abbandonare uno sviluppo esogeno uniformato, calato dall’ alto, e dipendente da risorse esterne quale riflesso e lascito più insito del periodo fordista.
La traiettoria è quella di un modello di sviluppo “da e per” le comunità locali e il territorio, di uno sviluppo endogeno attraverso cui l’economia si rifonda sulla messa a valore del capitale territoriale e si riorganizza attraverso modelli di governane integrati e compartecipati. La crescita economica non è quindi elemento di secondaria importanza ma si integra con uno spettro di bisogni locali differenziati inerenti allo sviluppo sociale e ambientale. Quindi nel caso del territorio rurale, non si è davanti a uno spazio potenziale in cui l’attività economica ha sede ma davanti a un agente complesso e strutturato, un’arena di trasformazione che connette il mondo imprenditoriale all’unicità delle risorse presenti (es: saper fare locali, produzioni specifiche, paesaggio, tradizioni, ecc.) e alle esigenze delle popolazioni che vivono quel territorio (Vázquez-Barquero, Rodriguez-Cohard 2016).
L’endogeneità dello sviluppo non è un tentativo di chiusura autarchica o monadica dei territori verso l’esterno piuttosto un tentativo di organizzare il sistema di necessità e risorse al fine di annidarsi in maniera resiliente in un sistema di interconnessioni globali, trovare gli strumenti interni per dialogare con la molteplicità di attori che lo animano, senza esserne però schiacciati o assimilati in processi omogeneizzanti. Ciò incarna «la capacità di creare un certo livello di “autonomia relativa”, quello che Ventura e Milone (2005) definiscono processo di costruzione di uno “spazio protetto”, rispetto ai processi di globalizzazione» (Berti et al. 2010: 66). A tal fine, è necessaria l’attivazione di un dialogo a livello territoriale volto a creare integrazione tra attori e livelli d’operatività (politico-istituzionale, economico, accademico, società civile), ed è esattamente in questo network di interconnessioni – all’interno del quale vengono definiti obiettivi dello sviluppo territoriale e in cui i singoli elementi della comunità possono riconoscerne e/o identificarne dei propri – che si crea il filtro per mediare gli input e le sollecitazioni esterne. Il locale non è dunque percettore passivo di dinamiche globali, è anzi agente complesso e attivo che attraverso questo processo dialettico con l’esterno (in cui confini sono sfumati) si trasforma e si (ri)definisce. Si attiva così un processo di empowerment delle comunità locali che rafforzano il grado e il sistema di controllo, gestione e attivazione delle risorse locali, in successione consequenziale a un primario movimento di (re)embeddedness dei processi decisionali, degli obiettivi e degli output attesi, all’interno del locale.
Sviluppo rurale e turismo rurale: verso una ricentralizzazione dell’agricoltura. Le “campagne difficili” al centro
In virtù di questa complessità contestuale diramata nel tempo – come in un’evoluzione e/o transizione – lo sviluppo rurale affiora come processo economico-sociale e ambientale e non come prodotto. Coerentemente lo sviluppo rurale è il processo di rimodellamento delle interazioni sociali, dei sistemi di utilizzo e controllo delle risorse, e dell’ambiente, nonché di ciò che van der Ploeg e Marsden (2008) chiamano “rural web”, la costellazione di individui, risorse, attività e processi che si incontrano e interagiscono nel medesimo territorio. Sebbene questo non abbia esclusive finalità economiche, il miglioramento della competitività dell’economia locale ne rimane prerequisito essenziale, mentre come fine ultimo resta il miglioramento della qualità della vita delle popolazioni residenti. Al fine di raggiungere questo obiettivo, lo sviluppo rurale (considerabile come tale) deve inderogabilmente riguardare sei dimensioni/traiettorie fondamentali: l’endogeneità, la produzione di novelties, la sostenibilità, la (ri)produzione del capitale sociale, l’impostazione di nuovi quadri istituzionali, la governance di mercato (ibid.). Il grado di orientamento verso ognuna di esse scaturisce dall’interazione tra attori interni al territorio, e tra attori interni e attori esterni che soddisfano proprie necessità e bisogni attraverso l’interazione nel dato territorio.
La sfera della produzione (per il mercato e non) è un elemento trasversale alle sfere elencate. Nella ricerca e riconoscimento delle risorse per supportare una prospettiva endogena di sviluppo, i territori rurali individuano risorse specifiche non standardizzate, che attraverso una loro proiezione sul mercato diventano beni collettivi locali per la competitività permettendo ai territori di annidarsi per specificità e unicità. Queste risorse possono essere presenti «a monte dei processi produttivi (paesaggi, terre comuni) o a valle (marchi territoriali); possono avere natura materiale come paesaggio fisico e antropico (strutture aziendali e strade e percorsi), terre comuni, foreste, protezione idrogeologica, energie rinnovabili, biodiversità, benessere animale, sicurezza alimentare, qualità degli alimenti, varietà degli alimenti; oppure natura immateriale come le conoscenze locali, le competenze tecniche e le reti necessarie per convertire le risorse naturali in prodotti di qualità, l’innovazione, la ricerca» (Meloni 2020: 29). Ciò ci pone davanti a una produzione di novelties, che genera una naturale riproduzione del capitale sociale e delle risorse naturali, richiedendo l’impostazione di nuovi quadri istituzionali dal basso e di nuovi modelli di market governance condivisi che mettano al centro le esigenze e la qualità della vita del rurale. Dalla interconnessione imprescindibile tra ognuna di esse emerge la sostenibilità dello sviluppo. Come visto la produzione non è infatti orientata al solo mercato e alla generazione di reddito ma anche all’intrinseca e non secondaria generazione di beni e servizi per il miglioramento della qualità della vita. È di per sé un uso sostenibile (produzione/riproduzione) delle risorse sia di quelle materiali, come le risorse ambientali, sia di quelle immateriali come il capitale sociale, in primo luogo fiducia e reciprocità affioranti dalla partecipazione a un reticolo collaborativo di co-creazione dello sviluppo (Podda 2020). Seguendo Trigilia (1999) e Coleman (1990), è l’uso stesso del capitale sociale che ne determina e attiva la riproduzione.
Alla luce di ciò, lo sviluppo rurale identifica quindi un «processo di cambiamento conservativo, che migliora la qualità della vita della comunità rurale (e della società cui essa appartiene) con azioni sostenibili, endogene e locali di animazione, riproduzione, integrazione e crescita dell’economia del territorio rurale, progettate, intraprese e controllate da una comunità locale in una logica di attivazione o di auto sviluppo (o di non dipendenza) e al tempo stesso di interdipendenza tra sviluppo locale e sviluppo globale, in un sistema mondiale ‘multi dimensionale’» (Iacoponi 1998: 45).
Come chiarito in precedenza, la molteplicità di attori interni ed esterni (es: consumatori urbani, turisti, nuovi abitanti, rural users) che si interrelazionano all’interno della sfera del rurale, fa sì che non sia più solo la produzione agricola a soddisfare – in una prospettiva di sviluppo – i bisogni, le necessità e richieste emergenti da questi gruppi, che non si esauriscono nel solo approvvigionamento di alimenti. In questa traiettoria, la domanda di un turismo che faccia esperienza del rurale acquista una crescente rilevanza come elemento integrante di uno sviluppo rurale sostenibile.
Questa rilevanza è fomentata da un orientamento nuovo della domanda turistica verso unicità radicate ai territori. Soprattutto in Europa, hobby, interessi o posizionamenti etici legati a tematiche riguardanti la collettività – come ad esempio la salvaguardia ambientale – emergono come fattori determinati nella ricerca e richiesta di un servizio turistico unico e differenziato, altrettanto attento, cosciente e responsabile del suo impatto sulla complessità delle relazioni di ciascun territorio, che siano queste sociali o ecologiche.
I territori rurali cercano di far fronte a queste domande attraverso un’offerta la quale appare non limitata al singolo bene o servizio che arriva sul mercato ma che si declina in un insieme di esternalità positive di cui l’intera collettività può beneficiare (es: cura del paesaggio, mantenimento della biodiversità, recupero di conoscenze e competenze legate a produzioni territorializzate, creazione nuove prospettive occupazionali, ecc.). Su questa base, il turismo rurale è una «componente integrata e coordinata all’interno di modelli integrati di sviluppo rurale specifici di ciascun territorio» (Belletti 2010: 12), che si caratterizza per:
- le ridotte dimensioni delle aziende che vi partecipano, per lo più piccole e medie imprese, nella maggior parte dei casi a conduzione familiare e/o cooperativa (Meloni, Pulina 2020);
- l’organicità con la cultura delle comunità locali le quali ne esercitano un controllo di lungo periodo sul suo sviluppo (Lane 1994);
- l’integrazione e la connessione con attività e redditi agricoli (McNally 2001);
- la natura esperienziale della sua offerta (Roberts et al. 2017);
- il tipo di legame con le risorse specifiche della ruralità, il quale ne connota la differenza rispetto ad altre forme di fruizione turistica (Belletti, Berti 2011);
- la possibilità di rompere un isolamento economico e aprire nuovi spazi sia per l’iniziativa economica che per l’interazione e nuova configurazione sociale (Lun et al. 2016).
Tenendo conto di questa base, il turismo rurale può dunque contribuire a indirizzare le dinamiche di trasformazione e ristrutturazione socio-economiche e ambientali del territorio. Sebbene con l’emergere del dibattito accademico sulla prospettiva post-produttivista spesso si tracci uno scenario in cui l’agricoltura perde la sua centralità a favore di altri settori dell’economia rurale (Wilson 2001) – primo tra tutti il turismo – non è possibile guardando alla realtà empirica separare l’agricoltura da qualsiasi altra attività che entri nell’ottica del processo di sviluppo rurale. Questo perché l’agricoltura ha una funzione regolatrice che determina elementi unici di contesto quali il paesaggio, la cultura gastronomica, il senso d’appartenenza e lo spirto identitario, la ritualità, l’uso degli spazi e gli stili architettonici.
Davanti a un’innegabile crisi agraria, che tuttora viviamo, e che trascina con sé un insieme di crisi collaterali di food safatey e food (in)security, crisi umanitarie relative all’organizzazione del lavoro agricolo, e emergenze ambientali, ciò che perde centralità non è l’agricoltura in sé bensì un certo tipo di fare agricoltura: quella industriale, intensiva in capitali e risorse esterne (Pérez-Vitoria 2007). Di riflesso, acquista centralità nuova un modello di agricoltura multifunzionale capace di rispondere non solo a esigenze esterne di mercato, di prezzo, e di profitto, ma anche a esigenze ambientali (es: salvaguardia della biodiversità), sociali (es: accessibilità di cibo sano e sufficiente), culturali (es: riproduzione di know-how specifici), o etiche (es: benessere animale). La multifunzionalità ha dunque la caratteristica fondamentale della compresenza e diversificazione tra produzione di servizi o prodotti destinati al mercato e servizi o prodotti che presentano il carattere di non commodity, quindi non commercializzabili (OECD 2006). La transizione alla multifunzionalità rappresenta una strategia dell’azienda agricola per non soccombere all’incertezza, al dinamismo e alla volatilità dei mercati, delle politiche e dei comportamenti sociali, la quale trova proprio nel settore turistico uno strumento attraverso cui rivalorizzare le risorse agrarie e la natura ricreativa del paesaggio rurale di quelle che prima erano considerate solamente “campagne difficili” e che oggi appaiono invece come nuovo centro di sviluppo.
Agricoltura, multifunzionalità e turismo rurale
Guardando all’anno 2020, anno dell’esplosione globale dell’epidemia COVID19, il quarto Rapporto Agriturismo e multifunzionalità (si veda Ismea-RRN 2021) sottolinea che «le imprese agricole multifunzionali, nonostante lo smarrimento generale delle prime fasi dell’emergenza […], [e] malgrado l’improvviso azzeramento di tutte le attività agrituristiche, non si sono mai fermate. La centralità della componente multifunzionale connessa è divenuta, ancor di più, elemento strategico dell’impresa agrituristica’ (Ismea-RRN 2021: 6). In un momento in cui i flussi turistici hanno subìto una drastica riduzione, la multifunzionalità di aziende agricole proiettate anche sui mercati turistici ha permesso a tali realtà imprenditoriali di non scomparire e continuare a operare puntando sia su innovazioni di processo e di prodotto legate all’area della produzione e vendita agroalimentare (es: vendita online), sia sulla creazione di pacchetti e esperienze turistiche adattabili ai tempi e cambiamenti correnti e ricorrenti, quindi orientate soprattutto a un turista last-minute di prossimità o a un turista-lavoratore (soprattutto urbano) che ricerca nel rurale un’occasione attraverso cui conciliare smart-working e qualità della vita.
Focalizzandoci sui dati, il rapporto mette in evidenza che – nell’anno 2020 – i servizi agrituristici (es: alloggio, ristorazione, fattoria didattica, ecc.) sono stati quelli che all’interno delle aziende agricole multifunzionali hanno avuto una maggiore penalizzazione; infatti il 67,8% delle imprese (incluse in un campione di 500 imprese totali oggetto dello studio) ha registrato una riduzione delle relative richieste. Ciononostante il 29,7% delle imprese ha registrato un aumento, rispetto al 2019, della richiesta di servizi agrituristici da parte di persone locali. Si è notato poi che oltre la metà delle imprese agrituristiche (55,7%) ha ideato e lanciato nuovi servizi già nelle prime fasi dell’emergenza (primavera 2020), come ad esempio la consegna a domicilio dei prodotti aziendali e dei pasti preparati in azienda al fine di calmierare la perdita derivante dalla quasi totale interruzione dei servizi agrituristici ma, parallelamente, è emersa anche la riorganizzazione dell’offerta di ospitalità per incontrare nuove esigenze e nuovi target di consumatori turistici (es: «soggiorni più lunghi, spazi attrezzati per lo smart working dove poter continuare la propria attività lavorativa, attività didattiche, ricreative, sportive, sociali rivolte a famiglie e singoli, portatori di bisogni emersi con maggiore forza a seguito del periodo di lockdown» (Ismea-RRN 2021:7).
Questa reazione di riorganizzazione quasi immediata delle aziende mette in luce la capacità di innovazione propria del modello contadino multifunzionale, il quale non si rivela obsoleto bensì più che mai adatto a interfacciarsi con le mutevoli sfide della nostra contemporaneità e a rispondere a molte delle esigenze dei territori rurali. Tale centralità diviene ancor più significativa se proiettiamo lo sguardo verso un così atteso periodo post-covid. Il turismo dell’esperienza e della conoscenza dei territori soprattutto rurali appare al centro di un crescente interesse da parte del consumatore, ponendosi in continuità con quanto già osservato nel periodo pre-covid in merito alla caratterizzazione del territorio rurale quale sistema ambientale, culturale, produttivo, paesaggistico e relazionale d’attrazione, capace di offrire ambientazioni, simbologie e conoscenze specifiche in contrasto a omologazioni del turismo di massa (Bilsland et al. 2020; Stankov et al. 2020; Salvatore et al. 2021). Questa ricerca di elementi specifici si connette alla più ampia emersione dei cosiddetti nested markets (Oostindie et al. 2010; Polman et al. 2010), ovvero mercati capaci di generare beni e servizi ad alto grado di qualità uniche, creando nel contempo non solo nuova rilevanza per il “rurale” ma anche nuova rilevanza e configurazione di molteplici rapporti città-campagna (Oecd 2001; Oostindie et al. 2002).
In questo quadro, l’agricoltura e le forme di turismo rurale che ad essa si connettono contribuiscono al miglioramento della qualità della vita urbana grazie al carattere multifunzionale (Brunori et al. 2008). Nel turismo rurale la localizzazione delle produzioni conta (Van der Ploeg, 2008) assumendo significato rilevante soprattutto in una prospettiva di sviluppo per le aree interne (De Rossi 2020). È una prospettiva in cui le filiere si localizzano. Localizzare significa non chiudere le aree rurali in sé stesse, bensì individuare le risorse e competenze disponibili da mettere a valore attraverso la creazione di una relazione di continuità con l’“esterno” (Sivini, Corrado 2013). Di conseguenza tale messa a valore non è un processo chiuso nei confini del rurale o nell’azione delle singole (o rete di) imprese, è invece un processo di reciprocità e connessione tra i sistemi rurali e città. La qualità data dalla localizzazione rappresenta un’intermediazione tra popolazioni urbane e rurali, ne rappresenta un primo punto di contatto di cui il turismo si fa veicolo.
L’azienda multifunzionale non è dunque attore passivo all’interno dei processi di evoluzione dei mercati ma organismo attivo che intercetta cambiamenti macro attraverso una riorganizzazione della sfera micro principalmente indirizzata alla differenziazione. Ciò avviene tramite tre principali movimenti differenzianti che sono l’approfondimento, l’ampliamento e il riposizionamento aziendale. Il primo riguarda azioni dirette alla valorizzazione della produzione agricola ed agroalimentare e all’incremento del valore aggiunto per unità di prodotto (es: produzioni di alta qualità, la vendita diretta in azienda o online, la creazione di occasioni partecipative e esperienziali per i consumatori nelle attività aziendali); il secondo riguarda l’inserimento nell’operatività dell’azienda di attività non agricole (es: ospitalità, ristorazione, escursionismo, cicloturismo, ippoturismo, visite guidate, pet-teraphy, ecc.); il terzo interessa invece la riallocazione dei fattori di produzione in attività extra-aziendali di composizione e diversificazione del reddito familiare (pluriattività) (Meloni 2020).
La multifunzionalità in agricoltura risponde quindi a esigenze interne (all’azienda e soprattutto alla sua unità di conduzione familiare) come ad esempio bisogni specifici dei membri della famiglia che vengono legati all’incremento del reddito familiare, o esterni legati invece a un’evoluzione dei consumi secondo una nuova modernità “riflessiva” in cui le preferenze e i comportamenti d’acquisto si riflettono nella costruzione dei profili individuali e collettivi e viceversa (Giddens 1991; Gauntlett 2008). Ne sono esempio i comportamenti di acquisto attenti alle tematiche ambientali o l’adozione di veri e propri stili di vita che rientrano nella traiettoria del “neo-ruralismo” (Meloni 2013). Si tratta di nuovi stili di vita che investono non solo le scelte di consumo turistico ma anche le scelte residenziali, l’edilizia, gli investimenti economico-finanziari e possono essere collegati alla rivoluzione “postmaterialista”, una rivolta morale contro il consumismo dell’epoca fordista (Inglehart 1997). Si tratta inoltre di scelte “private” (consumi, residenzialità e stili di vita) che hanno una non trascurabile dimensione pubblica e politica e che, come tali, costringono a ripensare la dinamica tra interesse individuale e azione pubblica (Hirschman 1982). È in questo dinamismo tra macro-traiettorie e micro-realtà che l’azione dell’azienda contadina assume e rafforza la sua centralità divenendo elemento fondamentale non solo per la trasmissione dell’unicità – quale elemento di competitività nel mercato turistico – ma anche elemento da cui ripartire – sebbene non in maniera esclusiva – per ripensare lo sviluppo dei territori rurali focalizzandosi su vocazioni e bisogni contestuali.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Questa aggettivazione si rifà al concetto di “modernizzazione difficile” (si veda ad esempio Anania e Pupo D’Andrea, 1996) inerente ai freni territoriali propri dei singoli sistemi produttivi locali al far proprio tale paradigma.
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Benedetto Meloni, già professore ordinario in Sociologia del Territorio e dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Cagliari, coordina la Scuola di Sviluppo Locale “Sebastiano Brusco” di Seneghe. Per Rosenberg & Sellier ha tra l’altro curato (con D. Farinella), Sviluppo rurale alla prova. Dal territorio alle politiche (2013), Valutare per apprendere. Esperienza Leader 2007-2013 (2016) e pubblicato Emergenza idrica. La gestione integrata del rischio (2006), Aree interne e progetti d’area (2015, 2018) (con P. Pulina) Turismo sostenibile e sistemi rurali Multifunzionalità, reti di impresa e percorsi (2020).
Francesca Uleri, attualmente assegnista di ricerca in Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso l’Università di Bolzano dove lavora nell’area della Sociologia Rurale. Si occupa prevalentemente di tematiche legate all’evoluzione contemporanea del capitalismo agrario e delle economie contadine tra Nord e Sud globale. Nel 2020 ha ottenuto un dottorato in Agro-Food System presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza con una tesi focalizzata sull’analisi dei cambiamenti generati dall’export-boom della quinoa nel sistema di accesso alla terra, organizzazione del lavoro agricolo e livello di sicurezza alimentare nelle comunità produttrici boliviane. È stata visiting researcher presso l’Inter-American Institute for Cooperation in Agriculture (La Paz-Bolivia) e il gruppo di Sociologia Rurale dell’Università di Wageningen (Paesi Bassi). Collabora con l’Associazione Terras-Laboratorio per lo Sviluppo Locale «Sebstiano Brusco».
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