per non ricominciare
Finalmente l‘OMS ha dichiarato che in tutti Paesi si dovrebbe «sospendere la vendita di animali vivi, catturati allo stato selvatico, nei mercati alimentari come misura di emergenza: sono una delle principali fonti di pandemie» (repubblica.it) [1]. Una cosa saputa e risaputa dalla storia e dalla geografia oltre che dalla medicina, dalla biologia e della scienza tutta. È ora! Si potrebbe pensare. Ma, come al solito, la prima cosa che faccio dopo aver letto velocemente l’articolo condiviso sui social che, si badi bene, men che mai adesso appunto, informa i fatti (proclamo di beniana memoria), inizio a scorrere la moltitudine infinita di commenti.
Lascio ai lettori di Dialoghi Mediterranei immaginare il tono e il contenuto della maggioranza, evidentemente intelligentissima e curiosissima, di utenti [2]. Perché lo faccio? Perché leggo i commenti? Curiosità a mia volta? No. L’ho sempre fatto, e non sono l’unico ovviamente. Lo faccio in quanto pratica di etnografia express, fast-ethnography, per tastare i toni, la first reaction come recita un meme ormai universale di un noto politico italiano. Sebbene questa pratica poi deve necessariamente condurre a un analisi molto più approfondita attraverso il confronto con articoli, media e social internazionali, ci dà comunque la possibilità di affacciarci in un sentiment, come dicono gli analisti, immediato, la cosiddetta “pancia” degli elettori-cittadini dell’Occidente globalizzato, “a caldo”, volgarmente definito – ricordandoci amaramente che oggi è spesso proprio questa pancia a guidare l’espressione democratica, la critica sociale, alcune narrazioni culturali; non si spiegherebbero altrimenti certe scelte elettorali, o così o supponendo un rincretinimento diffuso, cosa che è infatti e va di pari passo con il potere della “pancia”, due fenomeni correlati di cui i colpevoli biopolitici, politici, storici, sociali e culturali ancora, sono infiniti.
Per riassumere, si chiama deriva cognitiva, sono numerosi gli studi che mettono in relazione la crisi climatica, l’inquinamento, la paura, l’incertezza, il collasso, il tardo capitalismo, il complottismo, le derive autoritarie in certe regioni del mondo ecc. In sostanza, dinanzi a un fenomeno molto complesso, la mente umana tende a preferire scorciatoie cognitive, emozioni forti a giudizi ragionati, gare a chi urla più forte ad argomentazioni logiche, spiegazioni irrazionali, magismo, credenze e complotti a analisi storiche, culturali, studi scientifici. Ma di tutto ciò, di tutte queste dinamiche per fortuna ormai se ne parla, quantomeno qui su Dialoghi Mediterranei, sono molti i contributi e le riflessioni che hanno cercato di analizzare questi fenomeni cognitivi, ovviamente concentrandosi principalmente sulle narrazioni culturali che di pari passo alimentano le crisi politiche ed etiche del mondo occidentale contemporaneo [3].
L’attacco ai diritti e alle libertà fondamentali è già in corso dentro l’Occidente, in alcune nazioni sì, lo sappiamo, oltre che fuori [4]. Le retoriche reazionarie, nazionaliste, xenofobe, maschiliste, e così via godono ottima salute e neanche la crisi manifesta della pandemia è riuscita ad attenuarle, anzi. La crisi della pandemia non ha spostato di una virgola la prospettiva sui temi sociali delle migrazioni, dell’emergenza rifugiati e sui temi etico-politici dell’accoglienza, dei diritti delle prime e delle seconde generazioni. Andiamo invece notando come la lotta al Covid-19 esaspera ancora più i divari sociali, agiati e poveri, lavoratori garantiti, cassaintegrati, lavoratori in nero e disoccupati, cittadini di serie A e cittadini di serie B, cittadini e non-ancora-cittadini, europei e non-europei, nord e sud del mondo, Paesi ricchi e Paesi poveri ecc. Perché, lo sappiamo, il virus attacca chi può, ma la lotta al virus, le cure, l’accesso ai farmaci e ai vaccini, non sono per tutti, allo stesso modo, allo stesso tempo e in eguale misura.
Quindi, in risposta alla riflessione di Faeta pubblicata qualche mese fa qui su Dialoghi [5], vorrei tener presente la situazione del Brasile che, a conti fatti, è diventato un laboratorio di varianti poiché il virus, lì dove circola liberamente, ha più possibilità di sviluppare mutazioni [6] e discorso analogo può essere fatto per il continente africano [7]. Bastano queste due notazioni a spalancare scenari imminenti in cui un determinato individuo o gruppo di individui nel 2022 o nel 2023 non potrà spostarsi solo perché appartiene a quella nazione, quel luogo, ancora infetto, ancora contagioso, portatore/i di chissà quale variante iper-resistente ai nostri vaccini. Così le poetiche del ricominciare covano già delle storture enormi non solo sul piano politico-culturale, ma soprattutto sul piano umano, etico, scientifico, medico-sanitario; così le poetiche del ricominciare sono già portatrici di un mondo malsano e terrificante, ove disparità e diseguaglianza sono la norma. È chiaro, il punto non è che non ricominceremo affatto bene, o meglio, di come si dice, si spera si teorizza in mala fede [8]. Il punto è proprio che ricominceremo a fare peggio, a esasperare i conflitti sociali, a dividere il mondo, a dividere i popoli e le persone tra chi ha diritti e libertà fondamentali e chi no.
Numerosi interventi hanno seguito la scia dell’analisi di Faeta, riflettendo sugli elementi di criticità individuati nella sua analisi. Per quello che è il percorso di lavoro e di studi e per quelle che sono le mie esperienze, ho accolto con interesse la riflessione di Augusto Cavadi [9] che si interroga sulle “grandi narrazioni”, mancanti, a detta sua nel mondo contemporaneo, che di certo ha ragione nell’individuare una crepa culturale nel rapporto fra educazione alla politica – nel senso più puro del termine – ed educazione scolastica. In risposta alla critica di Faeta alla costruzione gerarchica della produzione e della comunicazione culturale [10], è proprio nelle scuole che si può fare la differenza partendo però da elementi|facoltà che troppo di rado e troppo “eccezionalmente” vengono incentivati nella vita dello studente: creatività, immaginazione e spirito critico.
Facciamo insieme un test: quanti sono quei docenti che “ci hanno cambiato la vita”, che ci hanno insegnato “veramente qualcosa” che sia andata oltre la materia insegnata? Dall’asilo all’università, quanti sono quei maestri, professori, insegnanti che ricordiamo come importanti per il nostro percorso di vita, di crescita, di individuazione, di comprensione del mondo? Di norma a questa domanda non si va oltre le dita di una mano. Avete mai pensato che quei professori, maestri, docenti lì sono anche gli stessi che al meglio ci hanno stimolato a pensare, a improvvisare, a creare, a collegare eventi con idee, immagini, significati? Quanti, di contro, sono quei docenti, maestri, professori che ripetevano la loro lezione animati solo dalla smania del voto? Il dover valutare, mettere un numero per bollare con nonchalance un intero mondo di idee, emozioni, speranze, pareri, criticità, peculiarità che è ogni singolo studente e ogni classe. Quante volte si rinuncia al dibattito di un evento politico, storico e culturale del contemporaneo perché “si deve andare avanti col programma”? Quante volte si preferisce parlare a una platea interessata alla sufficienza (tale docente tale alunno/a) anziché cercare di far breccia anche in un solo cuore o in una sola mente, anche per una sola ora?
La questione si alimenta ovviamente da sola perché studenti preparati a studiare “per profitto” faranno il liceo e l’università solo per prendersi il diploma o la laurea, così come faranno il proprio lavoro senza interrogarsi attivamente sul mondo dal quale la sopravvivenza della propria nicchia dipende. E quando saranno laureati, quegli studenti, faranno i docenti così come sono stati alunni o allievi. La rottura perciò va fatta da quando si può, chi è allievo e chi è docente, chi è studente e chi è ricercatore, qui e adesso. La gerarchizzazione si mette in crisi così.
Perché la pandemia che stiamo vivendo è solo una piccola parte di una crisi globale già in atto dovuta al cambiamento climatico (collasso degli ecosistemi) dagli esiti molto più devastanti. E le crisi sociali, politiche ed etiche non possono che accompagnare quella climatica. L’antropocene ha dettato le sue regole già molti decenni fa [11], faccia mea culpa chi deve farlo e gli altri, cioè noi, si rimbocchino le maniche. Ri-cominciare? No, è un appello nel vuoto in realtà, è una poetica con un pubblico che la rinnegherà domani, ma sarà troppo tardi. Dobbiamo già pensare a come abitare il mondo a venire. L’ipotesi di capovolgimento di comunicazione culturale che lancia Faeta come provocazione, del tipo “andiamo a fare il festival del libro nella piazza di periferia”, è tanto efficace nell’idea quanto irrealizzabile nella pratica, Faeta lo sa, lo sappiamo tutti, e proprio per questo la fa analizzandone i contesti [12]. A questa immagine disvelatrice va allegata l’immagine parimenti grottesca della “presentazione di un libro” evocata da Lia Giancristofaro [13], nel suo articolo in risposta all’appello di Faeta. Quanto accusa quest’ultimo è, ahinoi, verissimo e coloro i quali hanno risposto al suo appello non hanno potuto fare altrimenti che dargli ragione, sia con le analisi sia proprio con le immagini evocate delle loro riflessioni.
Ovunque volgiamo il nostro speranzoso sguardo, anche lì dove riscontriamo delle nicchie di resistenza e proposte alternative (associazioni culturali, blog, community, piccole case editrici, spazi autogestiti ecc.) il rischio del deserto o del controllo gerarchizzato è sempre dietro l’angolo. Questo non è pessimismo ma realismo, e c’è una ragione. Il deserto, il capitalismo, le pratiche gerarchiche, le storture culturali, sono dentro di noi, le portiamo con noi, perché siamo figli di quel mondo che non sa ri-cominciare. Potrei dire “che non può ricominciare” ma così ci autoassolveremmo e perpetreremmo ancora una volta le solite storture.
Questa consapevolezza è chiara a chi esercita (o dovrebbe esercitare, perché non è tutto oro ciò che luccica) abitualmente pratiche etnografiche, ossia gli antropologi. Saper guardare e interrogare l’altro e l’altrove è sì una vocazione ma è anche un’applicazione d’animo, una disposizione che si può apprendere, imparare, sperimentare. Chi oggi fa vera etnografia è abituato a fare anche auto-etnografia e, se sapientemente usato, lo sguardo antropologico rivolto al mondo e alle comunità può risultare determinante nei processi di condivisione umana, di risorse e spazi che presto diverranno essenziali, letteralmente. La pratica etnografica, che Giovanni Cordova nella sua risposta a Faeta, definisce «sovversiva» [14], deve essere usata primariamente per smontare retoriche politiche false e nocive e certe narrazioni culturali tossiche.
L’antropologia deve essere portata nelle scuole, attenzione! Non la storia dell’antropologia ma l’antropologia come comportamento immaginativo, come pratica del pensiero e dello sguardo! Non quindi lo studio storico mnemonico che può farsi in altre sedi, ma la sperimentazione di strumenti di indagine dell’altro e di noi stessi come se fossimo l’altro, pratiche, per esempio pratiche attraverso il sistema del gioco con le tecniche della didattica cooperativa, utilizzare il lavoro e lo spazio pomeridiano attraverso narrazioni cinematografiche e videoludiche come campi virtuali di sperimentazione a distanza e nel cyberspazio. Le idee per fare, imparare, le regole dello sguardo etnografico così da costruire contronarrazioni culturali dal sapore più etico, egalitario, sempre più a tutela dei diritti delle minoranze, per esempio grazie alla fiction della narrativa animata, della letteratura, del (video)gioco, dello sport, del cinema e via dicendo, possono essere tantissime.
Fin qui ho cercato di illuminare con un flash istantaneo soltanto un luogo ove sperimentare modi nuovi, o semplicemente differenti, per fare cultura, e l’ho fatto di getto, con imprecisione ma con enfasi proprio perché è la realtà che vivo ogni giorno e dove scorgo continuamente spazi, tempi, argomenti, spunti, idee, soprattutto da parte dagli studenti e delle studentesse. Ritengo che nessuno, né individuo o gruppo di individui, né istituzioni, che sia nella parte alta della gerarchia di cui parla Faeta sia in grado di effettuare un cambiamento determinante nelle pratiche del fare cultura. Sono addormentati, poco reattivi, non hanno voglia, hanno troppi interessi (economici in ballo). Io dico che si può fare qualcosa ma non voglio usare l’espressione “dal basso”, che già questa porta con sé tutto un mondo di gerarchie. Dico che si può fare qualcosa nelle pratiche culturali a corta gittata, quelle ci sembrano tali almeno, ma che in realtà sono quelle che nel tempo e nello spazio, se portate avanti con determinazione, si ramificano e resistono e possono fare la differenza.
Concentriamoci sulla pratica didattica, per esempio, con l’obiettivo di trasmettere la curiosità, gli interrogativi, moltiplicare gli sguardi e i dubbi e le ricerche, concentriamoci sul mondo e sull’umano più che sullo Stato e i cittadini di altri Stati, discutiamo su cosa vuol dire essere cittadini, la fortuna (ancora sì) di esserlo in un Paese che difende ancora certi diritti fondamentali, prima di dire che si deve esserlo e come. Piccoli esempi, piccoli spunti, piccole idee. Qualcuno leggerà queste parole e penserà che “è normale, dice così perché è all’inizio, ha ancora molte energie, poi si stancherà”, qualcuno leggerà queste parole e si sentirà toccato perché “eh ma il programma, quale dibattito? Quale immaginazione? Non sanno l’italiano devono sapere l’antropologia?! Servono risposte esatte! Servono i voti!”, qualcun altro leggerà queste parole e non si sentirà toccato nonostante “eh ma il programma, eh ma…”
Magari mi stancherò anch’io, magari anch’io mi ritroverò a vagare nel deserto nel quale soffro un po’ il caldo ma alla fine ho la mia piccola oasi, finché dura, finché c’è, poi si vedrà, ricomincerò o forse no, scriverò un libro che mai leggerò.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1]https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/04/13/news/l_oms_stop_alla_vendita_di_animali_selvatici_vivi_nei_mercati-296343630/?fbclid=IwAR3kBPNYg3Kray0l2fzUpQb7ubLmhhSu19pVpHVLkR7x-ui5xZfYSN2z9kk.
[2] https://www.facebook.com/Repubblica/posts/10161260347246151, “ma i c***i suoi l’OMS no?”, uno dei primi commenti che mi appare in quanto commento scritto da un utente amico. Amico sì, ma ex per fortuna. Giusto per dare l’idea del leitmotiv.
[3] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/negare-per-credere/; rimando a un mio contributo qui su Dialoghi Mediterranei, me ne potete trovare altri sempre qui o in giro per la rete, accessibili anche a non specialisti del comportamento, antropologi, psicologi cognitivisti ecc.
[4]https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2020/12/03/news/europa-276844776/; https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-2019-2020/europa-e-asia-centrale/ungheria/; https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-2019-2020/europa-e-asia-centrale/turchia/
[5] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/appunti-per-non-ricominciare-la-cultura/
[6]https://www.money.it/Brasile-laboratorio-varianti-Covid-perche-mondo-deve-avere-paura; https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/08/covid-la-citta-manaus-laboratorio-per-le-varianti-immunita-di-gregge-e-nuove-infezioni-lo-studio-su-the-lancet-sulla-seconda-ondata/6093996/; https://www.huffingtonpost.it/entry/india-e-brasile-al-collasso-turni-per-scavare-nei-cimiteri-ospedali-e-crematori-allo-stremo_it_607e9124e4b03c18bc28d5f2.
[7]https://www.medicisenzafrontiere.it/news-e-storie/news/covid-19-urgente-vaccinare-africa/; https://www.huffingtonpost.it/entry/covid-e-africa_it_6022a1d8c5b6f38d06e7329d; https://www.avvenire.it/mondo/pagine/africa-e-business-dei-vaccini-falsificati-mafia-italiana-tra-i-trafficanti-del-covid;https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/social-impact-covid-19-crisis-africa-27642.
[8] Si veda l’analisi sul sistema economico-culturale capitalistico fatta da Faeta (cfr. nota 5) e lo si confronti con il legame fra crisi climatica e capitalismo analizzato in Bonneuil C., Fressoz J.B. 2019, La terra, la storia e noi. L’evento antropocene, Treccani, Milano.
[9] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/siamo-rimasti-orfani-delle-grandi-narrazioni/
[10] In breve, «la cultura non parla più del mondo come dovrebbe essere (in difetto di memoria non parla neppure del mondo com’era), parla del mondo com’è, facendo in modo che l’utente si riconosca empaticamente nel suo discorso, invece che promuovere fastidio, risentimento, rabbia, rifiuto. La cultura tende a immedesimare l’utente con se stessa, in un doppio processo narcisistico che rassicura il produttore (l’artista, lo scrittore, il regista), e fa sentire migliore il consumatore (il professore, la studentessa, l’avvocato, la casalinga agiata)» (Faeta F. 2021, Appunti per non ricominciare. La cultura, in «Dialoghi Mediterranei», n. 47, gennaio 2021, cfr. nota 5).
[11] Si veda, per esempio, Bonneuil C., Fressoz J.B. 2019, La terra, la storia e noi. cit.
[12] Si veda sempre Faeta F. 2021, cit.
[13]https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/convegni-e-altre-kermesse-intellettuali-arte-del-potatore-e-rinascita-post-pandemica/; l’autrice ci ricorda come anche l’evento culturale più nobile porti con sé in realtà una retorica di gerarchi culturale.
[14] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/intellettuali-ed-etnografia-tra-impegno-e-sovversione/.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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