di Laura D’Alessandro
Ora erano molto vicini al Faro. Eccolo che si stagliava, nudo e dritto, abbagliante di bianco e nero, e si vedevano le onde rompersi in schegge bianche come vetro infranto contro gli scogli (Gita al faro, Virginia Woolf)
Avevo deciso che una tappa obbligatoria sarebbe stata a Bayron Bay. Non mi avrebbe fermato la paura dell’altezza. Sarei salita su quel meraviglioso faro perché a me i fari piacciono molto. Da sempre. E non capita tanto facilmente di trovarsi in Australia, addirittura nella punta più orientale del continente. Il Faro di Cape Bayron, il più potente di tutta l’Australia [1], si erge maestoso, proprio nella punta più a est di questo Paese sterminato. Si trova su un promontorio nel New South Wales, a 800 km a nord di Sydney. Pare che sia stato il capitano Cook ad attribuire il nome di Cape Byron al promontorio, da John Byron, nonno del famoso poeta inglese Lord Byron [2].
La struttura è caratterizzata da un caseggiato bianco sormontato da un’alta torre massiccia culminante in una grande lanterna al di sopra di un terrazzino protetto da una ringhiera di metallo. Le lenti installate nella lanterna, del peso di circa 8 tonnellate e formate da 760 pezzi di vetro prismatico, furono costruite dalla ditta francese Henry Leponte e funzionano con un sistema a orologeria. È semplicemente un Faro meraviglioso. E il mio desiderio di visitarlo al suo interno si è compiuto. E come immaginavo è stato stupendo, come salire in cima ad una vetta altissima. Sai che da lì la vista sarà bellissima.
L’emozione inizia sin dal primo passo quando varco la soglia della costruzione. È la prima volta che entro in un faro ed è un passaggio importante. L’interno è bianco, è fresco, sa di sale e di vissuto. Sì, ha un profumo di vissuto, di tempo che scorre e di una storia di cui è testimone e che solo lui potrebbe raccontare. La scala che mi porta in cima è un viaggio interrotto da qualche spiraglio di luce, sempre più intenso man mano che mi avvicino al terrazzino dove si trova il fanale. La meta di questo breve viaggio, la conquista di un dono prezioso, di quelli che ti porti per sempre dentro.
Qualche anno dopo, mi è capitato di salire in cima ad un altro straordinario e meraviglioso faro, il Faro di Palascìa situato nella punta protesa nel Canale d’Otranto. Strana coincidenza, stavolta mi trovavo nel punto più a est d’Italia. E anche in questo caso entrare nel faro è stato un viaggio delle emozioni. Accanto al fanale, al prisma che riflette la luce, guardavo l’orizzonte e quasi sembrava di udire Terra, Terra, grido che evoca le sorti di ignoti Odissei, andati per mare a seguir traffici di spezie e di sete, scampati a migliaia di naufragi e di inabissamenti grazie a un lampeggiar di faro. L’attuale lanterna è un pezzo d’epoca. Costruita a Parigi nel 1884, porta il nome dell’orologiaio Augustine-Henry Lepaute, allievo e pupillo di Gustave Eiffel, l’architetto dell’omonima Torre. Le lenti sono state costruite sul modello delle lenti dell’ingegno di Fresnel [3]. La torre è costituita da una scala a chiocciola composta da 150 scalini di cui gli ultimi, poco prima dell’accesso alla lanterna, sono in legno.
Dal terrazzino la vista sul mare blu del Salento è spettacolare. Si realizza che si è veramente sulla costa orientale e si vuole assaporare il vento che sale dalle onde del Mediterraneo. Sotto la grande torre, si trova una dimora che fino agli anni sessanta ospitava famiglie di faristi avvicendatisi di generazione in generazione. Il faro è rimasto in stato di abbandono per lungo tempo, fino al suo recupero. Ospita, al suo interno, il Museo di ecologia degli ecosistemi mediterranei ed è anche un luogo di interesse archeologico, poiché costituisce il punto di accesso alla Grotta dei Cervi, insenatura naturale costiera oltre che importante testimonianza del neolitico. Proprio perché situato nella parte più orientale del Paese, è diventato quasi un rito visitare il Faro di Punta Palascìa nella Notte di San Silvestro per assistere alla prima alba dell’anno sulla penisola italiana.
I fari sono monumenti antichi, molti risalgono ad epoche lontane, i più recenti sono stati costruiti nei primi anni del 1900 ed hanno quindi già più di cent’anni. Pedrag Matvejevic, ritiene che i fari siano «…simili ai templi. E che gli equipaggi dei fari, cioè personale che somiglia piuttosto ai monaci dei conventi di un tempo che non a dei marinai, non si aspettano chissà quale particolare gratitudine. Ad essi sono dedicate talvolta delle immagini nelle case di coloro che hanno perduto i congiunti in mare: l’ex voto è testimonianza popolare, i cui santuari sono i più numerosi sul mare Mediterraneo» [4].
Una delle massime esperte di fari in Italia, Annamaria Lilla Mariotti, ha dedicato ai fari pagine meravigliose tra dettagli storici, architettonici, curiosità, leggende, fotografie e soprattutto un’immensa passione ed esperienza personale. Dalla sua preziosa attività di studi e ricerche emerge come la storia dei fari sia una storia affascinante che parte da lontano. Inizialmente, sono solo dei semplici falò alimentati con fascine di legna, tenuti accesi durante tutta la notte sulle colline prospicienti zone pericolose per orientare alla navigazione o agli ingressi di porti e rade.
Risalire alle origini dei fari equivale ad esplorare il mondo dell’antichità attraverso tutte le testimonianze che, sfidando il tempo, sono giunte sino a noi. Testimonianze tra mito e leggende. Già Omero (VIII secolo a.C.), infatti, nel XIX libro dell’Iliade paragona lo sfavillìo dello scudo dell’irato Achille ad uno di quei fuochi che dalle alture rendono sicura e agevole la via ai naviganti. Fu lo scrittore greco Museo (V sec. d.C.) a narrare la storia d’amore tra Ero, la sacerdotessa di Afrodite, e Leandro il suo amante segreto. Per raggiungere l’amata, Leandro attraversava a nuoto ogni notte lo stretto dei Dardanelli, guidato da una lucerna accesa da Ero sulla cima della torre in cui ella viveva. In una notte tempestosa, il vento spense il lume e il giovane, in balia dei flutti e privo di orientamento, annegò. Nelle prime luci dell’alba Ero, che aveva atteso invano tutta la notte l’arrivo dell’amato, scorse dalla sua torre il corpo ormai privo di vita di Leandro che giaceva sulla spiaggia. Spinta dalla disperazione, Ero si gettò dalla torre, per riunirsi al suo amato. Da qui l’importanza della luce nella notte, la prima immagine del fuoco che guida nel buio, vitale per chi solca il nero mare, elemento ancora sconosciuto. Attraverso i secoli, con lo sviluppo degli scambi commerciali e del trasporto delle persone via mare, i fari si evolvono fino a diventare quelli che oggi conosciamo.
Inizia così un processo di trasformazione della navigazione nel Mediterraneo, da diurna e costiera, in notturna. L’osservazione delle stelle per guidare i naviganti non è più sufficiente a garantire l’orientamento. Le prime bussole sono strumenti rudimentali e poco affidabili. Si dà avvio alla pratica di accendere i falò e proprio all’ingresso dei primi porti sorgono strane impalcature che sollevano delle coffe o ceste, dentro le quali viene bruciato il combustibile. Tuttavia, ancora non si può parlare di faro inteso come struttura fissa e preposta all’illuminazione costante. Il concetto di struttura architettonica prende forma con i fari più famosi dell’antichità: il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria annoverati entrambi tra le sette meraviglie del mondo.
Del mitico Colosso di Rodi (290 a.C.), il gigantesco simulacro del dio Elios all’ingresso del porto dell’omonima isola, non si conosce l’esatta ubicazione. Occorre fare riferimento all’iconografia classica che lo rappresenta come una figura gigantesca con un braciere ardente in una mano e le immense gambe sotto le quali passavano le navi. Il Colosso, eretto su una struttura metallica ricoperta di bronzo, alta circa 32 metri, crollò 80 anni dopo a causa di un terremoto. Il Faro di Alessandria (280 a.C.), fu eretto da Sostrato di Cnido sull’isola greca Pharos (e di qui il nome Faro), di fronte ad Alessandria. Si trattava di una costruzione alta 120 metri, in marmo bianco, con una luce che si avvista a circa 30 miglia di distanza. Crollò definitivamente del 1302 a causa dei ripetuti terremoti che tormentarono la sua lunga esistenza. In epoca romana, la storia documenta la costruzione delle prime torri in pietra sulle cui sommità ardono fuochi.
Con il Medioevo. sono soprattutto i campanili dei monasteri a fungere da fari, in particolare lungo le coste dei Paesi nordeuropei. Vengono erette anche in Italia le prime torri in risposta ad un commercio sempre più sviluppato. Inoltre, le quattro repubbliche marinare spingono per avere una navigazione sempre più sicura. Con il Rinascimento e il Barocco, sorgono le grandi strutture, i fari monumentali spesso simili a castelli. Si tratta di fari suggestivi che si caratterizzano proprio per la loro monumentale bellezza, ma decisamente poco funzionali. Tra il 1700 e il 1800, i fari subiscono varie trasformazioni fino ad assumere l’aspetto che conosciamo oggi. È, infatti, nel secolo diciannovesimo che si può parlare di studio scientifico dei fari e delle luci di segnalazione, della loro costruzione e illuminazione. Nasce la Farologia e con essa la maggior parte dei fari in Italia e nel mondo. Un impulso decisivo alla trasformazione tecnica dei fari si deve al francese Fresnel, già citato al quale si devono lo studio e la creazione di un sistema di lenti, ad oggi in uso e che da lui prende il nome. Queste lenti permettevano, infatti, di concentrare tutta la luce al centro, potenziandone al massimo la fonte, nel tempo alimentata ad olio, a gas di acetilene, fino ad arrivare alle moderne lampade alogene da 1000 watt.
Come tutte le strutture, anche i fari sono classificati in rapporto all’età e alle dimensioni, al modo in cui sono costruiti e ai luoghi su cui sono innalzati, promontori o isole da cui fanno luce. Matvejevic avanza una classificazione decisamente più immaginifica: «è bene prendere altresì in considerazione la maniera in cui il mare li circonda, di quale specie è il loro isolamento o il distacco, in quali rapporti si trovano con i porti più vicini, l’eventuale intenzione che hanno di diventare porti essi stessi. E, da ultimo, a chi fanno luce e su quali percorsi» [5].
Dal punto di vista architettonico, la somiglianza tra i fari è solo apparente, non esiste infatti una struttura uguale ad un’altra. I fari hanno una loro personalità, sono diversi esteriormente uno dall’altro oltre ad avere collocazioni strategiche delle più disparate: su dirupi rocciosi, su piccole isole semideserte, su basse coste frastagliate, su promontori. Soprattutto la luce da essi profusa è un elemento che caratterizza e distingue un faro da un altro, anche se apparentemente possono sembrare molto simili. In tutto il mondo, infatti, ciascun faro si distingue per forma, colorazione e luce emanata. L’aspetto esterno è di ausilio per riconoscerli in fase di navigazione diurna mentre la luce, suddivisa in lampo, eclissi e lampo all’infinito, viene riconosciuta dal navigante che cerca la via nella notte.
Il mito del faro si sviluppa inevitabilmente anche tra racconti di avventure e leggende. Anticamente, l’uso di tenere accesi dei fuochi sulle coste pericolose per indirizzare i naviganti verso un porto sicuro aveva, talvolta, dei risvolti drammatici. Accadeva, infatti che malviventi senza scrupoli, spostassero volontariamente i fuochi di segnalazione in punti pericolosi, dove le navi potevano incagliarsi per provocarne il naufragio. In tal modo, le navi venivano depredate dai leggendari corsari. Ciò accadeva soprattutto nelle notti di tempesta quando l’equipaggio delle navi era totalmente preso dalle manovre per evitare il peggio mentre i corsari erano pronti a sferrare l’attacco. Il loro piano si concludeva molto spesso con successo. I saccheggi si protrassero fino all’inizio del XIX secolo.
Le storie dei corsari e dei naufragi delle navi, sono confluite in leggendarie e avventurose narrazioni entrate a far parte del folklore locale di molti Paesi [6]. Come nel caso del faro di Ocracoken, situato in una piccola isola, da cui prende il nome, al largo del North Carolina. È un faro ancora operante pur essendo tra i più antichi dell’intera costa orientale degli Stati Uniti. Risale, infatti al 1823. Ocracoke è famosa anche per un altro motivo. Lungo le coste del North Carolina nel diciottesimo secolo veleggiavano molti galeoni pirati attirati dalla possibilità di nascondersi e trovare rifugio nelle varie isole e isolette da cui sferrare i loro attacchi. Senza dubbio, il pirata conosciuto come Blackbeard (Barbanera), fu tra i più famosi. Quando il faro fu costruito sull’isola, era ormai passato del tempo dalle scorrerie del pirata. Tuttavia il suo ricordo si era legato inesorabilmente all’isola tanto da tramandare nel tempo i racconti del suo passaggio. Gli abitanti di Ocracoke, ancora oggi, raccontano che nelle notti tempestose, quando solo la luce del faro taglia l’oscurità, il fantasma senza testa di Blackbeard si aggiri nei dintorni e che spesso si veda il suo vascello che naviga intorno all’isola in cerca del suo capitano [7].
Nell’immaginario collettivo dove c’è un faro c’è un guardiano, presenza insostituibile per lunghi secoli, figura romantica e misteriosa tra avventura e leggenda. Come lo sono i fari dopotutto. I primi guardiani, molto probabilmente altri non erano che schiavi con il compito di raccogliere legna per alimentare, ininterrottamente, i fuochi sulle colline o nei bracieri in cima alle torri. Nel Medioevo furono i monaci ad occuparsi di tenere sempre vivi i falò di segnalazione sulle torri più alte dei loro monasteri. Compito che sentivano di dover assolvere come sacro dovere per segnalare i pericoli alle navi di passaggio. Con la costruzione di più numerosi fari e con la loro evoluzione strutturale, a partire dal 1800, muta anche la figura del guardiano. Diviene infatti un elemento di stretta e imprescindibile correlazione con il faro stesso, tanto da essere accompagnato anche dalla famiglia. L’immagine del guardiano subisce una trasformazione, diviene l’eroe di un mondo di frontiera, al confine tra la terra e il mare, affacciato su un’estensione affascinante e terribile, capace di aggredire le fondamenta delle torri più robuste [8].
Quello del guardiano del faro può sembrare un mestiere romantico, ma occorre sempre tenere presente che richiede tanto spirito di sacrificio. È necessario saper fare tutto: elettricista, motorista, tecnico in grado di effettuare tutte le manutenzioni. Incluso andare per mare tra gli scogli senza attracco. Molto belle sono le testimonianze dei guardiani che per anni hanno vissuto questa incredibile esperienza in solitudine e tra tante difficoltà. C’è stato un tempo in cui ai guardiani era affidato il compito, tra gli altri, di alimentare manualmente il faro e, sempre manualmente, caricare ogni 4 o 5 ore il meccanismo rotante ad orologeria che faceva girare la lanterna, oppure passare notti e notti di tempesta a vegliare e spesso rimanere per giorni senza cibo e generi di prima necessità per lui e per la sua famiglia.
I guardiani dei fari ormai sono rimasti in pochi. D’altra parte i fari sono tutti automatizzati e dotati di una sofisticata strumentazione elettronica tanto da far ritenere per qualcuno che il mestiere di farista sia superato. C’è anche chi sostiene il contrario, poiché rappresentano ancora oggi e, nonostante la tecnologia avanzata, un valido supporto alla navigazione in caso di necessità o per le piccole imbarcazioni. Inoltre, le lenti richiedono comunque una manutenzione e una pulizia costanti, spesso occorre riparare dei guasti e si possono verificare delle situazioni metereologiche in cui la presenza del farista è importante.
In Italia si stagliano ben 161 fari della Marina Militare tuttora in attività. Con il loro fascio di luce senza tempo, lambiscono le coste della Penisola per circa 8000 Km. Costruito nel 1304, il Faro di Livorno è il più antico e tuttora in funzione in Italia. La sua è una storia tormentata, come spesso accade per i fari. Fu distrutto dalle truppe tedesche in ritirata nel 1944. Tuttavia, la popolazione livornese si adoperò per la sua ricostruzione per la quale vennero utilizzate le pietre recuperate dalle macerie. La copia esatta del Faro distrutto, fu inaugurato nel 1956. Da quel momento è stato dichiarato monumento nazionale.
“La Lanterna”, simbolo di Genova, fu costruita nel 1326 nel porto vecchio. In seguito ad un assedio, nel 1507, la torre crollò e nel 1543, su ordine del Magistrato dei Padri del Comune, fu ricostruita. I successivi rimaneggiamenti non ne hanno cambiato sostanzialmente i connotati strutturali.
Costruito a Messina del 1546, il Faro di Punta San Ranieri inizialmente era stato battezzato “torre del Garofalo”, dal nome del vortice che le correnti formano nei passi dello Stretto [9]. La successiva denominazione di Faro di Punta San Ranieri, si deve al nome del monaco eremita che si occupava di alimentare un fuoco acceso ogni notte per guidare i navigatori e salvarli dal pericolo [10].
Questi, sono solo alcuni dei Fari meravigliosi in Italia. Ognuno dei essi ha una storia affascinante che si intreccia con la storia e le identità territoriali. Non è senza significato che sia stato fonte di ispirazione per scrittori, pittori, musicisti e artisti in tutto il mondo. Queste “sentinelle del mare” suscitano da sempre suggestione e mistero. Nell’immaginario collettivo, evocano spesso un senso di libertà e di solitudine ma anche il sogno di una vita a contatto con la natura. Quante storie potrebbero raccontare i fari! Di terribili tempeste che li squassavano alle fondamenta, di salvataggi, di naufragi e di mistero. Sarà perché si ergono sempre in zone isolate e selvagge, il pensiero corre a presenze misteriose che li abitano. O forse sarà per via del vento che sibila su per le scale a chiocciola, per il rumore delle onde ai suoi piedi, o per il tamburellare della pioggia sui vetri. Chissà, forse sono vecchi guardiani finiti in mare nel tentativo di un salvataggio, o di uomini e donne morti di solitudine, lontani da tutto.
Storie misteriose e storie avventurose che partono da quel fascio di luce che spazza il buio della notte e che lambisce il mare. Sarà probabilmente anche la stessa struttura, che ricorda il castello, a scatenare il desiderio del fantastico e dell’avventuroso. Sono tanti gli elementi da cui nasce il desiderio di porre il faro al centro dell’ispirazione creativa: i guardiani, la suggestiva scala a chiocciola che conduce alla stanza dell’orologio, il fascio lucente che si infiltra fra i flutti e le onde notturni, la sensazione di una solitudine antica e infinita.
La letteratura disponibile sui fari è incredibilmente ricca e sempre suggestiva perché accompagnata da immagini dei fari sparsi sul pianeta, sezioni di fari, mappe antiche, carte nautiche, e immagini varie di dettagli che aiutano a conoscere meglio i fari. E a lasciarsi ammaliare. Nella poesia e nella letteratura sono infinite le volte in cui il faro si è fatto luce tra un mare di parole. I fari hanno sempre avuto un potere evocativo notevole e di grande ispirazione per tutte le forme dell’arte. Molto spesso è proprio il faro ad avere un ruolo fondamentale nello sviluppo di storie.
In letteratura, il noto libro di Virginia Woolf Gita al faro [11], ci ha regalato passaggi indimenticabili:
«…Ora erano molto vicini al Faro. Eccolo che si stagliava, nudo e dritto, abbagliante di bianco e nero, e si vedevano le onde rompersi in schegge bianche come vetro infranto contro gli scogli. Si vedevano le venature e le spaccature degli scogli. Si vedevano chiaramente le finestre; un tocco di bianco su una di esse, e un ciuffo di verde sullo scoglio. Un uomo era uscito e li aveva guardati con il cannocchiale ed era rientrato. Ecco com’era, pensò James, il Faro che per tutti quegli anni avevano visto attraverso la baia; era una torre nuda su una roccia deserta».
Così la scrittrice consacrava il mito del faro nella letteratura. C’è un altro meraviglioso passaggio del suo fortunato libro a cui è difficile sottrarsi, tanto sono belli i versi
«Quando calava la sera, il raggio del faro che col buio si posava d’autorità sul tappeto mettendone in rilievo il disegno, alla luce più dolce dell’estate si mescolò col chiaro di luna e scivolando gentile come per posare una carezza indugiava di soppiatto a guardare, per poi tornare di nuovo amorevole».
Un altro grande viaggiatore della fantasia e dell’immaginazione, Jules Verne, ci ha regalato altre immagini suggestive del faro. Il suo romanzo, Le Phare du Bout du Monde [12], ci trasporta nel
«locale di guardia, sopra il quale si trovavano la lanterna e le apparecchiature che producevano la luce…(….) Dalle quattro finestrelle aperte in quel locale lo sguardo poteva vedere tutti i punti dell’orizzonte. Benché il vento fosse moderato, soffiava abbastanza forte a quell’altezza, senza tuttavia coprire le strida acute dei gabbiani, delle fregate e degli albatri che passavano con grande sbattere di ali».
La trasposizione cinematografica è del 1971 con il titolo The Light at the Edge of the World, diretto da Kevin Billington, con Kirk Douglas e Yul Brinner, e vi si narra la storia di tre eroici guardiani di un faro che lottano, anche con tragiche conseguenze, contro dei feroci pirati che hanno assalito la loro isola.
L’amore ai tempi del colera [13], di Gabriel García Márquez, non sarebbe stato il romanzo che conosciamo senza l’immagine del faro e del guardiano del faro:
«Da allora era solito andare di pomeriggio a conversare con l’uomo del faro sulle innumerevoli meraviglie della terra e dell’acqua che l’uomo conosceva. (…) Fiorentino Ariza imparò ad alimentare la luce, prima con carichi di legna e poi con orci di olio, prima dell’arrivo dell’energia elettrica. Imparò a dirigerla e ad aumentarla con gli specchi, e in svariate occasioni in cui l’uomo del faro non poté farlo si fermò a vigilare dalla torre le notti del mare. Imparò a conoscere le imbarcazioni dalle loro voci, dalla misura delle loro luci sull’orizzonte, e a percepire che qualcosa di loro gli tornava indietro nei lampi del faro. (….). In nessun altro luogo diverso dal faro aveva vissuto le ore più felici né aveva trovato miglior consolazione alle sue infelicità. Fu il posto che amò di più. Tanto che per anni cercò di convincere sua madre, e più tardi lo zio León XII, di aiutarlo a comprarlo. Poiché i fari del Caribe erano a quell’epoca di proprietà privata e i loro proprietari riscuotevano il diritto di passo fino al porto a seconda della grandezza delle imbarcazioni. Fiorentino Ariza pensava che quella fosse l’unica maniera onorevole di fare un buon affare con la poesia, ma né la madre né lo zio la pensavano allo stesso modo, e quando avrebbe potuto farlo con le sue risorse i fari erano già diventati proprietà dello Stato».
E in uno dei romanzi di Hemingway il faro è luce che orienta in una notte buia ma piena di speranze
«….Girai la chiavetta e spensi il motore. Era inutile sciupare benzina. Intendevo lasciare andare il battello alla deriva. Quando si fosse fatto buio, avrei sempre potuto orientarmi con la luce del faro del Morro o, se il battello fosse andato troppo alla deriva con quelle di Cojimar, per puntare su Bacuranao» [14].
Il faro è poi richiamato come metafora, in opere teatrali e soprattutto nella poesia. William Shakespeare, scrive in chiave metaforica: «Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai…» [15]. Pablo Neruda [16], non si sottrae al fascino metaforico nelle sue poesie: «Era l’ora felice dell’assalto e del bacio./ L’ora dello stupore che ardeva come un faro» [17]. In Ultimi cori per la terra promessa [18], Giuseppe Ungaretti ci regala un’immagine romantica e struggente del faro: «L’amore più non è quella tempesta/ Che nel notturno abbaglio/ Ancora mi avvinceva poco fa/ Tra l’insonnia e le smanie,/ Balugina da un faro/ Verso cui va tranquillo / Il vecchio capitano». E struggenti sono anche i versi del poeta Kahlil Gibran [19]: «Un grande amore s’impossessò di lui… /Un amore la cui forza allontana la mente/ dal mondo quantificabile e misurabile./ Un amore che parla/ quando la lingua della Vita/ rimane silenziosa…/ Un amore che si erge/ come un faro azzurro/ per indicare la via con luce invisibile» [20]. Eugenio Montale nella sua poesia Dora Markus, personaggio femminile sostanzialmente di fantasia, un mito poetico, scrive queste parole: «La tua irrequietudine mi fa pensare/ agli uccelli di passo che urtano/ ai fari nelle sere tempestose» [21].
E profondamente poetiche e struggenti sono le parole dello scrittore Antonio Tabucchi:
«Come può essere presente la notte. Fatta solo di se stessa, è assoluta, ogni spazio è suo, si impone di sola presenza, della stessa presenza del fantasma che sai che è lì di fronte a te ma è dappertutto, anche alle tue spalle, e se ti rifugi in un piccolo luogo di luce di esso sei prigioniero perché intorno, come un mare che circonda il tuo piccolo faro, c’è l’invalicabile presenza della notte» [22].
Anche Gándhí ricorre alla metafora del faro per promuovere la sua missione di pace di libertà:
«La vera ahimsa [23] dovrebbe significare libertà assoluta dalla cattiva volontà, dall’ira, dall’odio, e un sovrabbondante amore per tutto. La vita di Tolstoj, con il suo amore grande come l’oceano, dovrebbe servire da faro e da inesauribile fonte di ispirazione, per inculcare in noi questo vero e più alto tipo di ahimsa».
In ambito cinematografico, il Faro di Capel Rosso, costruito nel 1883 sull’Isola del Giglio, è stato scelto dal regista Paolo Sorrentino nel 2012, per girare alcune scene del film Premio Oscar La Grande Bellezza. Da allora questo edifico, dal particolare disegno a strisce bianche e rosse, è diventato meta di culto per molti viaggiatori. Un’attenzione tale da indurre un gruppo di imprenditori a trasformarlo in un centro polifunzionale per visite e studi sul mare.
E al faro come metafora ricorre anche l’astronauta italiano Luca Parmitano, quando dallo spazio vede l’Italia allontanarsi. C’è un’immagine che lo coglie di sorpresa e lo rassicura: «mi sono girato, ed era lì ancora una volta. Purtroppo, mi mancano le parole. Sicilia, un’isola di luce, un faro per questo viaggiatore» [24]. Mike Oldfield, compositore e polistrumentista britannico, affida, al suo lavoro musicale Earth Moving [25], le parole: «Sento una corrente nell’aria stanotte. Posso sentire la terra muoversi. L’amore è un faro, una luce guida».
Difficile, dunque, sottrarsi al fascino della metafora del faro che seduce e ammalia senza distinzioni. Vale anche per un critico d’arte, accademico e saggista come Achille Bonito Oliva, per il quale
«contemplare un’opera d’arte corrisponde ad una vera gita al faro. Per sua costituzione, il faro si presenta alla vista a una grande distanza attraverso l’intermittenza di un battito luminoso. Già da lontano si propone come un avviso ai naviganti, ma non tranquillo e accogliente. Con il suo intervallo luminoso tra accensione e buio, il faro drammatizza la presenza della terra o dello scoglio ed evoca ai miei occhi i sospetti di naufragio, accresciuti dal suo pulsare intermittente. Tale intermittenza più che costituire un segnale accogliente, dispone il navigante in un sistema mentale di allarme».
Suggestive e affascinanti le sue parole sull’opera d’arte al punto di avanzare
«la possibilità di pensare al faro come una grossa scultura che misura contemporaneamente spazio e tempo, luce e intervallo. Perché, in fondo l’opera d’arte è semplice produzione di catastrofe, strappo nell’equilibrio tettonico del linguaggio che l’artista realizza attraverso un processo elaborativo di una forma lampante e presente come il pericolo di uno scoglio. Il Faro, segna, con la sua intermittenza luminosa, la sicura stanzialità del territorio che occupa, indica nello stesso tempo la distanza che lo separa dallo sguardo del navigante. Questi, si muove nello spazio liquido e instabile del mare, abitato da lunghe ombre e dal buio della notte. In questo spazio il navigatore è sottoposto ai colpi del vento e dei marosi. Il faro diventa il segnale che invita verso il riparo della terra ferma e insieme avverte paradossalmente di questo pericolo. Segnale ambivalente questo del faro, che incorpora dell’arte il fattore luminoso, l’intermittenza cromatica del bianco e del nero, e anche la strutturale ambivalenza del messaggio artistico che non produce mai pacificata risposta, bensì piuttosto una formale domanda sul mondo. Il faro, dunque, sembra proporsi come una grande scultura investigativa, un’installazione che sollecita perplessità e interrogazione. L’oscillazione circolare dal buio alla luce del faro ne alleggerisce il peso, mettendo in discussione una staticità monumentale che altrimenti diventerebbe un obelisco: segnale, a futura memoria, di un evento drammatico. L’essere un sistema d’allarme, per giunta visivo, aumenta la possibilità di spostare questa architettura marina nella famiglia della scultura moderna. Qui infatti non esiste ormai alcuna limitazione di sorta per quanto riguarda tecniche e materiali» [26].
Queste sono solo alcune delle citazioni e, come è facile immaginare, ce ne sarebbero ancora tantissime. Non da ultimo, anche nel linguaggio parlato, quando il riferimento al faro è spesso richiamato in chiave metaforica. Nell’arte pittorica, il faro è stato, ed è, per molti artisti un simbolo misterioso e fonte di ispirazione. Spesso è un elemento che caratterizza un paesaggio marino, un golfo, una scogliera, un’isola. Altre volte è l’elemento principale su cui l’artista ha proiettato il proprio talento e l’ispirazione. È il caso del famoso dipinto The Lighthouse at Two Lights di Edward Hopper. Il faro è quello che erompe dal promontorio roccioso presso Cape Elizabeth, nel Maine. La struttura nel dipinto è pervasa da una sfumatura malinconica e di raccoglimento tipica dei temi cari al pittore. Il faro è il “centro” dell’opera, non si scorge alcun mare. Sembra quasi uscito da un sogno inquieto [27].
Un altro faro famoso nella pittura è Stormy sea with Lighthouse del tedesco Carl Blechen. Lungo una costiera, nel mezzo di un mare tempestoso, sorge la struttura del faro che con il suo fascio luminoso rende il cielo d’un colore metallico. Segno del contrasto spirituale che il pittore vuole evocare attraverso il suo cupo romanticismo. E sempre in campo pittorico, c’è una bella storia legata all’arte di dipingere i fari. Un giorno, un viaggiatore acquerellista italiano, Giorgio Maria Griffa, partito con pennelli e acquerelli è andato a vedere i fari costruiti dagli Stevenson, una famiglia di ingegneri che, tra il 1790 ed il 1940, ha avuto tra le proprie fila otto membri progettisti e costruttori dei 97 fari che tuttora costellano le coste della Scozia. La stessa famiglia del noto scrittore Robert Louis Stevenson che non seguì la strada di famiglia e così facendo ci ha regalato dei libri indimenticabili [28]. Eppure lo scrittore aveva a cuore il valore dell’opera e dell’ingegno della sua famiglia, tanto da riconoscere che «Ogni qualvolta sento l’odore dell’acqua salmastra, so di non essere lontano da una delle opere dei miei antenati…e quando i fari si accendono lungo le coste della Scozia sono orgoglioso di pensare che brillano più luminosi grazie al genio di mio padre». Ebbene, Griffa ha dipinto tutti i fari degli Stevenson raccogliendoli in un volume di una bellezza struggente I fari degli Stevenson [29]. Ogni faro, un dipinto, corredato di una scheda con l’indicazione della latitudine e della longitudine, l’altezza, la struttura, i dettagli dei lampi al secondo. In ogni scheda, inevitabilmente, riaffiora il ricordo di uno Stevenson: Robert, Alan, David, Thomas, Charles.
Mi è capitato spesso di leggere classifiche dei fari più belli nel mondo e tutte le volte non posso a fare a meno di pensare a tutti i fari meravigliosi che ne sono esclusi. A quei fari che dignitosamente si ergono su promontori, scogliere e isole, sfidando ogni giorno le insidie del mare, dell’oceano e del tempo che passa. Consapevoli di essere unici e irripetibili perché i fari non se ne costruiranno più, non ce ne saranno mai dei nuovi. Sono ormai il ricordo di un’epoca passata che non tornerà. Eppure, nonostante molte imbarcazioni dispongano ormai di sofisticati computer e ricevitori satellitari, e sempre più ne saranno dotate in futuro, sono sicura che nessuno vorrà rinunciare alla vista rassicurante di un faro che dalla costa ci guarda, ci protegge e ci sorveglia. E allora, riprendendo le parole di Achille Bonito Oliva,
«la gita al faro diventa la metafora dell’approccio all’opera d’arte che, mediante i segnali della sua bellezza, sviluppa stabilità contemplativa e instabilità sensoriale. Tale intervallo sembra ben sincronizzarsi con il pulsare del faro nel suo alterno concedersi e nascondersi alla vista, ma sempre nella conferma di un ritmo circolare che stabilizza la misura della distanza, quella necessaria per guardare e interrogarsi sul mondo».
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Il Faro di Byron Bay divenne il più potente d’Australia in seguito all’elettrificazione avvenuta nel 1956.
[2] George Gordon Lord, Poeta inglese noto come Lord Byron (1788 -1824).
[3] Augustin Fresnel (1788 – 1827), ingegnere fisico francese, progettò e brevettò questa tipologia di lente basandosi sui principi fisici dell’ottica, rifrazione e propagazione.
[4] P. Matvejevic, Breviario Mediterraneo, Garzanti Milano 2006: 53 e 56.
[5] Ibid.
[6] A. Lilla Mariotti, Storie di pirati e piratesse del XVIII secolo, Magenes editore, Milano, 2018.
[7] A. Lilla Mariotti, Blackbeard, La vita e le avventure del famigerato pirata Barbanera, Magenes editore Milano, 2011.
[8 ] A. Lilla Mariotti, Fari, White Star, Novara 2005.
[9] Fari d’Italia, il fascino intramontabile delle “sentinelle del mare”, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Fari-d-Italia-il-fascino-intramontabile-delle-sentinelle-del-mare-35899f14-f3a4-4c2a-b4c6-82d92871aa97.html
[10] Fari d’Italia, il fascino intramontabile delle “sentinelle del mare”, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Fari-d-Italia-il-fascino-intramontabile-delle-sentinelle-del-mare-35899f14-f3a4-4c2a-b4c6-82d92871aa97.html
[11] V. Woolf, Gita al faro, titolo originale To the Lighthouse, 1927.
[12] J. Verne, Le Phare du Bout du Monde, è il primo romanzo pubblicato postumo nel 1905 dal figlio Michel.
[13] G. García Márquez, L’amore al tempo del colera, Mondadori Milano 1985.
[14] E. Hemingway, To Have and Have Not, Scribner’s, 1937.
[15] W. Shakespeare, Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento, Sonetto 116.
[16] P. Neruda, pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, è stato un poeta, diplomatico e politico cileno.
[17] P. Neruda, Poesia La canción desesperada, 1924.
[18] G. Ungaretti, tratto dalla poesia Ultimi cori per la terra promessa, 1960, parte della raccolta Il taccuino del vecchio.
[19] Kahlil Gibran, è stato un poeta, pittore e aforista libanese naturalizzato statunitense.
[20] K. Gibran, Segreti del cuore, Newton Compton, Roma 1947 (postumo).
[21] E. Montale, tratto dalla poesia Dora Markus, Le Occasioni; Parte prima.
[22] A. Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, Feltrinelli, Milano, 2009: 42.
[23] Ahimsa è un termine sanscrito e fa riferimento alla non violenza e al rispetto per la vita. Significa “non uccidere”, ma anche non causare sofferenza fisica o morale a nessun essere vivente, che sia attraverso i pensieri, le parole o le azioni.
[24] La Sicilia vista dallo spazio. Tutti gli scatti di Luca Parmitano, in “La Repubblica Palermo”, 4 settembre 2013.
https://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/09/04/foto/la_sicilia_vista_dallo_spazio_tutti_gli_scatti_di_luca_parmitano-65847227/1/#1.%20%20Fonte:%20https://le-citazioni.it/argomenti/faro/
[25] Earth Moving, (1989), è un album del musicista britannico Mike Oldfield.
[26] A. Bonito Oliva, Segno, in AA.VV, Al Faro, Svimservice, Bari 1997.
[27] Quando il faro indica la meta del viaggio, il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015, https://st.ilsole24ore.com/art/viaggi/2015-07-16/quando-faro-indica-meta-viaggio-150843.shtml?uuid=AD6iq09
[28] Tra i vari romanzi: L’isola del tesoro (Treasure Island) del 1883 e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde), del 1886.
[29] G. M. Griffa, I fari degli Stevenson, Edizioni Nuages, Milano 2005.
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Laura D’Alessandro, ricercatrice, è laureata in Sociologia, presso Università La Sapienza di Roma e ha conseguito un Master in Cittadinanza europea e integrazione euromediterranea: i beni e le attività culturali come fattore di coesione e sviluppo (Università Roma Tre). Ha pubblicato il saggio Mediterraneo crocevia di storia e culture. Un caleidoscopio di immagini, 2011 (ristampa 2016), sui tipi di L’Harmattan. Ha collaborato con riviste e periodici.
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