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Ripensare la pandemia: malattie, emergenze e ‘veggenti’ fra antichità e modernità

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Michael Sweerts, La peste in una città antica, 1652

di Andrea Guasparri e Pietro Li Causi [*]

1. Il canone scolastico e il suo revival mediatico nella fase proto-pandemica

Prima dell’emergere della pandemia da COVID-19, generazioni di studenti liceali si sono da sempre cimentate, più o meno distrattamente, con un piccolo canone di testi scolastici che comprendeva riferimenti a disastri analoghi che fino a qualche tempo fa sembravano distanti da noi anni luce.

A pensarci bene, la storia della letteratura occidentale comincia proprio con una pandemia. È con la pestilenza inviata da Apollo nelle file dell’esercito acheo che ha inizio l’Iliade [1]. Pensiamo poi alla pestilenza che investe la città di Tebe, contaminata dal crimine nefando del proprio sovrano, Edipo, che ha violato i vincoli di natura uccidendo suo padre, sposando sua madre e generando, con lei, dei figli-fratelli [2].

Ma ci sono anche, come vedremo, i racconti più o meno ‘laici’ di epidemie il cui plot non prevede più l’intervento di divinità come causa dei mali. Stiamo parlando, ad esempio, del secondo libro de La guerra del Peloponneso di Tucidide sulla peste ad Atene, cui lo stesso autore è sopravvissuto, o anche del sesto e ultimo libro del De rerum natura di Lucrezio, che traduce in versi latini il resoconto tucidideo, inquadrandolo all’interno della cornice teorica dell’atomismo di Epicuro. Per finire, se proprio vogliamo citare anche un caso in cui una pandemia non ha compiuto il salto di specie da animali a umani, possiamo anche aggiungere a questo piccolo canone in voga nei licei il terzo libro delle Georgiche di Virgilio, che racconta, dialogando a distanza con Lucrezio, la pestilenza del Norico [3].

Prima del COVID-19, questi testi erano stati trattati come meri oggetti letterari. Tuttora i manuali scolastici, in genere, raccontano qualcosa della vita e della produzione dell’autore e lo inseriscono nel contesto storico-culturale di riferimento; dopo di che, propongono una selezione antologica le cui note a piè di pagina abbondano di osservazioni linguistiche e stilistiche. Come tradurre al meglio la tale espressione? Che figure retoriche vengono impiegate nei versi tali e talaltri? In genere, l’analisi dei brani si ferma qui: la pandemia viene al massimo trattata come un topos di cui si esplorano le varianti, senza chiedersi che tipo di esperienza sconvolgente possa esserci stata dietro il racconto di mali che si manifestano come incontrollabili e insanabili, senza interrogarsi sui traumi collettivi che possono aver generato, anche a distanza di secoli, nei Greci e nei Romani, senza alcun riferimento, insomma, a una qualsivoglia antropologia della paura. La nostra generazione, del resto, è cresciuta con il mito dell’onnipotenza tecno-scientifica, e per lungo tempo – se escludiamo l’eccezione degli anni della scoperta dell’AIDS – non è neanche riuscita a concepire il terrore atavico che l’emergere di una nuova malattia può inoculare in un’umanità indifesa ed esposta [4].

È stato in occasione del primo lockdown che il canone scolastico dei testi pandemici dell’antichità è tornato in voga, con tutto un fiorire di articolesse che ci hanno spiegato come fosse possibile trarre un qualche utile dalla lettura di quei cari vecchi classici che ritornavano attuali. Allora, per la prima volta ci si è cominciati a interrogare non soltanto sullo stile e la lingua, ma a intravedere anche squarci di terrore e sofferenza reali dietro il velo delle pagine dei brani antologizzati per le scuole. Come osservato altrove, l’uso di queste letture è stato prevalentemente ‘indiscreto’, nell’accezione che Maurizio Bettini ha dato all’aggettivo [5].

Giornalisti e scrittori e, quel che è peggio, antichisti si sono cimentati nel compito non troppo arduo di mostrare che in fondo era proprio di noi che i Greci e i Romani parlavano quando parlavano delle loro pandemie: anche loro avevano cercato il paziente zero, anche loro erano stati alle prese con malattie che, sia pur passando dall’Egitto, erano venute dal lontano Oriente, anche i loro specialisti erano stati in ambasce nella ricerca delle cause – divine o naturali che fossero –, anche i loro medici non avevano saputo come curare il male che dilagava, anche loro avevano descritto con dovizia di particolari i sintomi, anche loro avevano visto lo sconquasso sociale, politico ed economico generato dalla malattia, anche loro avevano assistito impotenti al sovvertimento dell’ordine cui erano abituati, anche loro avevano cercato dei capri espiatori: così come ‘noi’ avevamo incolpato i Cinesi (o gli Americani, o Bill Gates), gli Ateniesi, ad esempio, avevano creduto che a diffondere la peste fossero i loro nemici di sempre, gli Spartani.

Il modello dell’indiscrezione, del resto, come osserva Bettini, si fonda sulla ricerca quasi ossessiva delle analogie. E in pochissimi, a dire il vero, hanno tentato – in quei mesi di marzo e aprile del 2020 – di uscire da questa logica semplicistica, mettendo in rilievo, invece, le differenze. Il punto è che spesso, anche chi ha cercato di porre la giusta distanza storica fra noi e gli antichi lo ha fatto a partire da prospettive per molti versi neopositivistiche.

Ecco, ad esempio, quanto osservato dallo storico Fabio Copani:

«Le differenze sono numerose. I Greci non avevano nemmeno il concetto di cosa fosse un vaccino, noi invece siamo fiduciosi di poter sconfiggere il virus in un prossimo futuro; i nostri Stati sono dotati di un sistema sanitario pubblico (almeno in Europa) e si sforzano di coordinare le cure ai malati; il numero di deceduti in rapporto alla popolazione fu immensamente superiore nell’Atene di Pericle e questo fece dilagare la disperazione: come dice Tucidide, tutti si convinsero che sarebbero morti; ed anche i disordini sociali ebbero un’origine diversa: ad Atene nacquero dalla constatazione che non ci sarebbe stato un domani, e dunque nessuno sarebbe stato punito; al contrario le avvisaglie che si sono avute nelle nostre città sono nate dal disagio economico piuttosto che da un timore per la propria vita»[6].

Insomma, con buona pace dei 500 e passa morti al giorno dell’aprile del 2021, a cui ormai non abbiamo purtroppo più nulla da spiegare, e che non possiamo più rassicurare, con buona pace di un sistema sanitario pubblico devastato da un ventennio di riforme che lo hanno smantellato o depotenziato a favore di aziende sanitarie private non sempre all’altezza, con buona pace dei ritardi nelle campagne vaccinali e delle multinazionali del farmaco che hanno intascato denaro pubblico vampirizzando la ricerca accademica senza ancora condividere i brevetti (se non in casi sporadici e limitati ad alcuni Paesi), con buona pace delle persone che proprio per causa del disagio economico cominciano a temere per la propria vita, noi moderni, secondo Copani, saremmo messi decisamente meglio.

Senza ovviamente misconoscere l’importanza della ricerca scientifica e dei suoi possibili utilizzi umanitari, il vizio di fondo di cui letture di questo tipo sono affette è quello che gli studiosi di eco-critica chiamano ‘cornucopianesimo’, che è, cioè, quel pregiudizio in base al quale dal libero mercato e/o dalle tecno-scienze – le ‘cornucopie’ da cui si presume debba sgorgare a profusione ogni forma di bene – dipendano deterministicamente le magnifiche sorti e progressive dell’umanità [7].

A pensarci bene, tuttavia, sia l’attualizzazione indiscreta che il distanziamento progressivo degli storici rispondevano comunque, già nel marzo del 2020, a un’esigenza comune, che era quella di ‘addomesticare’ il nostro presente preso dallo sgomento. In entrambi i casi, il racconto antico serviva a costruire una trama riconoscibile, a mettere ordine, a dare senso e prospettiva all’angoscia che stavamo – e che stiamo ancora – attraversando. Come, del resto, spiegano bene alcuni antropologi della medicina, in genere costruire trame, narrare le malattie e creare script per le storie di sofferenza può funzionare, soprattutto nel caso di mali incurabili o di patologie croniche e acute, come strumento per conferire all’esperienza una spinta propulsiva, dirigendola verso un possibile significato che aiuti a convivere con l’indeterminatezza [8]. Ma siamo sicuri che ci si possa accontentare di questo? Non è possibile ‘usare’ diversamente i classici?

59saaoswgrvtl0z_1002. Leggere l’epidemia e il clima nel mondo antico: due modelli a confronto

Cerchiamo dunque di ‘sezionare’ il canone scolastico delle pandemie antiche di cui si è parlato nel precedente paragrafo, di trovare dei modelli che ci permettano di ricostruirne non solo delle somiglianze, ma anzitutto delle differenze significative rispetto a ‘noi’, secondo un approccio più classicamente antropologico.

Come si conviene ad ogni discorso fatto per rompere il ghiaccio, partiamo anzitutto dal problema del tempo. Non stiamo parlando (non ancora!) di tempo atmosferico. Il riferimento è alla notazione cronologica, necessaria per non antichisti come i lettori cui questo articolo si rivolge: i testi del nostro ‘canone’ sono non solo lontani nel tempo da noi, ma anche lontani nel tempo tra di loro. E, soprattutto, provengono da due culture a loro volta lontane nel tempo, oltre che nello spazio, come quella greca antica e quella latina. Ma, nonostante queste disomogeneità spazio-temporali apparentemente disarmanti, è vero che, per testi antichi come quelli che costituiscono il corpus che abbiamo inserito nel ‘canone pandemico’ vale anche più che per testi contemporanei il principio del dialogo interstestuale e della non casualità delle analogie (sempre testuali), che emergono dal confronto tra i loro autori.

Insomma, gli autori di riferimento avevano o dovevano avere ben presenti i testi più arcaici e più autorevoli di loro (ad esempio Sofocle non poteva non aver presente l’Iliade, che, com’è noto, i Greci sentivano come uno dei loro testi ‘identitari’), mentre gli autori latini, in virtù del processo di acculturazione greca che caratterizza senza soluzione di continuità la cultura latina fin da Livio Andronico (basti pensare che con la sua traduzione latina dell’Odissea si fa partire la letteratura latina), avevano un’idea precisa non solo nei contenuti ma anche nella successione nel tempo dei testi greci più antichi di loro – sebbene ogni età della storia romana ne mettesse in evidenza aspetti diversi (ciò che naturalmente vale per ogni epoca, anche per noi). Pensiamo solo che i Romani entrano in contatto con la letteratura greca in un periodo (quello cosiddetto ‘ellenistico’) in cui i Greci stessi non solo avevano appena iniziato a ragionare sul problema dell’interpretazione e della trasmissione dei testi (fondando di fatto la filologia), ma addirittura avevano concepito l’idea stessa di ‘canone’ letterario. E questo ci riporta esattamente al modello culturale che stiamo usando anche qui, adesso. Difficile, come si vede, non pensare alle somiglianze tra ‘noi’ e ‘loro’ quando si parla di classici antichi.

Eppure, i modelli secondo cui gli autori greci e, di riflesso, quelli romani, ci presentano le epidemie (e il clima) sono analizzabili secondo una prima categoria che li differenza molto da noi e che emerge immediatamente analizzando i primi due testi del canone: il passo dell’Iliade e quello dell’Edipo Re. Si tratta di un modello che possiamo definire ‘antropocentrico’. In contraddizione (in realtà solo apparente) con l’idea, suggerita dall’etichetta, di ‘mettere l’essere umano al centro’, questo è un modello interpretativo di tipo metafisico, in cui la causa dell’epidemia è rintracciabile, attraverso un mediatore (un sacerdote, un veggente), nella violazione di una norma legata al culto divino ad opera di un ‘mortale’, colpevole, in modo più o meno cosciente, di averla infranta. Nel passo dell’Iliade il colpevole è Agamennone, che si è preso come concubina Criseide, la figlia di Crise, sacerdote di Apollo, rifiutando di darla indietro al padre (che aveva preparato un “riscatto infinito” con cui compensare il re acheo) [9]. Com’è noto, quest’ultimo rifiuta categoricamente, ed anzi insulta Crise, scatenando la vendetta di Febo-Apollo, di cui Crise è sacerdote. Il dio infuria con il suo arco nel campo acheo ed inizia a saettare frecce prima su asini e cani – gli animali più ‘umanizzati’, quelli che condividono non solo gli spazi fisici ma anche affettivi con l’uomo – per poi scatenarsi sugli umani stessi: è la rappresentazione della peste (loimòs) che si abbatte sugli Achei. Colui che porta la cattiva novella ad Agamennone è il sacerdote Calcante, il veggente che chiede protezione ad Achille, sapendo che la notizia della colpevolezza di Agamennone che egli si appresta a rivelare non sarà accolta troppo bene da quest’ultimo. E il motivo chiave del poema – l’ira di Achille verso Agamennone – è pronto per decollare a partire da questo antefatto epidemico. Nel modello ‘antropocentrico’ rappresentato in questo episodio omerico, la malattia appare dunque come operata dal mondo metafisico su quello fisico, per colpa di un colpevole umano, una sorta di ‘paziente 0’ determinabile con precisione; e la sua causa è indubitabilmente rivelata alla comunità da un mediatore dotato di ‘sanzione soprannaturale’, un sacerdote-veggente che vede cose invisibili a noi umani.

Questo stesso modello antropocentrico, causalistico e metafisico, emerge nell’Edipo Re di Sofocle. Di nuovo, la peste si trova all’inizio dell’opera, e di nuovo agisce come il motivo chiave da cui si dipana la tensione narrativa che caratterizza la tragedia di Edipo, il geniale risolutore di enigmi, incapace però di rispondere all’interrogativo più banale, quello relativo al “chi sono io”.

edipo-reLa peste (ancora loimòs nel greco sofocleo) infuria nella città di Tebe, e proprio da quando Edipo ne è divenuto re, sposandone la regina, che era rimasta vedova ‘consolabile’. Sarà dapprima un sacerdote anonimo ad introdurre il tema dell’epidemia, invitando Edipo alla scoperta della causa e alla risoluzione del problema. Poi sarà l’altro gran veggente del mito greco, Tiresia (cieco nella realtà fisica ma capace di vedere quella metafisica della volontà divina e del tempo che verrà) a svelare, in termini ambigui per Edipo, che il colpevole dell’infrazione dell’ordine umano che ha scatenato la punizione epidemica prodotta dagli dèi è proprio lui. Senza saperlo, egli ha infatti infranto tutti i divieti più estremi (quello dell’incesto, quello del parricidio) da cui le comunità umane devono guardarsi maggiormente se vogliono sopravvivere. Per estirparne il male bisogna estirpare l’impuro: ma chi sarà? La soluzione a questo interrogativo è quella che Edipo, l’enigmista, dovrà trovare, con le terribili conseguenze che sappiamo. Se questa versione del modello antropocentrico che caratterizza le rappresentazioni più antiche delle epidemie sembra un puro doppione di quella omerica (il dio vendicatore, il colpevole, il veggente, etc.), ci sono però degli elementi in più. Il morbo epidemico è anzitutto descritto in termini che anticipano il legame con il clima che ritroveremo più chiaramente negli altri testi del canone. Il primo sacerdote (anonimo) descrive infatti la terribile pestilenza che svuota la città come un «dio portatore di fuoco» (purphóros theós), sanzionandone non solo l’ascendenza divina, ma il legame con il calore [10].

Il racconto dell’epidemia di peste che ritroviamo in Tucidide è il primo dei testi del nostro canone che inseriremo nel secondo modello di costruzione culturale dell’epidemia: il modello ‘naturocentrico’ (ovvero, più accademicamente, ‘fisiocentrico’). Al contrario del modello precedente, infatti, in questo caso non solo l’origine del morbo è sconosciuta, ma essa è reperibile nella natura stessa, che sviluppa i suoi fenomeni indipendentemente dalle sorti di chi ne è parte, quindi anche degli umani. Un modello laico, non causalistico ma casualistico, che risponde alla logica secondo la quale i morbi possono scatenarsi in ogni momento senza che le loro cause abbiano a che fare con gli esseri umani.

Tucidide parla della peste che colpisce Atene poco dopo l’inizio della seconda guerra del Peloponneso (431-404 PEV [11]) per esperienza, avendola avuta egli stesso, come ci dice. Così, lasciando ad altri il compito di individuarne le cause, si dilunga nella descrizione dei sintomi. La peste scaturisce in estate, e l’arsura delle membra febbricitanti è uno degli elementi caratterizzanti, anche se non l’unico, che emergono nel racconto:

«La parte esterna del corpo non era particolarmente calda al tatto […] ma dentro il fuoco era così forte che le vittime non potevano sopportare di indossare nemmeno i vestiti e le stoffe più leggere, ma dovevano andare nude e ottenevano il massimo sollievo immergendosi nell’acqua fredda»[12].

tuciditeLa pestilenza riesce a disintegrare le forme più elementari del vivere comunitario, a cominciare da quelle cultuali: non solo colpisce tanto le persone pie quanto i miscredenti, ma anche le forme rituali, dalle preghiere ai funerali, sono ritenute inutili e piombano nel caos, così come la medicina, che nulla può (e i medici, peraltro, sono i primi a morire)[13].

L’altro autore che segue, nel modello naturocentrico, è Lucrezio, che riprende in latino il racconto di Tucidide ponendolo proprio alla fine del suo poema didascalico (e dottrinario) sull’epicureismo ed i suoi innegabili vantaggi per chi voglia intraprenderne la via [14]. L’episodio della peste in Atene funziona infatti come esempio al contrario (per Lucrezio, se così possiamo dire, questo è ciò che succede a chi non applica a sé il sistema di mindfulness proposto da Epicuro) [15]. Come ci aspettiamo, appunto, da un seguace di Epicuro (e quindi, di Democrito), in Lucrezio c’è l’idea laica della casualità dell’epidemia, oltre che quella della sua ‘naturalezza’. La descrizione del filosofo romano esalta, ancor più di quella tucididea, le orrifiche conseguenze della peste sia sulla comunità che sugli individui (sintomi terribili, inutilità di medici e religione, la paura della morte che domina sugli individui, etc.). Tutti gli elementi del modello naturocentrico della malattia sono ben evidenti. Ma è ancora più interessante per noi il modo in cui Lucrezio, senza introdurre una causa all’epidemia, ce ne dà tuttavia una traccia nel termine che usa per definirla dal punto di vista fenomenico: aestus ‘soffio caldo’. Si tratta di nuovo di un elemento legato al calore nell’ambito degli eventi atmosferici, all’idea naturocentrica che, se non c’è una causa rintracciabile della peste, essa si possa pensare comunque secondo una polarità sicuramente ricorrente nel Mondo Antico, come quella di ‘caldo’ opposto a ‘freddo’.

Questo stesso trattamento del morbo epidemico si ritrova nel libro terzo delle Georgiche, dedicato all’allevamento degli animali domestici, in cui Virgilio paga un tributo al maestro epicureo trasponendo la descrizione della peste dagli umani agli altri animali. Si presentano di nuovo tutti i tratti del modello naturocentrico e, di nuovo, compare il termine aestus e, ancora più esplicitamente, in relazione ad eventi climatici: qui aestus definisce il caldo «frutto di una stagione malata» da cui è sorto il morbo e di cui il tempo atmosferico «ha bruciato per tutto un autunno»[16].

3. L’approccio fisiocentrico: il clima e l’olismo climatico-ambientale

A questo canone scolastico si potrebbe aggiungere un testo meno citato ma, per la nostra rapida rassegna su epidemie e clima nel mondo antico, particolarmente illuminante e riassuntivo del secondo dei due modelli appena visti, quello naturocentrico. Il fatto che il brano in questione sia tratto da un manuale pratico di un erudito come Varrone (il padre spirituale di Plinio il Vecchio, l’erudito romano a noi più noto) lo rende anche più rilevante sul piano antropologico. All’inizio del suo trattato sulla gestione della campagna (De re rustica), Varrone parla della necessità che la villa si trovi in un luogo sano, altrimenti l’agricoltura diventa un gioco d’azzardo per chi la sceglie come forma (redditizia) di sostentamento. Se non è così, «questo rischio può essere diminuito dalla scienza, perché, ammesso che la salubrità, essendo un prodotto del clima e del suolo, non sia in nostro potere ma in quello della natura, dipende comunque molto da noi, perché possiamo, con la cura, diminuirne gli effetti negativi»[17].

Se queste parole rendono subito evidente, com’era da aspettarsi, che il modello in cui inserire Varrone è quello naturocentrico, ancora più chiaro è il collegamento della malattia al clima, e in particolare al calore, in quel che segue: «se, a causa del clima, il terreno è troppo caldo o il vento non è salùbre, questi difetti possono essere alleviati dalla scienza e dalla spesa del proprietario»[18]. Dopodiché, è l’autore stesso a ‘citarsi addosso’ come esempio di attore del cambiamento climatico (in senso positivo) e di estirpatore dell’epidemia:

«Il nostro amico Varrone, quando l’esercito e la flotta erano a Corcyra e tutte le case erano affollate di malati e di morti, dopo aver tagliato nuove finestre per far entrare il vento del nord e chiudere fuori i venti infetti, ed aver cambiato la posizione delle porte e altre precauzioni dello stesso tipo, non ha forse riportato in buona salute i suoi compagni e i suoi servi?»[19].

h-3000-varron_marcus-terentius_libri-de-re-rustica-m-catonis-m-terentii-varronis-m-iunii-moderati_1529_1_46953Torna, come si vede, l’idea sofoclea dell’epidemia che si spande come un vento caldo e la buona pratica (molto familiare in tempi di COVID-19) del tenere aperte le finestre, con la differenza che per Varrone bisogna farlo dal lato nord, quello freddo ma sano. Il passo di Varrone fa pensare che per gli antichi ci sia qualcosa in più nel legame tra clima e malattia, qualcosa di molto diverso da idee medico-popolari a noi familiari sul passaggio repentino dal caldo al freddo e viceversa (il fatto che, ad esempio, stare esposti al freddo o alle correnti fredde faccia venire il raffreddore o che – ci dicevano nonne come la mia – «non bisogna bere acqua di frigorifero quando si è sudati»). Questo qualcosa in più e di diverso doveva essere radicato, così come le credenze delle nonne appena citate, nei saperi comuni condivisi sia di persone pratiche e colte come Varrone che in quelli del contadino della Marsica o della Gallia Cisalpina, cólto allo stesso modo ma di una cultura non libresca, bensì – come quella che più interessa gli antropologi – basata sulle tradizioni.

L’idea, infatti, di una scienza separata dal sapere popolare non fa parte dell’universo sapienziale antico ed è una nostra, spesso insana, traslazione culturale [20]. Tornando alle basi dell’idea climatico-epidemica di Varrone, esse ci vengono esposte dall’erudito romano stesso in una parte del passo del De re rustica appena citato. Un attimo prima di scegliere, senza falsa modestia, se stesso come exemplum di buon estirpatore di epidemie, Varrone aveva attinto dal suo canone medico citando nientemeno che l’esperienza pratica di Ippocrate, il fondatore della medicina greca:

«La situazione degli edifici, la loro dimensione, l’esposizione delle gallerie, le porte e le finestre, sono questioni della massima importanza. Il famoso medico Ippocrate, durante una grande pestilenza, non ha forse salvato con la sua abilità non una fattoria ma molte città?»[21].

Ed in effetti Ippocrate (420 PEV) viene considerato il fondatore del cosiddetto determinismo climatico occidentale (e della socioecologia) secondo l’idea che il clima influenzi il ‘modo di essere’ delle culture umane [22]. Ippocrate, anche alla luce della teoria umorale a lui attribuita e del ruolo fondamentale che vi giocano caldo e freddo, ha etnocentricamente generalizzato sul fatto che i Greci, al centro del mondo mediterraneo, dovevano essere in qualche modo migliori di altri popoli visto quello che avevano fatto; ed il perché del loro successo era dovuto anche a cause naturali come il clima e le sue influenze su arie, acque e luoghi, come recita il titolo del trattatello ippocratico che pone le basi di questo paradigma. Al contrario dei popoli Asiatici, fiaccati dalle condizioni troppo favorevoli e dal caldo eccessivo, e di quelli del nord, troppo provati dal controllo di un territorio e di condizioni climatiche ostili, i Greci si trovavano a metà, in equilibrio; cosa sempre positiva, questa, soprattutto per un Greco antico.

Ma questo è solo un esempio degli effetti del clima sulla gente. Infatti, il trattatello è soprattutto un vademecum di medicina olistica, dedicato ai medici itineranti che, quando la sapevano davvero lunga, potevano trovarsi in grado di predire non solo la natura delle persone, ma anche le malattie e le loro cause più comuni in una determinata zona semplicemente considerando fattori climatici (acque, arie, ecosistemi). Non stupisce che, nel periodo storico in cui ci troviamo, il trattatello attribuito ad Ippocrate sia tornato ad essere molto popolare. Sia perché Ippocrate – e qui un enorme mutatis mutandis è d’obbligo – dimostra un approccio olistico al tema della salute (la malattia come segno di una disarmonia tra elementi del corpo che va ribilanciata), sia perché questo olismo può essere facilmente trasferito, soprattutto dal lettore moderno, alla terra stessa come organismo che tutto tiene e che da tutto (arie, acque, terre, luoghi, piante, animali, rocce, terreni, etc.) è tenuta.

L’idea della terra come organismo (la cosiddetta ‘ipotesi Gaia’) che si somma al disastro del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature medie stagionali (ancora è il caldo e non il freddo a portare ‘mal-anni’) sono solo due dei motivi più ovvi per cui Ippocrate ed il titolo del suo trattatello li troviamo oggi citati quasi pervasivamente quando si parla degli effetti diretti ed indiretti del cambiamento climatico sulla salute (cfr. il Lancet Countdown su salute e cambiamento climatico [23], o il ciclo sullo stesso argomento lanciato dalla rivista Harvard Public Heealth [24]). E quando su questo scenario si inserisce anche la pandemia, che al momento in cui scriviamo stiamo ancora vivendo, è difficile resistere alla tentazione di non utilizzare i classici almeno per dialogare con loro, come si è sempre fatto: in fondo, se non fosse così, non sarebbero tali. Il segreto per mantenerli davvero ‘vivi’, tuttavia, è leggerli per quello che sono, senza doverli per forza attualizzare alla ricerca spasmodica di somiglianze, o, al contrario, enfatizzandone le differenze tra ‘noi’ e ‘loro’ secondo un modello ‘progressista’ (quando non direttamente evoluzionistico-unilineare del tipo ‘selvaggio-barbaro-civile’).

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Plutarco

4. Le nuove malattie e le ‘colpe’ dei malati

Per decenni abbiamo vissuto nel mito dell’inattaccabilità e dell’impermeabilità del nostro corpo di uomini occidentali civilizzati rispetto ai potenziali pericoli della natura e dei suoi cicli evolutivi. È vero che l’AIDS, l’Ebola, la SARS e la MERS avevano già dato qualche scossone alle nostre certezze, ma si trattava ancora di malattie di quelli che erano pensati – e stigmatizzati – come ‘altri-da-noi’: gli omosessuali, le comunità haitiane, gli Africani, gli Asiatici. Nel complesso, abbiamo continuato a credere ciecamente al mito secondo cui la medicina e i sistemi sanitari della nostra fetta di mondo fossero così avanzati che ci avrebbero comunque salvato da ogni minaccia, per poi scoprire che non era così, che nuove pericolose malattie potevano insorgere, eccome; e per poi accorgersi tardivamente che tutta una serie di Cassandre che avevano cercato di avvisarci già per tempo erano rimaste inascoltate [25].

La possibilità che emergessero morbi di natura inedita era già stata oggetto, a dire il vero, di un dibattito che aveva avuto un certo spazio in seno alla tradizione filosofica e medica degli antichi Greci e degli antichi Romani [26]. In questo senso, l’ipotetico canone scolastico che qui si sta tentando di ripensare potrebbe essere ulteriormente allargato ad altri testi che, oltre che sviluppare le capacità di analisi stilistica, possano fare riflettere sulla storia delle idee e sui modelli antropologici di riferimento. Plutarco, ad esempio, riassume i termini del dibattito nell’ottavo libro delle Questioni conviviali (VIII 9, 731 A – 736 B), dove la discussione viene fatta aprire da Filone, un medico amico dello scrittore che osserva che l’elefantiasi è da considerare in tutto e per tutto un male relativamente nuovo. A suo sostegno, lo stesso Plutarco cita uno scritto del filosofo Atenodoro, che a sua volta ricorda come il primo a parlare di elefantiasi e di idrofobia sia stato, nel I sec. PEV, il medico Asclepiade [27].

Il resto dei convitati, però, non sembra convinto. L’orientamento dei più, infatti, è che, poiché si dà per scontato che la natura operi come principio di ordine e stabilità, allora non è possibile che possano insorgere nuove malattie [28]. A dare forza a questa tesi è Diogeniano, i cui argomenti sono essenzialmente i seguenti:

1) una malattia non si può produrre senza causa naturale, poiché, secondo un banale principio di conservazione della materia, a nihilo nihil: la natura non crea nulla dal nulla, e dunque, se non possono sussistere nuove cause, allora non possono insorgere nuove malattie [29];

2) le malattie che sembrano nuove sono in realtà forme acute e parossistiche – mutate in intensità e quantità, e non in genere e qualità – di malattie già note. Semplicemente, noi umani diamo nomi nuovi a malattie vecchie solo perché ci sembrano diverse: l’elefantiasi, ad esempio, è una forma acuta di una semplice affezione cutanea; l’idrofobia è lo stadio parossistico di un’infezione intestinale o della ‘melancolia’ [30].

L’unica possibile eccezione al punto 1, secondo il filosofo, sarebbe quella ipotizzata a suo tempo da Democrito, secondo il quale, poiché i mondi sono infiniti, ogni volta che uno di essi si disgrega, si possono produrre dei fenomeni di irradiazione atomica che colpiscono e infettano gli universi vicini. Si avrebbe, in questo caso, una sorta di invasione extraterreste di ‘ultracorpi’ da cui – con l’introduzione di nuove cause naturali aliene – si potrebbero generare nuove malattie. Della teoria democritea – che potrebbe pure essere apocrifa – si lascia intendere tuttavia che non fa parte dell’orizzonte dei fenomeni esperibili, cosa che di fatto porta Diogeniano a presentarla come un mero legendum che non inficia effettivamente la sua argomentazione [31].

Di diverso avviso è però Plutarco, secondo cui è altamente plausibile che nuove malattie insorgano. Ci sono, anzi, diverse prove che il moralista di Cheronea adduce in merito: un esempio fra tutti è proprio quello della peste di Atene raccontata da Tucidide, che aveva colto impreparati gli Ateniesi del V sec. PEV. En passant, si cita anche l’impressionante ‘morbo eritreo’ – probabilmente la dracunculiasi –, i cui sintomi erano stati descritti con dovizia di particolari da Agatarchide:

«da gambe e braccia sbucavano fuori vermi che consumavano le carni, e, appena si toccavano, si infilavano di nuovo dentro, inviluppandosi nei muscoli e provocando infiammazione e gonfiori insopportabili. E di questa variante del morbo non esiste alcuna testimonianza che si sia manifestata né prima né dopo presso altri popoli, ma solo presso quelli»[32].

L’elenco di Plutarco, da questo punto in poi, si fa sempre più fitto, e i dati di malattie sempre più orribili e paradossali si vanno come accumulando:

«uno che aveva sofferto per lungo tempo di ritenzione di orina espulse uno stelo d’orzo che presentava delle nodosità; sappiamo che Efebo, nostro ospite ad Atene, espulse insieme ad abbondante sperma una bestiolina pelosa, con molte zampe, che camminava veloce; la nonna di Timone, in Cilicia, racconta Aristotele, cadeva in uno stato letargico per due mesi all’anno e non dava altro segno di vita se non il fatto che respirasse; nell’opera di Menone è descritta, come sintomo di malattia epatica, la mania di tenere d’occhio attentamente e cacciare i topi domestici; cosa che ora non si registra da nessuna parte»[33]

La cosa interessante è che, alla fine di questo mirabolante catalogo, Plutarco azzarda qualcosa di simile a un modello evolutivo per interpretare lo sviluppo, nel tempo, delle malattie:

«Si potrebbe supporre – dicevo io – che in un primo tempo si siano manifestate nei corpi tutte quelle causate da qualche carenza, da un colpo di calore o di freddo;  più tardi – responsabile l’abbondanza del superfluo – sarebbero sopraggiunti gli eccessi nel mangiare, la mollezza, il regime di vita sregolato che, accompagnati da pigrizia e ozio, producono molto residuo nocivo, nel quale malattie di specie diverse si incrociano e si mescolano in vari modi le une con le altre, provocandone sempre di nuove . Ciò che è conforme alla natura è fissato e determinato: la natura è ordine o prodotto dell’ordine; il disordine invece, come la sabbia di cui parla Pindaro, “sfugge alla numerazione” e ciò che è contro natura è automaticamente senza definizione e senza limite»[34].

Se in una prima fase della civilizzazione umana le cause delle malattie sono legate alle carenze e alle privazioni cui gli uomini sono soggetti, i morbi contemporanei sono invece tutti dovuti al lusso e all’abbondanza, che generano, come per ibridazione, malesseri sempre più strani. La mostruosità delle nuove malattie è così ricondotta antropocentricamente alla sregolatezza dei comportamenti degli uomini, che violano i limiti imposti dalla natura causando un disordine che si riproduce in combinazioni infinite di varianti [35]:

«Pertanto – conclusi – non c’è ragione, mio caro Diogeniano, di ricercare fuori, in altri mondi o intermondi le cause delle nostre malattie; dobbiamo guardare dentro di noi, perché il cambiamento del regime alimentare basta da solo a far nascere alcune malattie nuove e a farne scomparire altre»[36].

91aipea47lL’idea di Plutarco capovolge per molti versi quanto teorizzato nel trattato ippocratico sulla Antica medicina. Lì, il processo di civilizzazione umana iniziava con la scoperta della cottura e del condimento dei cibi, che aveva differenziato gli uomini dagli animali [37]. Qui, invece, si impone una visione ‘contrappresentistica’ che sostituisce, al mito della durezza delle origini, la narrazione di una sorta di un progressivo peggioramento delle condizioni di vita umane. 

Plutarco, tuttavia, non è l’unico autore di età imperiale che la pensa in questo modo. Prima ancora di lui, anche Seneca, nell’epistola 95, aveva ricondotto l’insorgere di nuove e sempre più acute malattie alla nascita di forme sempre più sofisticate e innaturali di alimentazione: l’abitudine di mischiare vivande e sapori diversi, incompatibili gli uni con gli altri, era, secondo il filosofo romano, alla base della nascita – anche qui, come in Plutarco, per ‘ibridazione’ – di nuove malattie, incostanti nel loro decorso e varie nella loro forma [38]. I cuochi, dunque, e le diete alla moda erano responsabili, per Seneca, del collasso sanitario e della fine della ‘età dell’oro della salute’: innumerabiles esse morbos non miraberis: cocos numera («non ti devi stupire del fatto che le malattie ormai non si possono più contare: conta invece i cuochi!») [39].

Ma anche in ambito romano, Seneca non è solo: anche per Celso, vissuto al tempo di Marco Aurelio, il fatto che la medicina, da simplex che era stata, fosse diventata multiplex, sempre più complessa e sempre meno efficace, sarebbe stato da attribuire al lusso e al rilassamento dei costumi, e sulla sua stessa lunghezza d’onda erano, ad esempio, Columella e Plinio il Vecchio [40]. Come rileva in un suo importante studio del 1991 Elisa Romano, in età imperiale la medicina si era definitivamente trasformata in dietetica, e la dietetica – intesa non come rimedio ai mali, ma come forma preventiva di cura del sé – si era trasformata in un meccanismo biopolitico di controllo dei corpi e di autodisciplina morale [41]. Alla base di queste e di analoghe forme di autocontrollo si può individuare un meccanismo che alcuni antropologi medici individuano come universale, che consiste nella tendenza da parte degli attori di una determinata cultura, a formulare ‘giudizi moralizzanti’ che scaricano direttamente sui malati la responsabilità della loro stessa sofferenza [42].

de-rerumScopriamo cioè che, se per i modelli antropocentrici all’opera in testi come l’Iliade e l’Epipo Re la responsabilità del male sta nelle offese che i singoli compiono contro gli dèi, in fondo, anche i modelli ‘fisiocentrici’ e laici non sono del tutto esenti da analoghe forme di proiezione. Dall’offesa contro gli dèi si passa alle offese contro la natura, e mentre la malattia si configura come una punizione dovuta, come una sorta di giusto contrappasso che ri-calibra il disordine, il malato diventa un reo che in fondo non merita le cure.

Ma il nostro mondo invaso dal COVID-19 è esente da tale tipo di giudizi? In un articolo su Internazionale del 22 marzo 2020, Daniele Cassandro – sulle orme del famoso studio di Susan Sontag sulle metafore dell’AIDS – si era concentrato sui rischi dell’impiego di metafore belliche in piena pandemia [43]. In risposta a Cassandro, in un lungo articolo comparso nel numero 6 di ClassicoContemporaneo, si era rilevato come, ad esempio, il topos della ‘guerra giusta contro gli animali’ fosse invece collegato originariamente all’idea della fragilità umana; un’idea che forse – questa la tesi esposta in quell’articolo – non avremmo fatto poi così male a recuperare [44].

Un post letto su Facebook giorni or sono ci induce, tuttavia, a riconsiderare il punto di vista di Cassandro:

«Siamo in zona arancione e proveniamo dal weekend rosso e nonostante tutto i contagi aumentano. E aumentano anche se i bar sono aperti solo per l’asporto, aumentano anche se i ristoranti sono chiusi, aumentano anche se le palestre, i cinema, i teatri sono chiusi. E continueranno ad aumentare perché il contagio non è causato dai bar, dai ristoranti, dalle palestre. Il contagio aumenta per le teste di c***** che si vedono di nascosto eludendo i divieti, per i ragazzini che si ritrovano in comitiva nelle vie del centro. Quindi trasformare ******* da zona arancione a rossa a poco servirà; cominciate invece a scatenare l’inferno con l’esercito, con controlli a tappeto e lasciate lavorare la gente che deve campare».

L’autore di questo post è un amico, che conosciamo come persona solitamente moderata e dotata di buon senso. Vittima del bombardamento mediatico degli ultimi mesi, e di un disagio che – in quanto venditore – immaginiamo lo colpisca direttamente, ha forse finito per subire – e digerire – il fascino della metafora bellica di cui parla Cassandro. E ha emesso un durissimo ‘giudizio moralizzante’. Il contagio viene letto antropocentricamente come responsabilità degli uomini – e non delle dinamiche evolutive e co-evolutive nelle quali siamo impigliati in termini ecosistemici –, e la ‘colpa’, che al tempo degli antichi Greci e degli antichi Romani era pensata come offesa contro gli dèi e/o contro la natura, viene scaricata da una categoria sociale all’altra: non i negozianti e i venditori, non gli ‘aperturisti’, ma, soprattutto, i giovani; sono i giovani gli untori che, con la loro voglia di vivere e incontrarsi, disseminano il contagio. Contro di loro bisogna scatenare la guerra e l’inferno.

A dimostrare la possibile universalità di questi atteggiamenti ‘moralizzanti’, si potrebbe anche ipotizzare che probabilmente anche Marziale sarebbe stato d’accordo con il nostro amico. Parlando della mentagra, che imperversava al suo tempo, a Roma, fra gli individui di sesso maschile (appartenenti, guarda caso, agli strati più alti della società), se l’era presa con quei basiatores seriali cui è difficile sfuggire quando li si incontra per strada, gente che proprio non riesce ad osservare il distanziamento sociale e deve per forza sbaciucchiarti con le sue labbra appiccicose seminando il contagio [45].

celso15. La ricerca dei rimedi

Posti di fronte alle nuove malattie, anche gli antichi Greci e gli antichi Romani si chiedevano come curarle. Tucidide ci racconta – lo abbiamo già visto – di come gli specialisti ateniesi brancolassero nel buio; la letteratura medica, tuttavia, affrontava il problema da ben altre prospettive. Di fronte alle nuove malattie c’erano due diversi approcci. I dogmatici si sforzavano di individuare le cause e, solo dopo averle studiate e comprese, di formulare un possibile piano terapeutico; i ‘pragmatici’ e gli empiristi, invece, ritenevano incongrua la ricerca delle cause e preferivano curare similia similibus, applicando alle malattie di nuova insorgenza rimedi analoghi a quelli usati per altre malattie note i cui tratti sono stati riconosciuti come non troppo diversi [46].

Questo processo è ben spiegato da Celso nella praefatio del De medicina:

«Perché se accade che insorga un qualche genere non noto di malattia, non per questo il medico si dovrà mettere a teorizzare sulle sue cause, che sono oscure; dovrà invece immediatamente cercare di capire a quale malattia nota sia prossima la nuova malattia, e dovrà tentare rimedi simili a quelli che spesso, in passato, sono riusciti a portare soccorso al male vicino. Per mezzo di tali rimedi simili potrà recare aiuto» [47].

Per Celso, cioè, non intersit quid morbum faciat, sed quid tollat («non importa cosa crei la malattia, ma cosa la elimini») [48], ma soprattutto è importante che il medicus sia amicus, cioè che – secondo un modello ampiamente diffuso in età imperiale – ‘conviva’ con il suo paziente, lo ascolti, ne conosca le caratteristiche peculiari che lo distinguono da tutti gli altri individui, evitando così di generalizzare e applicando il tratto della humanitas e della misericordia [49].  È qui che possiamo trovare gli antidoti a molte delle storture delle cornici di riferimento all’interno delle quali si muove la contemporaneità? Sono questi i rimedi che possiamo applicare per fronteggiare il virus dei ‘giudizi moralizzanti’? E nelle metafore e nelle pratiche della amicitia, ad esempio, che possiamo trovare degni sostituti alle metafore della guerra che avvelenano il discorso pubblico?

La critica recente ha rilevato quanto l’ideale romano della ‘vicinanza’ del medicus fosse in realtà profondamente elitario. Alla base, c’è la convinzione – per molti versi anti-specialistica – che le cure debbano di fatto essere prerogativa di un gruppo ristretto di digni che possono permettersi legami di affetto e di reciprocità positiva con chi dispensa cure passando con loro del tempo sottratto ai multi; un modello, questo che, sia detto per inciso, è in fondo tornato in voga in alcune nicchie dei Paesi occidentali nell’era del capitalismo avanzato: pensiamo ad esempio al caso di un noto cardiochirurgo italiano che è balzato agli onori della cronaca per avere curato dal COVID-19 molti membri del jet set, e che – oltre ad azzardarsi a dire che il virus era clinicamente morto – si è vantato a più riprese, in TV, di essere amico personale di un altrettanto noto pregiudicato ed ex Presidente del Consiglio [50].

Al di là delle apparenti analogie, risulta sempre difficile ‘attualizzare’ davvero il messaggio degli antichi, o svuotarlo – cosa che di per sé sarebbe filologicamente scorretta – dei suoi potenziali doppi fondi. Salvo che in casi sporadici di autori che hanno inteso costruire con le loro opere monumenti più durevoli del bronzo, e che hanno cioè volutamente inteso indirizzarsi ai posteri, molti dei testi dell’antichità non è a noi, del resto, che parlano. Sono i loro problemi che affrontano, è il loro presente che cercano di modellizzare, è nel loro contesto storico che sono significativi. E il compito precipuo del filologo è quello di ricostruire e comprendere quel contesto storico e decifrare i significati adattandoli ad esso. Ma ci può bastare la purezza filologica?

A dire il vero, c’è forse una qualche utilità nei ‘giri lunghi’ che si fanno ogni qual volta che si cerca di parlare del presente attraverso gli antichi. C’è, in fondo, un modo di uscire dalla logica dell’indiscrezione senza tradire la prospettiva ‘emica’ che segna la diversità e la siderale lontananza di certi testi rispetto a ‘noi’. Studiare la cultura degli altri, la trama delle metafore e dei giudizi che avvolge le realtà che essi esperiscono o – nel caso degli antichi – hanno esperito ci abitua, binocularmente, a guardare noi stessi e la nostra cultura da prospettive aliene e inedite. Nel caso della malattia e delle pandemie, scopriamo ad esempio che gli stessi modelli antropologici all’interno dei quali si sono mossi gli antichi Greci e gli antichi Romani, così come quelli all’interno dei quali ci muoviamo noi, possono in fondo essere parte integrante delle malattie e delle pandemie stesse: costruiscono orizzonti di senso, disegnano modalità di vivere e narrare il disagio e la sofferenza, producono forme distintive nei decorsi delle malattie e nei processi esplicativi degli ‘specialisti’, suggeriscono modalità di interazione, fra medico e paziente, fra sani e malati.

Se, come osserva Byron Good, la malattia è universalmente vissuta come una «frattura dell’ordine morale», il lavoro culturale dello studioso, del docente, dell’antropologo, dell’antichista, dell’analista dei processi sociali è proprio quello di capire come viene simbolizzata tale frattura, quali forme di ‘giudizio colpevolizzante’ crea, quali effetti producono le metafore che si impongono nel discorso pubblico e nel senso comune [51].

Se proprio dobbiamo azzardarci a suggerire una metafora alternativa a quella della guerra, potremmo pensare, ad esempio, alla metafora dell’addomesticamento reciproco, che forse è più adatta a descrivere i reali processi co-evolutivi in gioco. In altri termini, anziché immaginarci a combattere un conflitto armato contro un essere ‘quasi-vivo’ e invisibile quale è il virus, anziché fare espandere a macchia d’olio la logica dell’escalation dei conflitti all’interno delle comunità in cui viviamo, e fra gli Stati, potremmo immaginare, in un’ottica sistemica e olistica, che un giorno le varianti del COVID-19 possano variare fino al punto di replicarsi cessando di essere letali o gravemente nocive per gli organismi ospiti. Certo, la scienza – con lo sviluppo dei vaccini e delle cure – potrà accelerare questo processo di trasformazione e ‘addomesticamento’ inter-specifico. Ma, se proprio vogliamo usare una dicotomia in fondo vieta e bugiarda, bisognerà pur ricordarsi che anche la scienza è ‘parte della cultura’ oltre che della ‘natura’, e che a poco serve trasformarla in un feticcio mediatico da agitare come un maglio per colpire e ridicolizzare i ‘miscredenti’; miscredenti che, fra l’altro, proprio per questo, si convincono con forza sempre maggiore delle ragioni della loro blasfemia. E del resto, una scienza infallibile e indiscutibile, che sostituisce la professione di fede al dubbio, alla pratica empirica, al principio della falsificazione, in fondo non è più tale.

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Jane Goodall

6. Quali veggenti?

Alla luce di ciò che abbiamo appena detto sulla scienza come fede e cornice interpretativa della realtà che talora può costruire le opposizioni fra i suoi ‘credenti’ in termini non troppo diversi da quelli della religione, può essere interessante, in appendice, trovare delle analogie (ma sempre sottolineando bene anche le differenze) rispetto ai modelli climatico-epidemiologici messi in luce per il mondo greco-latino. Lo facciamo analizzando due figure di ‘veggenti’ che, in periodo di Covid, hanno detto la loro in modo mediaticamente molto influente. Il modello naturocentrico è quello che, come ci aspettiamo, domina il flusso principale della comunicazione mediatica sul tema. Ma visto che perfino i modelli (come tutto quando si parla di cultura) sono ‘grigi’ e non ‘bianco-neri’, ci aspettiamo che anche quello metafisico-antropocentrico possa affiorare ad ogni momento dal sottofondo del modello laico-naturocentrico (del resto stiamo parlando di ‘veggenti’).

La nostra scelta cade su due naturalisti britannici che da molti anni sono considerati tra i massimi portavoce della battaglia ambientalista. Quasi novantenne l’una, ultra-noventanne l’altro, ma sempre ‘splendidi’ e – beati loro! – attivissimi. Il primo veggente è in effetti una veggente: Jane Goodall, la studiosa che, senza alcuna preparazione accademica in campo biologico, si getta nella foresta africana poco più che ventenne (accompagnata dalla madre) per osservare gli scimpanzé, e quindi scoprire che, contrariamente alle opinioni dell’accademia del tempo, anch’essi sono in grado di utilizzare utensìli (allora il discrimine invalicabile tra umano e animale), che provano sentimenti come il cordoglio e che, insomma, hanno una cultura complessa almeno quanto la nostra [52]. Nel maggio 2020, in pieno primo confinamento pandemico, la Goddall dichiara che la natura intorno a noi, grazie alla nostra ‘assenza’, si è ripresa i propri spazi: l’aria e il cielo notturno, ad esempio, sono tornati puliti e tersi anche nelle nostre città [53].

Per la primatologa britannica sia la pandemia che il cambiamento climatico sono frutto del nostro (in quanto occidentali) modello di crescita infinita, che non risparmia l’uso eccessivo, distorto ed ‘irrispettoso’, degli altri animali [54]. La naturalista sposa la tesi che il virus che ha scatenato la pandemia sia originato dai mercati clandestini, da animali selvatici venduti per il consumo alimentare senza controllo: visto che molte specie diverse sono tenute in gabbie promiscue, altissimo è il rischio che nuove malattie infettive si diffondano e passino a noi. Nelle sue accorate parole («li cacciamo, uccidiamo, mangiamo e traffichiamo»), la Goddall individua con chiarezza un colpevole umano ed indica, con altrettanta chiarezza, la strada da seguire: cambiare le nostre diete e tornare ad un equilibrio che parta sì dal cervello («che abbiamo usato fino a scoppiare»), ma che faccia anche sì che lavori «in armonia con il cuore»[55]. Tra i vari elementi del modello antropocentrico riscontrabili in questa narrativa, il principale consiste nella chiara evidenza che un colpevole dell’epidemia esista, e che, intervenendo su di esso, il problema si possa risolvere.

Rispetto a quanto visto in Sofocle, può essere interessante (e non sto implicando che la Goddall abbia presente il modello sofocleo, ma che tale modello possa essere una ‘permanenza’ o una ‘costante’ del nostro modo di costruire la malattia) il fatto che questo colpevole epidemico sia di nuovo qualcuno che, come Edipo, ha troppa fiducia nel proprio cervello. Come ultimo tratto del modello antropocentrico, la veggente ci indica la strada per pacificarci con la natura, di cui la Goodall si pone come interprete, ma anche le conseguenze per noi se non la seguiamo: «Se non facciamo le cose in modo diverso siamo finiti […] non possiamo andare avanti così molto più a lungo» [56].

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David Attenborough

L’altro veggente esemplare è l’immarcescibile David Attenborough, l’inventore dei documentari naturalistici come li conosciamo (il ‘padre’ dei nostri Piero e Alberto Angela). Naturalista egli stesso, Attenborough, dall’alto dei suoi 95 anni, fa un appello nel febbraio del 2021 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in cui – molto simile a Tiresia, anche per la sua postura tipica, incrementata dall’età, con un occhio aperto ed uno chiuso – ci offre la sua visione del problema pandemico, ma, diversamente dalla Goddall, mettendone in evidenza gli aspetti positivi a margine del problema per lui più importante della lotta al cambiamento climatico [57]. Il suo punto di vista si inserisce con chiarezza nel modello naturocentrico. L’idea di un colpevole dell’epidemia, ad esempio, non viene neanche presa in considerazione. Il colpevole, nella narrazione di ‘Sir David’ (come lo chiamano i Britannici), non appare neppure rispetto al cambiamento climatico. Egli parla semmai – ma anche in questo caso sempre in modo implicito – di ‘responsabile’ non di ‘colpevole’. In particolare, il responsabile non è indicato nella specie umana nel suo complesso ma nel «cammino che stiamo percorrendo (our current path) […] che ci spinge a mettere in dubbio i nostri modelli economici e a chiederci a cosa vogliamo dare valore». Non solo, ma: «la minaccia del cambiamento climatico deve unirci, non dividerci».

Quanto alla pandemia, essa ci può far vedere in anticipo una parte degli effetti negativi (anche in termini di paralisi delle attività umane) su quella che Sir David chiama «la nostra civiltà». Ma soprattutto – quel che più preme ad Attenborough – gli sforzi che stiamo facendo per sconfiggere il virus ci mostrano cosa riusciamo a fare quando lo vogliamo e quando agiamo in modo armonico «come una singola specie globale [..] che agisce nell’interesse di tutti noi». Insomma, il parallelo con Tiresia può riguardare, per Sir David, solo l’aspetto fisico, non certo il modello proposto e gli intenti prefissati, entrambi molto lucreziani. Si tratta, rispettivamente, del modello naturocentrico e dell’uso della pandemia sia come esempio al contrario [58] che come stimolo verso un cambiamento negli stili di vita in grado di innescare una nuova armonia non solo tra di noi ma anche con le altre specie viventi [59].

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
[*] Questo articolo riprende e sviluppa gli argomenti trattati nel corso di una videolezione a due voci tenuta per Palumbo Editore nell’aprile del 2021, intitolata Clima ed epidemie fra antico e moderno. I capp. 2, 3 e 6 sono stati scritti da A. Guasparri; i capp. 1, 4 e 5 da P. Li Causi. La lezione è visionabile al seguente link: https://up.palumboeditore.it/show-details.html?id=28.
Note
[1] Iliade, I: 47-100.
[2] Sofocle, Edipo Re: 22 ss.
[3] Cfr. Tucidide, La guerra del Peloponneso, II 47-54; Lucrezio, La Natura, VI 1145-1286; Virgilio, Georgiche III: 478-566.
[4] Sul tema della fragilità umana di fronte alla natura si vedano, ad es., le riflessioni sul topos della ‘guerra giusta’ contro gli animali trattato in Li Causi 2020a: 67 ss.
[5] Con il termine ‘indiscreto’, Bettini 1995 fa riferimento ad un impiego quasi ‘oracolare’ dei classici, interrogati per dare anacronisticamente risposte a problemi del presente o semplicemente per soddisfare l’immaginario del nostro tempo, azzerando le reali differenze antropologiche in gioco. Più nello specifico, sull’uso ‘indiscreto’ dei classici in era pandemica, cfr. Li Causi 2020b: 1 ss.
[6] Cfr. https://www.athenanova.it/blog/storia-greco-romana/epidemia-oggi-come-nel-430-ac/
[7] Cfr. a tale proposito Garrard 2012: 18 s.
[8] Cfr. ad es. Good 1999: spec. 177 ss. e 207 ss.
[9] Iliade, I 47-100.
[10] Sofocle, Edipo Re: 27-29.
[11] Cioè ‘Prima dell’Era Volgare’, secondo la scansione laica della cronologia storica.
[12] Tucidide, La guerra del Peloponneso, II 49: 5 (traduzione nostra).
[13] Ibidem, II 47: 4.
[14] Lucrezio, La Natura, VI: 1145 ss.
[15] Cfr. ad esempio, Segal 2014: 169 ss.
[16] Virgilio, Georgiche, III: 478-479.
[17] Varrone, La campagna, I 4: 2-5.
[18] Ibidem, I 4: 4.
[19] Ibidem, I 4: 5 (traduzione nostra).
[20] Cfr. French 1994: VIII ss.
[21] Varrone, La campagna, I 4: 4-5 (traduzione nostra).
[22] Siddiqi – Oliver 2006: 333.
[23] https://storage.googleapis.com/lancet-countdown-preprod/2019/10/2018-lancet-countdown-policy-brief-eu.pdf
[24] https://www.hsph.harvard.edu/magazine/magazine_article/airs-waters-and-places-a-climate-change-series/
[25] Quammen 2012.
[26] Per una rassegna dei testi antichi che si occupano dell’insorgenza di nuove malattie, cfr. Mudry 2017: 825 ss.
[27] Plutarco, Questioni conviviali 731 A-B. Il termine ‘elefantiasi’ non compare effettivamente prima del I sec. PEV. Rufo di Efeso (citato da Oribasio 45, 28) la descrive come una forma di lebbra. Cfr. a tale proposito Lelli – Pisani  2017: 2784.
[28] Ibidem 731 B.
[29] Ibidem 731 B-E. Si noti come Diogeniano alluda qua e là a principi di marca epicurea: il principio della conservazione secondo cui nullam rem e nihilo gigni («nessuna cosa si genera dal nulla») è esplicitato chiaramente in Lucrezio, De rerum natura I 150. Si veda anche Epicuro, Epistola ad Erennio: 38.
[30] Ibidem 731 E-732 A.
[31] L’unico testo che menziona esplicitamente la teoria democritea dell’irradiazione cosmica è proprio quello plutarcheo. Per questo alcuni hanno pensato a una elaborazione apocrifa da parte del moralista di Cheronea. Mugler 1967: 221 ss., tuttavia, ritiene possibile, sulla base di altre testimonianze testuali indirette, che sia stato Democrito in persona a vedere nell’invasione di atomi alieni le cause di eventuali nuove malattie.
[32] Plutarco, Questioni conviviali 733 B: cfr. Agatarchide, fr. 113 GGM 1: 195.
[33] Plutarco, Questioni conviviali 733 C: cfr. Aristotele, fr. 43 Rose; Memone, fr. 353 G. = 375 R.
[34] Plutarco, Questioni conviviali 732 D-E: cfr. Pindaro, Olimpica II: 179.
[35] Plutarco utilizza qui i criteri combinatori della logica stoica, in base alla quale le proposizioni che sono oggetto della dialettica possono essere semplici o complesse, cioè unite dai connettivi logici e/ o / non (NOT, AND, OR nella moderna logica proposizionale): cfr. a tale proposito Lelli – Pisani 2017: 2784 n. 156.
[36] Plutarco, Questioni conviviali 734 C.
[37] Cfr. Antica medicina 3 = 1, 574 ss. Littré, su cui cfr. ad es. Romano 1991: 117 n. 9 e bibliografia ivi cit.
[38] Cfr. ad es. Seneca, Epistole a Lucilio, 95: 19. Sull’ibridazione come meccanismo di speciazione nel mondo antico, cfr. ad es. Li Causi 2014: 63 ss.
[39] Cfr. Seneca, Epistole a Lucilio, 95, 23. Cfr. Romano 1991: 115 ss. (ad es. 117).
[40] Cfr. Celso, De medicina, praefatio: 4-5; Columella, De re rustica, praefatio: 17; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXVI: 1-9 (su cui cfr. Mudry 2017: 828 ss.).
[41] Cfr. Romano 1991: spec. 115 ss. Sulla dietetica senecana come strumento di moderazione del sé, cfr. anche Richardson-Hay 2009: 71 ss.
[42] Cfr. a tale proposito Good 1999: 205. Ma si veda anche il famoso studio di Sontag 1989 che mostra come i significati politici e psicologici proiettati sulla malattia – in questo caso l’AIDS – si possano ritorcere su chi ne soffre. A tale proposito, Sontag 1989: 94 aveva proposto illuministicamente di sradicare ogni forma di immaginario metaforico nella rappresentazione della malattia. Di diverso avviso Good 1999: 72, che ribadisce come il sapere medico non sia iscritto nella natura più di quanto non lo sia nelle dinamiche culturali che codificano e mettono in forma simbolicamente la realtà.
[43] Cfr. https://www.internazionale.it/opinione/daniele-cassandro/2020/03/22/coronavirus-metafore-guerra.
[44] Li Causi 2020a: 67 ss.
[45] Cfr. Marziale, Epigrammi, XI: 98. Per la mentagra, cfr. anche Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXVI: 1-9. Si noti come Marziale individui, con piglio etnocentrico e moralistico, nella regione egiziana la genetrix talium vitiorum (la «genitrice di tali mali»).
[46] Sul dibattito fra dogmatici ed empiristi, cfr. Mudry 2017: 831 ss.
[47] Celso, De medicina, praefatio: 37-38.
[48] Ibidem, praefatio: 38 (traduzione nostra).
[49] Cfr. Ibidem, praefatio: 3 e 73. Sul topos del medicus amicus nella società e nella letteratura imperiali a Roma, cfr. ad es. Stok 2009: 77 ss.
[50] Cfr. ad es. Stok 2009: 79.
[51] Good 1999: 205.
[52] Cfr., ad esempio, Goodall 1965, passim.
[53] https://www.janegoodall.org.au/2020/06/world-environment-day-dr-jane-goodall-covid-19-message/
[54]https://www.independent.co.uk/climate-change/news/jane-goodall-class-of-2020-graduation-conservation-chimpanzee-zoom-a9526396.html
[55] Ibidem.
[56] https://www.theguardian.com/science/2020/jun/03/jane-goodall-humanity-is-finished-if-it-fails-to-adapt-after-covid-19.
[57]http://webtv.un.org/watch/sir-david-attenborough-on-climate-and-security-security-council-open-vtc-23-february-2021/6234476373001/
[58] Cfr. la previsione sulle conseguenze disastrose del COVID-19 sulle risorse della cultura, che rimanda alla descrizione lucreziana della peste d’Atene come antitesi del nirvana epicureo.
[59] Cfr. l’antispecismo di Lucrezio e la sua visione ‘orizzontale’ in zooantropologia (con riferimento all’idea dell’animale umano e al suo statuto di parità rispetto agli altri animali). Cfr. Tutrone 2012: 113 ss.
Riferimenti bibliografici
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 Tutrone 2012
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Andrea Guasparri, si è formato al Centro “Antropologia e Mondo Antico” dell’Università di Siena. Si occupa di selezione culturale e di etnobiologia del Mondo Antico. Attualmente insegna Latino ed Italiano al Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna e Antropologia Culturale e Letteratura Latina all’Università E-Campus (Novedrate, Como). https://uniecampus.academia.edu/AndreaGuasparri
Pietro Li Causi, dottore di ricerca in Filologia e cultura greco-latina, assegnista e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Palermo, dove ha insegnato Cultura latina e Lingua e letteratura latina. Attualmente insegna materie letterarie presso il Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” di Palermo e fa parte, in quanto responsabile di unità di ricerca, del network IRN Zoomathia (Transmission culturelle des savoirs zoologiques-Antiquité-Moyen Âge). Autore di numerosi contributi sulla storia della letteratura e sull’antropologia del mondo antico, si è occupato di Aristotele, Plutarco, Ovidio, Plinio il Vecchio, Seneca, dell’etno-zoologia e della paradossografia dei Greci e dei Romani e di antropologia del dono nel mondo romano. Ha recentemente pubblicato Gli animali nel mondo antico (Il Mulino 2018) e ha curato, assieme a Roberto Pomelli, L’anima degli animali (Einaudi 2015). Per i tipi della Palumbo, ha pubblicato Sulle tracce del manticora (2003), Generare in comune (2008) e Il riconoscimento e il ricordo (2012).

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