Al giovane Antonino Buttitta che negli anni cinquanta in un incontro a Firenze chiese a Piero Calamandrei perché si fossero dimenticati di inserire nella Costituzione la lingua italiana come lingua della Repubblica, il grande costituzionalista rispose con un lieve sorriso di comprensione che sarebbe stato un grande errore, una inammissibile discriminazione, l’imposizione di una lingua ufficiale in un Paese dalla storia policentrica e dal ricco pluralismo linguistico, anche per la presenza di numerose minoranze etniche e culturali. L’antropologo siciliano, convinto che bisognava superare il concetto romantico dello Stato come Nazione, ricordava quell’insegnamento ogni qualvolta si tentava di introdurre nella legislazione italiana modelli prescrittivi degli usi linguistici o addirittura modifiche costituzionali per affidare magari a qualche organismo ministeriale la difesa “patriottica” dell’idioma nazionale.
Dialoghi Mediterranei ha promosso un partecipato dibattito – che continua anche in questo numero – sulla questione degli anglismi che imperversano in modo spesso pervasivo e irritante nella comunicazione pubblica, mediatica e istituzionale. Se da un lato con Buttitta e la gran parte dei linguisti riteniamo che sarebbe pericolosa e velleitaria la proposta di legge presentata qualche settimana fa in Parlamento per il riconoscimento in Costituzione dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica, dall’altro i neofascisti non ci impediranno di sostenere e ribadire le ragioni politiche e culturali da cui muove la battaglia di idee per l’uso più consapevole e più educato della lingua italiana. «La lingua va dove vuole – ha scritto anni fa Umberto Eco – e non bisogna imporle nulla, ma non bisogna neppure darle dei cattivi esempi, specie quando titillano certe tendenze esterofile di matrice kitsch». Non poteva essere detto con maggiore chiarezza. Non abbiamo certo bisogno di vocabolari o di grammatiche di Stato né di Consigli superiori della lingua italiana, a lungo e più volte evocati o espressamente invocati da alcuni rappresentanti politici o accademici. Se è vero che una lingua nazionale è strumento e cemento di unità, la sua tutela va accompagnata con il più ampio e rigoroso rispetto delle identità linguistiche, tanto più nel tempo della globalizzazione, a fronte di un vasto plurilinguismo generato dall’insediamento degli immigrati e dalla circolazione delle loro lingue che contribuiscono a trasformare e arricchire il paesaggio culturale del nostro Paese.
Non si ispira a nessun modello dirigista o normativo di obblighi e divieti né a teoremi ideologici della lingua pura e unitaria intesa come fonte e vincolo della sovranità nazionale, il progetto di Manifesto che Ugo Iannazzi propone in questo numero, un appello appassionato a intellettuali e persone comuni, affinché condividano riflessioni e azioni collettive per sensibilizzare l’opinione pubblica su queste questioni. «La questione non è l’inglese – scrive Angelo Villa nel suo contributo al dibattito – lingua che la stragrande maggioranza di quelli che ricorrono agli anglicismi non conoscono, ma una stereotipizzazione segnica del linguaggio. Un impoverimento comunicativo che fa molto lingua del comando, del padrone e quindi frettolosa e adialettica. Come le faccine, i cuoricini e altre baggianate del genere». La sua suggestiva lettura psicanalitica della lingua è quanto mai stimolante: il corpo oggi sembra aver sostituito l’inconscio, la crisi del linguaggio è spia della crisi della rappresentazione, dal processo di riduzione della lingua a segni contratti e stereotipati discende l’abuso degli anglismi quale fenomeno più o meno assimilabile a quello degli emoticon.
Si tratta di una pratica – annota Neri Pollastri – che, «oltre a impoverire la nostra proprietà di linguaggio e, di conseguenza, la nostra capacità di argomentare, è ben lungi dall’essere una sprovincializzazione o un’apertura cosmopolita: tutto al contrario, è un asservimento al campanilismo anglofono globalizzato e un depauperamento della diversità linguistica del mondo, che è una delle sue ricchezze in via di progressivo assottigliamento». E in consonanza con questa posizione è il pensiero espresso da Concetta Garofalo che in una prospettiva semiotica osserva: «Atteso che attraverso il linguaggio rispecchiamo noi stessi nelle parole che vengono pronunciate, scritte e lette, ne deriva che nell’uso massivo della terminologia estera si esprime un forte bisogno di adesione ad un mondo che non ci appartiene, che aneliamo, che percepiamo lontano e altro da noi».
Di “inglese immaginario” scrive con arguzia Franca Bellucci che, richiamandosi alla limpida lezione di Tullio De Mauro, si domanda se l’abuso dei forestierismi sia «fenomeno davvero di altra natura rispetto allo sfoggio di citazioni dal latino e dal greco, che pure in genere si ritengono piuttosto segno di soppesata cultura». Indizi in entrambi i casi di opacità del linguaggio e debolezze del pensiero. Cristina Lavinio da linguista precisa che «nella capacità di una lingua di accogliere senza problemi apporti provenienti da altre lingue sta la sua vitalità e ‘sicurezza’» e il crescente asservimento, anche inconsapevole, all’inglese è da ricondurre alla «evidente insicurezza linguistica di tanti italiani, prima di tutto nei confronti dell’italiano stesso». Si finisce così col discutere sull’uso più corretto di chiamare direttore o direttrice la donna che dirige l’orchestra, «senza sospettare minimamente che, in fatti di lingua, sia meglio parlare, piuttosto che di giusto/sbagliato, di scelte (tra le tante possibili) più o meno adeguate all’argomento, al contesto e ai destinatari a cui si parla. E che ci possano essere tante norme d’uso differenti a seconda delle varietà linguistiche in cui una stessa lingua si articola».
Sulla scorta della sua lunga esperienza di giornalista Antonio Ortoleva rileva come la titolazione degli articoli sia oggi «inzuppata da un’infinità di parole inglesi ritenute irrinunciabili dalla linea editoriale vincolata alle leggi del mercato e della pubblicità» e aggiunge quanto sia paradossale che «nel Paese dove è meno diffusa la conoscenza delle lingue straniere si usino più termini inglesi che altrove». Da qui l’importanza dell’educazione, dell’istruzione, della formazione. «Il vero vaccino contro la propagazione e il contagio dell’inglese o di qualsiasi altra lingua straniera – scrive opportunamente Mariano Fresta – non può essere che la scuola: una buona scuola in cui ci siano insegnanti scientificamente preparati (e ben pagati), aule, laboratori e palestre come si conviene». Dove si impari un buon italiano contro «l’infame burocratese, anche questo scambiato, come l’inglese, per simbolo di modernità e per raffinato linguaggio». Un buon inglese contro quello «imparato “ad orecchio”, attraverso le canzonette, i film, la televisione, Internet…. il gergo di chi vuol sentirsi aggiornato e moderno, di chi imita acriticamente il chiacchiericcio dei salotti televisivi, di chi in possesso di questo inglese orecchiato si è avventurato a parlare di Rinascimento in terra saudita».
Nessuna Crusca o Alto Istituto di sorveglianza politica può dunque imporre direzioni o prescrizioni alla lingua ma la scuola può e deve aiutare a riflettere sui suoi usi impropri, per mettere un freno alla sciatteria, all’omologazione, alla pigrizia, al conformismo della moda. E gli intellettuali in questo contesto – accogliendo l’appello di Francesco Faeta – sono chiamati non solo a osservare e registrare il fenomeno ma anche a spiegare e denunciarne le cause e le rovinose tendenze alla frase fatta, all’importazione acritica di parole straniere, all’approssimazione ortografica, alla rarefazione lessicale, agli spasmi della sintassi. La lingua, si sa, è la “casa dell’essere”, per usare le parole di Heidegger citate da Alberto Giovanni Biuso, e «si abita in essa esattamente come si vive un corpo». Ecco perché le questioni linguistiche sono questioni eminentemente politiche. «La lingua – chiarisce Biuso – non è uno strumento poiché essa è un mondo di significati, di riferimenti, di memorie, di attese. Ritenere che esprimersi in una lingua piuttosto che in un’altra, in uno stile piuttosto che in un altro sia un gesto neutrale è dunque un’ingenuità epistemologica ed esistenziale. È infatti certamente possibile passare da un codice linguistico a un altro ma è chiaro che questo significa cambiare ogni volta l’orizzonte sia concettuale sia esistenziale nel quale siamo immersi».
Una nuova politica culturale pertanto non può non passare attraverso una riflessione sulla lingua, a cominciare dal linguaggio accademico che Faeta, nel suo intervento su Dialoghi (n. 47, gennaio 2021), ha definito «un idioletto idoneo a garantire di per sé l’appartenenza a una consorteria». E al dibattito da lui promosso sul ruolo dell’antropologia nella costruzione di una possibile società postpandemica intervengono in questo numero tre giovani studiosi uniti nel denunciare gli equivoci e le storture delle poetiche del ricominciare. Linda Armano identifica nel fenomeno Covid quel confine simbolico che, come l’11 settembre di vent’anni fa, segna per il mondo occidentale un prima e un dopo nel sistema di conoscenze della modernità. Giovanni Gugg, nell’interpretare l’epidemia come «un’opportunità per trasformare il rapporto tra scienza e potere, tra ricerca e politica, tra cultura registrata e cultura prodotta», rimette al centro la funzione pubblica, sociale e civile dell’antropologia che non si limita a studiare le culture ma “fa cultura”. Giuseppe Sorce, infine, affida alla scuola il compito di contribuire a destrutturare quelle gerarchie della produzione e della comunicazione culturale criticate da Faeta, a partire dai temi sociali delle migrazioni, dell’emergenza rifugiati, del sistema dell’accoglienza, dei diritti delle prime e seconde generazioni che «la crisi della pandemia – scrive – non ha spostato di una virgola».
Su questi temi, da sempre centrali nelle pagine di Dialoghi Mediterranei e purtroppo drammaticamente attuali nelle cronache, questo numero contiene numerose ricerche e riflessioni su memorie di esperienze passate (in Gran Bretagna: D’Angelo, Pittau, Ricci; in Canada: Lombino; in Libia: Sorgi) ma anche e soprattutto sulle angustie della contingenza pandemica che aggravano la condizione dei migranti, sui respingimenti, sugli accessi interdetti e sui diritti negati. Giulia Rieti descrive il dramma di quanti tra nordafricani e subsahariani si trovano intrappolati tra Ceuta e Melilla nella totale insicurezza sanitaria. Paolo Attanasio e Giovanni Cordova aprono un dibattito sulla riforma della legge di cittadinanza, di cui condividiamo l’esigenza e avvertiamo l’urgenza. Attanasio che pone correttamente la questione nel contesto di una politica rifondata dell’immigrazione, di un nuovo modello inclusivo di società, segnala, tra l’altro, l’attuale norma discriminatoria che prevede la revoca della cittadinanza, una volta ottenutala, una ulteriore e poco nota clausola vessatoria nei confronti degli immigrati. Cordova ragiona sulle eredità di tipo coloniale che persistono nella legge di ‘concessione’ di questo diritto costituzionale fondamentale: «per accorgersene – scrive – basta recarsi in una Questura italiana», per scoprire che dietro la burocrazia si cela non solo «il guazzabuglio di codicicchi, prassi, formalità e arbitrarietà di funzionari indisposti, un amalgama indecifrabile ai più e dotato di ingarbugliata autoevidenza; ma anche una solida cosmologia, atta a respingere e demarcare ‘noi’ dagli ‘altri’ in processi formali su cui vengono foggiate appartenenze ed esclusioni».
Sull’appello a riformare la legge Dialoghi Mediterranei s’impegna a raccogliere nei prossimi numeri interventi e proposte, ragionamenti sullo ius soli o ius culturae, risposte convincenti agli interrogativi di Maria Rosaria Di Giacinto che si chiede «che ritorno possa avere mantenere al di fuori della soglia di vivibilità donne e uomini che donano il proprio contributo al mondo. Che presente e che futuro si prospettano all’umanità facendo di soggetti irrinunciabili, rumore di fondo relegato ai margini della visibilità? Che società si costruisce facendo dell’in-visibilità una in-influenza?». Occorrerà pure cercare soluzioni logiche ai dubbi di Cinzia Costa che scrive: «Mi sono chiesta cosa mi rende simile ad un ricco imprenditore lombardo di terza età, e cosa invece, in base alla definizione comune, dovrebbe distinguermi da un’adolescente di origine straniera che frequenta la scuola dietro l’angolo di casa mia, che non è formalmente riconosciuta come “italiana”».
Aporie, incongruenze e contraddizioni che ribadiscono e rivelano la crisi profonda dei diritti sociali e civili nel nostro Paese, dove, nel deficit della coscienza pubblica e nell’ignavia della rappresentanza politica, si finisce col metterli in contrapposizione tra loro pur di non riconoscerli o estenderli. Così è per quanto riguarda i fenomeni di omofobia e di bullismo, di cui scrive, con lucide argomentazioni critiche rispetto alle posizioni attardate della Chiesa cattolica, Fabio Franzella. Così è per quanto riguarda la diseguaglianza dei generi e la legittimazione dell’autodeterminazione del corpo della donna su cui ha ragionato Laura Sugamele ricostruendo le esperienze storiche delle suffragette.
Di diritti calpestati e di testimoni della libertà del pensiero critico scrivono altri autori in questo complesso ed eclettico numero di Dialoghi Mediterranei. Si ricordano eminenti personalità da poco scomparse: gli antropologi Paul Rabinow, che aprì «lo sguardo sul retroscena dell’esperienza antropologica, facendo entrare nella monografia di campo l’aria della vita quotidiana, della casualità degli incontri, dell’infondatezza di modelli scientifici nel racconto dell’altro» (Clemente) e Marshall Sahlins che è stato «il protagonista di tutti i cambiamenti dell’antropologia mondiale dagli anni ‘60 ai nostri giorni» (Giancristofaro); nonché il teologo Hans Küng che ha oltrepassato «le Colonne d’Ercole della teologia per farla navigare nell’immensità oceanica delle relazioni con tutte le dimensioni antropologiche» (Di Simone). Si partecipa alle celebrazioni del settimo centenario della morte di Dante con tre originali contributi (Pioletti, Sarica, Todesco) che illustrano le ascendenze, le influenze e le risonanze anche popolari della sua immensa opera poetica. Resta attento e puntuale lo sguardo sempre diverso dai canoni convenzionali sulla letteratura, sulle tradizioni orali, sull’arte e sul Mediterraneo nella sua amplissima latitudine geostorica e semantica. Si conferma e si incrementa lo spazio curato da Pietro Clemente nelle pagine di “Il centro in periferia”: un vero e proprio laboratorio di idee, progetti, esperienze intorno ai temi dei piccoli paesi e delle aree interne, alle criticità dello spopolamento e alle potenzialità di uno sviluppo legato alla valorizzazione dei musei civici, dei riti festivi, degli antichi mestieri artigianali, dei movimenti spontanei e forme nuove di partecipazione e associazione, delle reti di comunità, del turismo rurale, del patrimonio riscoperto di beni comuni.
Vale la pena leggere il racconto di Nicola Grato, la sua storia di vita, la sentimentale e sofferta testimonianza della sua “restanza”. «Restare in paese – confessa – significa soprattutto battersi quotidianamente contro lo scoraggiamento e la voglia di fuggire, e credere fermamente che i paesi possano cambiare, coltivare la fedeltà senza la quale non può esistere conoscenza e conoscenza dei luoghi soprattutto. (…) Nel piccolo paese nel quale abito si possono sentire le voci delle persone e ogni voce ha ancora un carattere; posso guardarle negli occhi queste persone, discutere coi loro figli a scuola, chiedere sempre senza mai pensare di avere risposte preconfezionate da offrire in pasto». E in contrappunto a questa idea di paese – un’immagine priva di bucolica e romantica retorica – sarà bene riflettere sull’analisi che Tommaso India propone sulla situazione emergenziale e annosa dei rifiuti, sui modelli operativi economici e culturali sottesi alla loro gestione. «Vivo in una città in cui, a parte alcune zone lustrate per il decoro urbano ad uso e consumo di turisti, si passeggia fra cumuli di rifiuti che cambiano dimensioni nel corso del tempo, ora più grandi e ora meno grandi, in relazione ad eventi, periodi dell’anno, questioni economiche contingenti, improvvise e, solo in alcuni casi, imprevedibili». In quanto segni, parte integrante di tutto un sistema economico e simbolico volto essenzialmente alla perpetuazione di sé stesso, «i rifiuti – scrive India nella sua lettura, tra Marx e Baudrillard, del valore d’uso e di scambio e del feticismo delle merci – dicono molto di più su noi stessi e sul nostro modo di essere-nel-mondo di quanto pensiamo».
Non è forse senza significato che tra i rifiuti possiamo oggi trovare perfino i libri, i vecchi manuali di storia e di filosofia su cui abbiamo studiato, i classici e i vocabolari, dispersi sulle strade di Palermo come ha documentato Nino Giaramidaro nei suoi “Appunti e disappunti”. E disseminate dappertutto sono le mascherine, quel presidio sanitario che ci protegge dal virus ma non dalla nostra cronica incuria. Vi si è imbattuto Carlo Baimonte nella sua passeggiata fotografica lungo il litorale sud est del palermitano, un attento scrutinio per immagini di una realtà che accosta degrado a bellezza. Altri sguardi di altri fotografi su paesaggi urbani e umani ci accompagnano nella vicina Scicli (Trovato) e tra le rovine del Belice (Chetta), nelle lontane terre del Giappone (Ottolenghi), dell’India (Marchisio), nel “Cimitero della Recoleta” di Buenos Aires (Bizzarri, Clemente), nell’affascinante atmosfera della saudade di Lisbona (Taddei) e nell’ancor più remoto villaggio dell’Uzbekistan dove si pratica un antico e spettacolare gioco equestre (Manfredi). Tra gli altri contributi c’è spazio anche per un lavoro metafotografico che ci conduce dentro la camera oscura per la stampa delle opere di Letizia Battaglia destinate ad una mostra (Nastasi).
Ancora una volta la fotografia d’autore chiude il fascicolo di Dialoghi Mediterranei, un’antologia che non è mai orpello ornamentale ma documento, memoria, racconto, testimonianza, denuncia, epifania. Un album di emozioni e di suggestioni ma anche di riflessioni nella duplice accezione di rispecchiamento e di ragionamento. Un repertorio di fotogrammi che dialogano con la scrittura, di parole che diventano immagini.
Tuttavia un’altra fotografia – terribile e potente – ha fatto irruzione in mezzo alle nostre banali giornate affaticate tra chiusure e aperture. È ancora davanti ai nostri occhi, approdata a noi come drammatica risacca dalle cronache recenti di un ennesimo naufragio. Non riusciamo a rimuoverla, a cancellarla. Richiama altre immagini di altri naufragi, di altre stragi, di altra ecatombe. Notifica uno scandalo, una vergogna, una tragedia. Ma come quelle immagini che hanno commosso e straziato anche questa è destinata ad essere dimenticata, quando presto precipiterà nel mare della nostra indifferenza o della nostra rassegnazione, nel collettivo e definitivo naufragio della nostra cattiva coscienza.
«Che i corpi scompaiano e si rendano invisibili, che nulla rimanga delle loro speranze e delle loro esistenze, dei loro nomi e delle loro storie, fa ancora più debole la nostra capacità di indignarci, più arrendevole e inconsapevole l’assuefazione all’orrore dello scandalo. Per quanto tempo ancora dobbiamo scrivere di stragi e desaparecidos, di foibe e genocidi incredibilmente consumati in piccoli tratti di mare che separano i luoghi di guerra e di fame da quelli identificati con il benessere, la libertà e le opportunità? Quanti morti ancora dovremo sacrificare sull’altare delle inerzie e inettitudini di governi, istituzioni e organismi europei? Quanti pellegrinaggi di pietà e dolore in mezzo al fango dei campi e delle trincee dei profughi sopravvissuti dovrà compiere il Papa prima che sia finalmente fermata “la catastrofe umanitaria più grande dopo la Seconda Guerra Mondiale”?».
Così scrivevamo esattamente cinque anni fa nell’editoriale di Dialoghi Mediterranei del primo maggio 2016. Così potremmo ripetere ancora oggi. Parole che ci dicono del totale fallimento della politica, della sconcertante insensibilità di un intero continente!