di Flavia Schiavo
Cogito, ergo boom (Susan Sontag)
Storia, luce, tempo, spazio
Tra gli strumenti per rappresentare e capire cosa sia o sia stata la città, il territorio, il paesaggio, uno – in grado di eludere la sola quantità, integrando le conquiste della disciplina con l’innovazione e intrecciando diversi linguaggi espressivi e differenti “livelli” narrativi – è sicuramente il cinema. In tal senso si è ragionato sul possibile ruolo dell’immagine, nella misura in cui l’attestazione della verità storica si costruisca tramite l’uso delle fonti accreditate testuali e/o visive che, a partire da Tucidide, testimone e storico nel contempo, si fondano sulla restituzione di eventi, fatti, relazioni, accadimenti, che, selezionati e trascritti, permangono in sostituzione di un’“immanenza” destinata a scomparire
L’immagine, in pittura (si pensi al lavoro di Emilio Sereni, sul paesaggio agrario), in fotografia (alle teorizzazioni di Susan Sontag e Roland Barthes) nel cinema (sia “romanzesco”, sia documentaristico), assume valore di fonte. Si tratta di una fonte non convenzionale, in bilico tra verità non arroganti e finzioni dichiarate, che costruisce “verità” attestate, restituzioni plausibili e non, che a volte si sostituiscono al ruolo degli archivi tradizionali, costruendo versioni difformi, versioni credibili e memoria collettiva.
Quelle “verità” rappresentate possono essere considerate sia per il loro ruolo paradigmatico (rispetto alla costruzione di un’“immagine dei luoghi” nelle discipline territoriali), sia per il valore strumentale e concreto, anche per sfuggire alla mise en abyme – sempre in agguato – di una “restituzione” complessa e sfuggente, com’è quella territoriale. Cercando una “verità” relativa fatta di storie, soggetti, luoghi, luce, tempo.
Senza esprimere un giudizio apodittico va specificato che nemmeno in ambito storico stricto sensu, sussistono fonti autentiche e oggettivamente stabili: anche la ricostruzione storica più accurata è frutto, infatti, di selezione e interpretazione, essendo compiuta con la modificazione sia dei paradigmi, sia dei metodi – si pensi per esempio alla “nuova storia” e agli Annales di Le Goff – tramite cui si traccia la storia stessa o la condizione presente.
Nella costruzione dell’“immagine”, attribuendo a questo termine un valore ampio e non solo ottico, la rappresentazione visiva ha un ruolo di fondamentale importanza, sia quando fissi un momento, come accade in pittura o in fotografia (le fotografie di Nadar o il repertorio fotografico di E. Atget, che illustra Parigi capitale del XIX secolo, di W. Benjamin), sia quando si voglia rappresentare un processo o un fenomeno di breve, medio o lungo corso.
Tra cinema e fotografia esiste un legame che non si intende esplorare, qui evocato in termini di interscambio piuttosto che di dipendenza. A partire da due grandi fotografi – Nadar [1], attivo soprattutto nell’ambito del ritratto, e da Eugéne Atget [2] che descrive dettagliatamente lo spazio e i luoghi – si scorgono alcuni nodi interni al cinema. Atget inizia a fotografare, intorno al 1885, volgendo il proprio “occhio pensante” verso Parigi che, nel corso di circa trent’anni, viene minutamente ritratta, rifuggendo dagli intenti celebrativi e registrando il “quotidiano”, per una committenza fatta da architetti e da quanti volessero capire la consistenza di quella città. Riflettendo sul ruolo del cinema, si noti quanto i due fotografi citati abbiano colto aspetti che poi, dal cinema e nel cinema, sono stati portati avanti e sviluppati: il soggetto “illuminato” e intimamente indagato, attraverso la propria storia personale; i luoghi (compresi i retri e gli interstizi), e il rapporto con la luce che li delinea e definisce [3].
La luce come struttura dello spazio vissuto, nel cinema e in architettura, non è fatto solo tecnico o marginale, è radice e origine della percezione. Come dice Louis Kahn: «una colonna accanto a una colonna porta la luce nell’intervallo: ombra e luce, ombra e luce, ombra e luce, ombra e luce».
Scansione, consistenza, percezione e comprensione degli spazi vivono, dunque, di luce che assume nella concretezza dell’architettura, della città e del paesaggio abitati – nella fotografia e nel cinema che li rappresentano – un valore sostanziale: la luce è, infatti, percezione, emozione, forma. Non è un caso che alcuni grandi registi abbiano innovato la tecnica cinematografica attraverso un differente uso della luce o che “nascano” fotografi (basti citare Orson Welles, Stanley Kubrick, Ken Russell, David Lynch, Alfred Hitchcock, Wim Wenders, Peppuccio Tornatore o Anton Corbijn, fotografo e regista di videoclip musicali, oltre che di film), testimonianza di quanto la “fotografia” (arte di illuminare, definire, indurre atmosfere ed emozioni, scovare temi, selezionare “campi”) sia, nel cinema, occasione di apertura e innovazione.
La fotografia è strumento, fin dalla metà del XIX secolo, utile per comprendere alcuni aspetti sociali. Durante la Rivoluzione industriale, infatti, autori come Richard Beard, Lewis Hine, Jacob Riis, tra USA e Inghilterra riprendono le condizioni di disagio legate allo sfruttamento operaio e al lavoro minorile; altri autori come Clyde Ebbets, Sebastiao Salgado, Ruth Orkin colgono, durante fasi successive, e con intenti diversi, aspetti affini, in altri luoghi, realizzando reportage, fornendo una narrazione che trascende la restituzione storica convenzionale, per denunciare le condizioni dei lavoratori immigrati o mostrando quella “quotidianità”, presente in altro modo nel cinema, per esempio nell’opera di registi dichiaratamente orientati verso tematiche politiche e sociali, come S. Ėjzenštejn, D. Vertov, K. Loach, J. L. Godard, C. Marker, N. Oshima, i fratelli Dardenne.
Sarebbe lunghissimo l’elenco dei fotografi italiani che si sono spesi in tal senso, basti ricordare Enzo Sellerio e Letizia Battaglia (attivi in Sicilia), nella convinzione che i due linguaggi – cinema e fotografia – hanno accolto reciprocamente importanti sollecitazioni, emerse ora in un campo, ora nell’altro.
Per ciò che attiene Sicilia e Palermo rappresentate dal cinema, per esempio, va ricordata, in prima battuta, una “immagine” verbale di un autore per cui la “luce” non è solo metafora o tecnica, ma è sostanza politica e strategia attraverso cui indagare: Leonardo Sciascia (che ha scritto di cinema e dalle cui opere sono stati tratti moltissimi film [4]), ha affermato: «il cinema si interessa della Sicilia perché la Sicilia è cinema»; ma vanno segnalati anche i corti, i mediometraggi e i film di Daniele Ciprì e Franco Maresco, in cui la luce, declinata spesso con uno specifico b/n, assume valore semantico e strutturante: è storia, e non solamente “grammatica” cinematografica.
Ogni luogo rappresentato dal cinema lotta e/o patteggia con uno stigma. La Sicilia in particolare vive di questo stigma, tanto quanto altre realtà locali. Non è casuale il riferimento a Sciascia che nel saggio sul cinema rifletteva sul nodo dell’erotismo. La Sicilia, “teatro dell’eros” e mondo leso (si pensi a Vittorini e alla trasposizione cinematografica di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet) viene raccontata ne: Il bell’Antonio, Divorzio all’italiana, Don Giovanni in Sicilia, La Lupa. Si tratta di film in dialogo con lo stigma, appunto, e con la sua confutazione, attraverso interpretazioni apocrife. Vi è sempre presente Eros, o forse domina il connubio tra Eros e Thanatos. Un traslato che, in chiave luminosa, consente l’accesso a un tessuto territoriale davvero insondabile come quello che contraddistingue la nostra regione.
Federico Fellini sintetizza molti dei concetti sin ora espressi, affermando quanto la luce sia un mezzo e una metafora espressiva:
«la luce è ideologia, sentimento, colore, tono, profondità, atmosfera, racconto. La luce fa miracoli, aggiunge, cancella, riduce, arricchisce, sfuma, sottolinea, allude, fa diventare credibile e accettabile il fantastico, il sogno e, al contrario, può suggerire trasparenze, vibrazioni, dà miraggio alla realtà più grigia, quotidiana (…) il film si scrive con la luce».
In Citizen Kane di Orson Welles, del 1940, anche attraverso la luce (di Gregg Toland, il direttore delle fotografia che introduce la “profondità di campo”) si innova la tecnica cinematografica, si esplicita la visione soggettiva del regista, si amplia il campo della visione rendendo egualmente percepibili gli oggetti sullo sfondo; in Miracolo a Milano, del 1951, di Vittorio De Sica, la luce oltre a essere tecnicamente governata, esprime, in quel luogo del conflitto tra condizioni sociali, un portato simbolico e onirico.
Se il cinema si scrive con la luce, analogamente lo spazio materiale è “scritto” e compreso attraverso la luce. Attraverso la luce, il farsi luce, si definisce un luogo. Persino la fondazione urbana può assimilarsi all’atto primigenio della luce: il diradarsi della selva che diviene luogo abitato e, attraverso la rarefazione del “bosco”, prima luogo denso d’ombra e poi inondato di luce, si trasforma in “città”. Luce che riassume, nello spazio corporeo e in quello rappresentato, il concreto, il metaforico e il simbolico. Luce come azione prima e come “processo” che consente di capire e di vedere attraverso l’occhio che trattiene, in movimento, fatti, Storia, storie e tempo dell’azione.
Un altro elemento cardine legato alla costruzione della storia – una storia illuminata dalla luce – (in questo caso storia umana e sociale), è il tempo (il tempo relativo, soggettivo, interpersonale), inteso come relazione tra soggetti, spazio e tempo “intimo” e non come freccia lineare o unicamente quantitativa.
Tra i maestri che hanno affrontato tale nodo, due italiani: Bellocchio e Giordana. Il primo, Marco Bellocchio con una chiave più realistica in una fase precedente (I pugni in tasca; La Cina è vicina), poi più dichiaratamente soggettiva, basti pensare a L’ora di religione e Vincere; del secondo, Marco Tullio Giordana, è impossibile non citare La meglio gioventù, il cui titolo è tratto da una raccolta di poesie di Pasolini. Questo lungo film è una ricostruzione commossa e commovente di quanto è accaduto in Italia dagli anni ‘60 ai nostri giorni. La Storia è presente e sottotraccia. Gli eventi cardine vengono riletti in chiave romanzata, ma con estremo rigore filologico: il terrorismo, le catastrofi, alcune grandi conquiste (basti, una per tutte la rievocazione costante della figura di Franco Basaglia), i disagi, le irrisolte crisi esistenziali e personali, gli amori, le fughe, le vigliaccherie e l’impegno di più generazioni.
Il cinema, inteso in tale chiave, è un linguaggio di intermediazione e non solo tra persone, luoghi e azione; infatti, come sostiene Welles – «I don’t like to talk about cinema, I’ve had enough of talking about movies. A film is never really good unless the camera is an eye in the head of a poet» – non ambisce ad una restituzione pretestuosamente reale, ma ad una traduzione, ad una trasposizione “poetica”, compiuta da un “occhio”, la cui soggettività esplicita viene necessariamente adottata come strumento. É un linguaggio sinottico che ibrida differenti linguaggi e integra soggetti, spazio, luce e tempo, sebbene le vicende raccontate implichino una durata molto ridotta. Ed è, inoltre, un linguaggio in cui sussiste la compresenza di parola, visione in movimento, azione, trasformazione ed esiti della stessa. In tal senso può essere inteso sia come linguaggio “contro-iconico” confutando alcuni degli idola di baconiana memoria, sia come medium di una continua ritestualizzazione: non è fonte né oggettiva, né stabilmente fissata, è mediata, è mediante, è passibile di revisione continua ed è dunque il “luogo”, il topos, in cui la realtà si costruisce per elisione, attraverso il “non detto”, attraverso infiniti gradi di libertà, e per aggiunte, sinossi e comparazioni. Un esempio tra tanti, le biografie: Giovanna D’Arco o Gesù di Nazareth sono esplorati da differenti “occhi pensanti” poetici e raccontati in moltissimi film.
Va detto che la biografia nel cinema, sia quella fedele alla realtà, sia che declini una cifra documentaristica, sia che trasli la “vita” del protagonista, sia che ponga l’accento su un evento specifico, come nel recentissimo Lincoln di S. Spielberg, restituisce il contesto e le relazioni tra il luogo, il tempo, la cultura, i soggetti, secondo una visione inclusiva, e non per layers separati. Alcune biografie puntano a ricostruire interamente la vita di un soggetto, altre sono liberamente ispirate ad essa. Alcuni esempi: il film su Frida Kahlo, la cui esistenza è stata oggetto di numerosi documentari e di due film, uno, del 2002, Frida, di Julie Taymor, tratto da una biografia (Frida: A Biography of Frida Kahlo di Hayden Herrera), è abbastanza fedele, ma poeticamente e liberamente interpretato. Il focus è la vita privata di Frida, ma emerge il rapporto con la condizione di genere, con le dinamiche politiche e con la koinè culturale che caratterizzava quell’enclave; due film di Ken Russell che, nato nel 1927, nel 1956 inizia a girare corti, poi per la BBC firma alcune biografie di musicisti e artisti, tra cui Elgar, Debussy; la Duncan, Dante Gabriele Rossetti, Richard Strauss, in cui si esprime una tensione drammatica, ripresa, appunto in The Music Lovers, del 1970, e in Mahler, del 1974. Il primo su Peter Ilych Tchaikovsky, il secondo su Gustav Mahler, film potentemente visionari e intensamente connessi alla musica e ai “tormenti” esistenziali dei due compositori. Non prevale, in questi casi, il rigore fedele nell’elencazione dei fatti della vita; sussiste, invece, un grande rigore filologico rispetto alle scelte musicali e alla rilettura del contesto in cui vissero sia Mahler, che Tchaikovsky.
La biografia è anche, sia nel cinema che in letteratura, urbana: un esempio tra tanti, New York, rappresentata da una molteplicità di “occhi pensanti” poetici. In un processo che vive di percezione, trasposizione, intermediazione tra immagine e parola, stimolati da quanto ha affermato Susan Sontag, in una intervista del 2003: «se uno vuole ricordare, allora ha bisogno dell’immagine; se uno invece vuole capire, allora ha bisogno della parola, della scrittura», si può sostenere che nel cinema vi sia un superamento di tale dicotomia e non esista l’autonomia tra immagine e parola, insita invece nella fotografia, ma una intersezione tra esse, e una compresenza attiva: la comprensione – in mimesi con la vita reale – avviene grazie a un circuito in cui la parola è sottotesto (sceneggiatura, scrittura, struttura, trama), metatesto ed è testo esposto che lo spettatore sente e “vede” insieme alle immagini.
Andando indietro, attraverso una sorta di carotaggio temporale e riflettendo su quanto l’includere la relazione tra soggetti/spazio/tempo nella narrazione sia una pulsione connaturata (innanzitutto biologica e poi culturale), in termini concettualmente provocatori si può affermare che il “cinema” inteso sia come rappresentazione del “divenire”, sia come necessità di dar vita a una rappresentazione verosimile, allusiva o allegorica, della relazione – illuminata e illuminante – tra soggetti/spazio/tempo – fissando, quasi in un compimento rituale il farsi di un’azione – sia in nuce in epoca preistorica. Esempio eloquente è quello delle grotte di Altamira, dove si vedono una sequenza ritmica di immagini (dal valore apotropaico e simbolico), che narrano, in modo solo apparentemente caotico azioni di caccia.
Transfigurazioni
Questa riflessione, che sostanzialmente esplora la produzione cinematografica sino ai primi anni 2000, pur considerando i valori tecnici, stilistici, estetici e simbolici costitutivi del cinema e inscindibili dal suo ruolo, punta l’attenzione, nel contempo, sul suo essere strumento per comprendere – nell’arco complesso della storia – fenomeni culturali e sociali, città e territori abitati, un prezioso sussidio didattico nella formazione del pensiero critico di architetti e urbanisti, dal momento che recupera fenomeni e fatti, di difficile comprensione, alla rilettura cinematografica che include accadimenti, spazio, soggetti con una chiave non tematica e propria delle fonti non convenzionali, come la letteratura e il romanzo analizzati in numerosi lavori, insieme al cinema, da chi scrive.
Nel cinema la storia è, come già detto, declinata attraverso modalità differenti. Per grandi sistemi e attraverso approfondimenti di nicchia, per singoli eventi, cercando una rappresentazione fedele o visionaria che tiene alcuni punti fermi. Due esempi che affrontano la medesima fase della storia italiana, la nascita del fascismo: Novecento di Bernardo Bertolucci (1975), il cui senso è esplorato, tra l’altro, da Bertolucci secondo il cinema, di Gianni Amelio (un documentario girato sul set) e Amarcord di Federico Fellini (1973). Bertolucci attraverso le vite di due amici nati lo stesso giorno, il 27 gennaio del 1901, uno figlio di contadini, l’altro di proprietari terrieri; Fellini inquadrando, tra malinconia e parodia, in un tempo ridotto (1932-’33), la vita a Rimini, ricostruita a Cinecittà.
Territori e città, nel cinema, emergono attraverso molteplici punti di vista. Li si può conoscere e capire entrando da molte “porte”. Anche in tal senso il cinema riveste un potente strumento didattico, quale attivatore della conoscenza comparativa e critica del contesto storico-politico, dei fenomeni culturali, sociali, territoriali (non è la semplice “figura” che emerge), dai temi generali, come l’idea di città (fin da Metropolis di F. Lang, del 1927), alle tensioni intrinseche tra storia e presente o tra classi (la filmografia di P. P. Pasolini o di K. Loach), alla rappresentazione del rapporto tensivo tra gli spazi, all’enorme crescita urbana (Deux ou trois choses que je sais d’elle) e/o alla condizione sociale difforme tra centro/periferia (L’Esquive), a temi specifici, come il diverso modo di abitare in aree urbane marginali (L’Haine), al quartiere letto secondo una chiave surreale e umoristica (Mon Oncle), al rapporto con i conflitti e le guerre (The Third Man, del 1949, che mostra, con uno straordinario b/n dai toni espressionisti, Vienna durante gli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, con una cifra non convenzionale. Si delinea un percorso che giunge all’interpretazione fatta da alcuni registi di una specifica forma o tipologia urbana (A Clockwork Orange, che sceglie una new town per location), alle nuove forme di consumo e al ruolo delle merci (The Safety of Objects), alla città diffusa e rarefatta del nord est (La giusta distanza), alla periferia di risulta (L’imbalsamatore), alla presenza di incombenti figure urbane della contemporaneità (This Must Be the Place, che si apre con l’immagine di un grande Centro commerciale), o delle modalità offerte dal cinema per la comprensione di una specifica condizione sociale (gli afroamericani, nel cinema di Spike Lee), sino a una singola città che, attraverso una chiave cronologica e polisemica, possa essere scandagliata per scorgerne le modificazioni, le trasformazioni, il “volto”.
Un esempio potrebbe essere New York, raffigurata da una infinita serie di film, tra essi: Portrait of Jenny; Breakfast at Tiffany’s, Prisoner of Second Avenue; The Way we were; Vu du pont; Taxi driver; Hair; Manhattan; Hannah and her sister, Wall street; Green card; The Fisher King; The Spanish prisoner; 25th Hour; The Devil Wears Prada; Nuovo Mondo; Extremely Loud and Incredibly Close. Vi ritroviamo i paesaggi oggi scomparsi, il rapporto tra passato e presente; il surmenage, l’ambizione legata al mito del self made man a cui la vita sfugge di mano; la “lotta di classe” e il comunismo all’epoca del maccartismo, durante la “seconda paura rossa”; la New York operaia; la vita in taxi e il delirio dell’isolamento, sino all’esito definitivo; l’irrisolto vagare, tra l’essere intellettuali, “gente” di spettacolo, borghesi, e i conflitti familiari; l’alta finanza e la distruzione del legame sociale, compiuto dai “predatori” della contemporaneità; l’America, paradiso ambito, in cui si esperisce lo iato tra l’essere cittadini e l’essere estranei; la città come luogo del sogno in cui alligna l’alienazione contemporanea; Ground Zero, dopo l’11 settembre; l’estrema competizione sul lavoro, la crisi esistenziale e umana di chi viva una condizione, in fondo, privilegiata; l’emigrazione, l’eden e il sogno americano in rapporto alla povertà del sud Italia; lo spazio urbano, tra geometria ed emozione, una recerche attraverso un “viaggio” di formazione nella città che fa diventare adulti.
Il tema del viaggio, intrecciato alla descrizione profonda dei luoghi in trasformazione, è messo in scena da molti registi, tra essi Wenders, che con Alice nella città, Paris Texas, Tokio-Ga, Il cielo sopra Berlino, Lisbon Story, affronta, con una cifra che va dal documentario al romanzesco, il cambiamento interrelato che sussiste tra i luoghi e le persone.
Il cinema, dunque, mostra connessioni e trasformazioni, risente dei paradigmi vigenti, ma innova potentemente, anche in quanto svincolato dal metodo strettamente scientifico, introducendo paradigmi inaspettati e dando vita a esiti imprevisti. Ogni film, in una certa misura, potrebbe compiere una rivoluzione, così come T. S. Kuhn la intende. Alcuni film compiono questa rivoluzione tramite un’enorme aderenza al reale e, letti in comparazione con i fatti, diventano materia e idea su cui ragionare. Altri trascendono il reale e mostrano l’invisibile che a volte è contenuto nel reale, tra questi Freaks, un film del 1932 di Tod Browning ambientato nel mondo del circo, che si presta, anche, a interpretazioni metaforiche.
Oltre alle biografie e alle riletture urbane di New York, possono essere citati, tra i molti possibili che trattano di città e contesti italiani, due film: Baarìa di Giuseppe Tornatore, del 2009 e Caro Diario di Nanni Moretti, del 1993, Nell’episodio In Vespa, Moretti attraversa la “sua” Roma periferica e semideserta, in una sorta di malinconico, adorante autismo conoscitivo, sottolineato da una colonna sonora che agisce per dissonanze (Batonga di Angélique Kidjo). Non è una muta elencazione di soli “paesaggi”, è una sorta di monologo riflessivo (verbo-visivo), come se il regista fosse Ulisse di Joyce, che ragiona di sé e per sé, ma in virtù dello spazio che attraversa, intimamente in dialogo con le proprie passioni e regressioni, con le questioni più inerenti la città. La promenade in Vespa parte dalla Garbatella e arriva – passando per Spinaceto – ad Ostia, dove fu assassinato P. P. Pasolini, inquadrando il monumento che ne ricorda la morte. L’assenza rievocata sottolinea quanto sia tremenda la perdita dell’ultimo vero e coerente intellettuale italiano che tra scrittura, saggi, poesie, e cinema ha esplorato luoghi e spazi sociali [5].
In Baarìa il cinema può guidarci nella comprensione della contemporaneità attraverso uno sguardo ricostruttivo, a ritroso. Baarìa non “fotografa” come Caro Diario il presente, ma abbraccia un cinquantennio (dal ‘30 agli anni ‘80 del ‘900) ed è costruito come un insieme di quadri in successione, in cui vengono mostrati, oltre alla storia di una famiglia, alcuni tra gli accadimenti e i protagonisti della storia locale; affronta poeticamente e con un finale visionario, il volo del bambino (il frammento più bello del film?), i desideri, la relazione intima tra l’autore, insider, e la città, illustra eventi che ritmano il tempo della storia [6], porta in scena alcuni protagonisti come Ignazio Buttitta e Renato Guttuso e cita alcuni film: Mafioso di A. Lattuada; Uno sguardo dal ponte di S. Lumet; Tre fratelli di F. Rosi, creando una “unità culturale” del côté, che consente di conoscere un luogo, ciò che accade, le reazioni, gli esiti. In Baarìa viene esplicitamente evocato il Governo Tambroni perché, in quella fase, avvengono alcuni episodi che il film di Tornatore segnala con forza, mostrandoci come il cinema sia tra gli strumenti per comprendere la storia, attraverso una visione che, dichiaratamente soggettiva, sappia mostrare alcuni eventi significativi: una manifestazione a Genova contro il VI Congresso MSI che vide decine di feriti dopo uno scontro con la polizia; una protesta sindacale a Reggio Emilia che finì in tragedia, per l’intervento dei carabinieri che spararono sulla folla, dopo che alcuni manifestanti si erano impossessati di una camionetta: morirono 7 persone [7].
Gomorra, del 2008, di Matteo Garrone, rappresenta una ulteriore fonte interpretativa della realtà contemporanea. In parziale autonomia dal libro di Saviano, il film mette in evidenza un quotidiano criminale, inimmaginabile se non attraverso la visione diretta di un mondo insieme dominante e sommerso, che ha come teatro anche le “vele” di Scampia, l’economia in nero, il cinismo come status sociale, i bambini coinvolti, la “normalità” altra, fatta di uccisioni, traffici, spaccio.
Altri film esplorano, in termini più generali o allegorici, aspetti della città contemporanea, tra essi: The Truman Show, diretto da Peter Weir (1998), Pleasantville di Gary Ross (1998), Magnolia di Paul Thomas Anderson (1999), American Beauty di Sam Mendes (1999), Dogville [8] di Lars Von Trier (2003), Crash di Paul Higgins (2004), o il documentario Urbanized, del newyorkese Gary Hustwit (2011).
Il cinema, dunque, affronta aspetti politici e sociali secondo differenti angolazioni, evidenziando episodi di “nicchia” o dotati di respiro collettivo. Alcuni autori come Emile De Antonio (In the Year of the Pig, del ‘69) hanno analizzato la Guerra del Vietnam, mostrando scene dure mai trasmesse in televisione, altri come J. L. Godard hanno registrato il ‘68 (Le gal savoire; Un film comme les autres) o fenomeni duri come le repressioni sui neri, contrapposte alle prove dei Rolling Stones (One plus one). Politico è il cinema di Dodow, sceneggiato da Brecht (Kuhle Wampe oder Wem gehört die Welt) del ‘32, sulla disoccupazione e la sinistra nella Repubblica di Weimar. Politico è il cinema di Luis Buñuel: in Viva la muerte, ne Le charme discret de la bourgeoisie, ne Le fantôme de la liberté, vengono esposti i “cadaveri” di un mondo guardato chirurgicamente. Pasolini è politico in Uccellacci e uccellini, in Porcile, in Salò o le 120 giornate di Sodoma, come pure, sebbene in modo diverso, in Mamma Roma, uno dei cardini del cinema in cui Pasolini racconta la città. Politica è l’opera di M. Jancsò (Agnus dei; Még kér a nep), interprete della Rivoluzione d’Ottobre e delle lotte contadine in Ungheria. Politico è il minimalismo di una regista come C. Akerman che, con Bruxelles (1975), anticipa un cinema di denuncia forte come quello di R. Altman (basti pensare a Short Cuts, del ‘93) che rappresenta lo sgretolamento del mito americano.
La relazione politica tra potere e libertà viene espressa anche in chiave metaforica: in Prova d’orchestra del ‘79, infatti, Fellini mette in scena un’orchestra e la relazione di questa con il Direttore. Al di là della critica che ha attribuito al regista atteggiamenti filo-autoritari, va detto che la cifra politica presente in questo film non è certamente quella espressa da Petri o da Rosi. Assume, infatti, toni più ambiguamente “aperti” e decisamente onirici. Ma altrettanto politica è la commedia all’italiana che, lungi dal declinare una cifra come quella di Costa-Gravas (nel famosissimo Z, sulla dittatura in Grecia), affronta nodi critici legati alla disparità di classe, alla condizione operaia, al degrado della borghesia (Mimì metallurgico ferito nell’onore, di L. Wertmüller; La grande bouffe, di M. Ferreri; La strategia del ragno, di B. Bertolucci). Politico è il recente Cesare non deve morire, dei Taviani (2012). In esso riecheggia la lezione di Pasolini e del Neorealismo. Il film fu girato nel teatro del carcere di massima sicurezza di Rebibbia, e mostra come i carcerati, in veste di attori, mettano in scena, all’interno di un laboratorio teatrale, il Giulio Cesare di Shakespeare.
Muovendo da una specifica cifra propria del cinema che si occupa di territori e città, che punta alla rappresentazione dei luoghi, a una denuncia e a una ricostruzione storica, non si può che ricordare il lavoro di due maestri: Orson Welles e Roberto Rossellini.
Orson Welles, che definisce se stesso “l’illusionista”, in F come Falso (Vérités et mensonges, 1974), oltre ad aver innovato tecniche, riprese e grammatica, ha condotto il cinema a interrogarsi sul rapporto tra verità e finzione, nodo interno di questo contributo. Da un lato, dunque, la costruzione di finzioni credibili, che inducono a sospendere l’incredulità, potrebbero far dubitare del cinema come possibile fonte per la comprensione della realtà. D’altro canto ciò spinge, invece, a riflettere sul contrario: la “finzione” cinematografica che declina se stessa, esattamente come accade nella vita, tra visioni differenti (vere? false?), mostra la propria potenza essendo testo di narrazione e non di sola rappresentazione scenica. La verità e la finzione non sono variabili innocenti, ma sono legate al modo in cui il film è costruito [9], culturalmente e tecnicamente, e al modo in cui il film è passibile di interpretazione. Ciò induce a interrogarsi sulla tipologia delle fonti (in questo caso non convenzionali, come, appunto il cinema) sulla loro attendibilità e sui vantaggi, vincoli e opportunità sottesi all’utilizzo delle stesse fonti.
In una certa misura è legittimo e strumentale rispetto a quanto trattato, schematizzare, in estrema sintesi, su una sorta di segmento alcuni “poli”: il cinema che documenta, come una cronaca, la realtà; il documentario estremamente fedele alla realtà (i reportage della BBC); il “documentario di creazione” (il cinema di V. De Seta); il cinema storico che muove da fonti accreditate, ma le interpreta, ovvero introduce variabili e si discosta dalle medesime fonti o le reinterpreta liberamente, anche tramite parodia; il cinema sociale che, sia utilizzando fonti accreditate, sia eludendole (in toto o in parte), denuncia fatti e fenomeni sociali che hanno una forte relazione con quanto è accaduto o accade, con una cifra più intenzionalmente realistica (K. Loach) o con una più poetica (P. P. Pasolini); il cinema di pura finzione; il cinema fantastico che ha intenti predittivi e non.
Una ulteriore specificazione rispetto al cinema sociale e al ruolo che esso riveste nella costruzione dell’immagine urbana: uno tra i registi cardine è l’inglese Ken Loach [10]. Il suo cinema si caratterizza per aver svelato, in chiave soggettiva e militante, le catastrofi, le linee di tensione e le possibili soluzioni di una fase critica che non è solo interna al Regno Unito. Per ciò che attiene al cinema italiano, due film identificano nodi chiave della nostra contemporaneità e “parlano” un linguaggio comune e intrattengono, l’uno con l’altro, un dialogo fecondo: Le mani sulla città di Francesco Rosi e Roma città aperta di Roberto Rossellini. Il primo ci aiuta a comprendere il degrado del governo del territorio; il secondo la deriva politica odierna.
Otto Preminger afferma che Roma città aperta sia, nel cinema, una sorta di “frattura” tra un prima e un dopo. È uno strumento che “legge” il tempo storico, mentre esso si compie. Quel film trasmette il senso, la condizione, la storia in modo più diretto delle fonti tradizionali. Costruendo una verità che, anche sulla scorta di una identificazione da parte dello spettatore si incardina nella memoria assurgendo a trama mnemonica collettiva riconosciuta. Le storie di vita narrate hanno funzione di trascinamento dello spettatore e forniscono, grazie al cinema, un respiro specifico alla Storia accreditata, che abitualmente non tratta delle singole persone, ma di categorie: la sospensione d’incredulità di cui parla Eco a proposito della letteratura, arriva con quel cinema alle estreme conseguenze. Ciò viene compiuto attraverso quel “metodo” che i critici riconducono al Neorealismo che, in Italia, ha prodotto circa un centinaio di film. Ambientati in aree rurali o urbane, affrontano temi pressanti, romanzati, ma centrati a mettere in evidenza disoccupazione, disagio, miseria: si tratta di “documenti” non di documentari. Alcuni hanno un enorme valore artistico. Registi come Blasetti, Renoir, Bonnard, De Sica, Antonioni, Visconti, Lattuada, Germi, Castellani, Zampa, Fellini (la sua opera è caratterizzata da un “realismo magico”), Maselli, sceneggiatori come Zavattini, hanno messo in scena la “struttura” della nazione e le storie delle persone, coma mai prima, influenzando l’opera successiva di Maestri come Pasolini.
La relazione tra scrittura e realtà rappresentata, che nel cinema è declinata e compresa tra il documentario da un lato e la pura finzione dall’altro, nel film di Rossellini si manifesta in pieno, affrontando la contemporaneità. Attraverso la finzione si descrive una condizione reale, così come, ad esempio, accadde (con le debite differenze) a Parigi durante il naturalismo di É. Zola. In Roma città aperta, ricercando una fedeltà interpretativa con quanto è accaduto e, senza pretese di assolutezza, si risolve, dunque, il racconto di una complessità apparentemente contraddittoria, che la Storia ortodossa ebbe difficoltà a interpretare. Si mostra come il cinema, e quel cinema, sia davvero uno strumento potente e quanto il regista, R. Rossellini e la sua troupe, sappiano essere testimoni e storici, partecipanti sul campo e in trincea.
Contraltari contemporanei (non omologhi) al film di Rossellini potrebbero essere Il Caimano di N. Moretti (2006) e Il Divo di P. Sorrentino (2008). Girati con tecniche e linguaggio differente, il primo, il grottesco e il disorientamento della “maschera”, il secondo governato da una visione dura e impietosa. Nel mondo senza esterni de Il caimano non è possibile immaginare alcun cambiamento, cosi come accade, anche se in altro modo, nei corti e nei film di Ciprì e Maresco che rappresentano un distorto “locale” (Palermo è il focus implicito del racconto), anche tramite tale cifra che trasla la contemporaneità e isola le vicende raccontate da un ipotetico esterno. I film di Moretti e di Sorrentino affrontano, invece e in modo diretto, la contemporaneità, osservandola non come declinazione di un evento o di una vicenda, come accade in Roma città aperta di Rossellini, ma attraverso l’identità pesante e greve di Berlusconi e Andreotti, due eminenze in chiaro della nostra cronaca politica.
Il Divo ha messo in scena una fase “calda” della vita di Andreotti (tra il 1991 e il ‘93), tra la presentazione del VII Governo Andreotti e il Maxiprocesso per associazione mafiosa che si svolse a Palermo. Il film, che in una certa misura interseca, per i nodi affrontati, non per la grammatica cinematografica, il fil rouge del cinema tratto da Sciascia, ha un incipit forte: una serie cruenta, enfatizzata dalle tecniche di ripresa e dalla luce radente e bluastra, di uccisioni, omicidi, presunti suicidi (Moro, Dalla Chiesa, Pecorelli, Falcone, Calvi, Sindona, Ambrosoli), sottolineata da un brano, Toop toop dei Cassius, un duo electro-clash, che rende drammatica la struttura narrativa dell’incipit.
Francesco Rosi, ha affrontato il tema della comprensione della storia in Salvatore Giuliano e ne Il caso Mattei in cui si mischiano le tecniche documentaristiche con il cinema più tradizionale. In Le mani sulla città, film chiave del cinema di denuncia, definito da Enrico Costa [11] «una lezione di urbanistica», ha trattato nodi durissimi della speculazione edilizia, della corruzione e del degrado del territorio. Ambientato a Napoli, del ’63, registra lo sgretolamento del mondo reale, mentre in trincea e in prima linea urbanisti come Astengo, Olivetti, De Carlo, si battevano per ottenere ben altri risultati.
Il caos apparente e bulimico che contraddistingue questa riflessione vive, oltre che di passione, di ordine razionale. Ciò che si è inteso fare è ragionare sulla Storia, sullo spazio, sulle persone, in altre parole sulla trasformazione di città, territorio e paesaggio, non considerando la sola concretezza materiale, non considerando l’interpretazione come struttura fondata su temi sconnessi, non considerando la costellazione dei luoghi come un sistema di stelle fisse che possono essere rappresentate in modo univoco o definitivo.
I luoghi si trasformano e la contemporaneità (il contesto e i paradigmi emergenti) ci impone di considerare come parte della Storia le “storie di vita” e le visioni soggettive che emergono da tali storie. Ciò non vuol dire che tutte le storie siano vere e ciò non vuol dire che tutte le storie siano “giuste”. Ciò vuol dire che il metodo, che include il cinema tra le fonti per capire storia e fenomeni, punta a considerare la ricerca della verità come un percorso dialogico entro cui le “cose”, le parole, le immagini, i fatti, i soggetti che rappresentano e quelli rappresentati, in una parola le interpretazioni e il contesto da cui esse scaturiscono, si compongano e si “parlino” cercando una “visione” intersoggettiva, in cui la realtà mutevole e relativa viene influenzata dall’interpretazione, in un circuito biunivoco e fecondo. La scelta e la comprensione, in tal modo, si compiono attraverso un metodo, meno assertivo e autoreferente. Il cinema, così come le altre fonti non convenzionali, è dispositivo di tale impegno, non solo fine, per architetti e urbanisti che cerchino città e territori, ma strumento per capire gli uomini, la vita, il mondo.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Pseudonimo con cui è conosciuto Gaspard-Félix Tournachon, nato e morto a Parigi, 1820–1910.
[2] Nato a Libourne e morto a Parigi, 1857-1927.
[3] Afferma, in tal senso, Nadar: «la teoria fotografica si impara in un’ora; le prime nozioni pratiche in un giorno (…) quello che non si impara (…) è il senso della luce (…) è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate (…) quello che s’impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto, è quell’intuizione che ti mette in comunicazione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza più familiare e più favorevole, la somiglianza intima».
[4] A ciascuno il suo (Elio Petri, 1967, dal romanzo omonimo); Il giorno della civetta (Damiano Damiani, 1968, dal romanzo omonimo); Un caso di coscienza (Gianni Grimaldi, 1970, dal racconto omonimo contenuto ne Il mare colore del vino); Gioco di società (di Giacomo Colli con Alida Valli, 1971, film per la tv dal racconto omonimo contenuto ne Il mare colore del vino); Storia dell’emigrazione (Alessandro Blasetti, 1972, film tv da Il lungo viaggio, racconto contenuto ne Il mare colore del vino); Cadaveri eccellenti (Francesco Rosi, 1976, dal romanzo Il contesto); Todo modo (Elio Petri, 1976, dal romanzo omonimo); Una vita venduta (Aldo Florio, 1976, da L’antimonio); Grand Hotel des Palmes (Memé Perlini, 1978, liberamente ispirato al libro Atti relativi alla morte di Raymond Roussel ); Candido (Roberto Guicciardini, 1982, film tv dal romanzo omonimo); Western di cose nostre (Pino Passalacqua con Domenico Modugno, 1983, film tv dal racconto omonimo contenuto ne Il mare colore del vino); I ragazzi di via Panisperna (Gianni Amelio, 1988, tiene presenti le ipotesi e le suggestioni di La scomparsa di Majorana); Gioco di società (Nanni Loy, 1989, film tv dal racconto omonimo contenuto ne Il mare colore del vino); Porte aperte (Gianni Amelio, 1989, dal romanzo omonimo); Filologia (Giuseppe Gigliorosso, 1990, film tv dal racconto omonimo contenuto ne Il mare colore del vino); Una storia semplice (Emidio Greco, 1992, dal romanzo omonimo); Ce ne ricorderemo di questo pianeta. Un sogno di Sciascia (Davide Camarrone, Salvo Cuccia, 2000); Il consiglio d’Egitto (Emidio Greco, 2001).
[5] Sugli scritti e il cinema di Pasolini rinvio al mio Critica della Razionalità Urbanistica, pubblicato nel 2006 in CRU, Rivista diretta da Attilio Belli.
[6] Vi sono rappresentati il regime fascista, durante gli anni ‘30, l’entrata in guerra dell’Italia; la liberazione e lo sbarco degli alleati, il Referendum del ‘46 per la Repubblica; la strage di Portella della Ginestra; la fase della riforma agraria; gli scontri armati contro il Governo Tambroni; l’avvento della televisione; il ‘68 e la Sinistra Rivoluzionaria; le elezioni politiche del 1972.
[7] Il Presidente del Consiglio del tempo, profittando di una visita di Togliatti a Mosca, affermò che quegli “incidenti” erano frutto di un piano preordinato dentro al Cremlino e che dietro la rivolta di piazza vi era la sinistra filo-sovietica. Un altro episodio accaduto durante quel Governo viene messo in luce: il Ministro dello spettacolo, Umberto Tupini comunica che sarà portata avanti una drastica censura per quei film “scandalosi, negativi per la formazione della coscienza civile degli italiani”, sotto il mirino: La dolce vita di Fellini.
[8] Dogville è stato proposto come “testo” di approfondimento, durante un Corso di Geografia urbana, tenuto da chi scrive, per la sua scarna e densa significanza. Come una sorta di manuale elenca questioni e porta alle estreme conseguenze, evidenziando (per negazione e comparazione), l’antitesi tra pianificazione e “governo” e assenza degli stessi, alcune questioni forti, in estrema sintesi: la città è come una mappa?; ha confini netti?; spazi prestabiliti?; è abitata da una comunità chiusa?; questa intrattiene un dialogo interno e istituisce un dialogo con chi sia esterno? è isolata dal contesto?; accoglie/espunge/sfrutta/distrugge lo “straniero”?; è luogo di patti/conflittualità/esiti catastrofici?.
[9] Ci si riferisce, anche al rapporto con le Case di produzione e con la committenza, riflettendo su come e quanto il cinema indipendente abbia, spesso, una forza diversa rispetto a quello che è sottoposto alle regole ortodosse. Roma città aperta è un esempio cardine di tale indipendenza, sia a livello della struttura e delle scelte narrative, sia per ciò che attiene le condizioni oggettive (carenza di fondi; assenza di compromessi; autocostruzione del film).
[10] Con queste parole, coerenti con la propria opera cinematografica, K Loach descrive, post mortem, la Lady di ferro: «Margaret Thatcher è stata il Primo ministro più controverso e distruttivo dei tempi moderni. La disoccupazione di massa, la chiusura di fabbriche, le comunità distrutte: questa è la sua eredità. Era una combattente e il suo nemico era la classe operaia inglese. Le sue vittorie sono state aiutate dai capi politici corrotti del Partito laburista e di molti sindacati. Se la Thatcher era la suonatrice di organetto, Blair era la scimmia. Voglio inoltre ricordare l’amicizia tra il dittatore cileno Augusto Pinochet e la Thatcher, la quale ha chiamato Nelson Mandela «terrorista». Come dovremmo onorarla, dunque? Privatizziamo il suo funerale. Lo mettiamo sul mercato e accettiamo l’offerta più economica. È quello che avrebbe voluto».
[11] vd. CINEMACITTA’ n. 1/2/3/4 “Francesco Rosi. Le mani sulla città. 1963/2003”. Il numero monografico della rivista rappresenta un insostituibile contributo, impossibile da sintetizzare in poche righe. Il Direttore della Rivista, Enrico Costa, spiega chiaramente nella Presentazione quale sia l’intento della Rivista stessa, chiarendo cosa sia stato e cosa sia il film di Rosi.
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. Tra le sue ultime pubblicazioni, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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