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di Fausto Giaccone
La cultura spagnola di cui la Colombia, come la Sicilia, sono intrise, mi ha sempre fatto sentire perfettamente a mio agio pur in terre così apparentemente lontane. Nel 2006, durante uno di questi soggiorni di lavoro, ho intuito improvvisamente che era ormai inevitabile che il mio sguardo su questo Paese uscisse dagli schemi preordinati del servizio fotografico su commissione e seguisse un proprio percorso addentrandosi nel mondo del grande scrittore, nei luoghi della sua vita e in quelli dei suoi romanzi; luoghi che, a mio avviso, si specchiano gli uni negli altri.
Era arrivato il momento di raccontare per immagini il mio Caribe colombiano, di elaborare tutti gli appunti, gli stimoli, le riflessioni che la lettura dell’opera di García Márquez aveva suscitato e fonderli con quelli registrati nei tanti viaggi precedenti in Colombia.
Sapevo bene ciò che volevo tentare: ritrarre quel microcosmo umile e minuto che mi circondava e nel quale tuttavia riconoscevo senza ombra di dubbio la grandiosa allegoria della storia universale che tanto mi aveva affascinato in Cent’anni di solitudine.
Non ho mai parlato con Gabo, come il geniale scrittore è familiarmente chiamato nel suo Paese, non ho mai insistito per incontrarlo personalmente. Nell’atto di mettermi a narrare il suo mondo, ho preferito impregnarmi delle sue storie, leggere e rileggere le sue opere nell’originale spagnolo, e lasciare che la musicalità del linguaggio guidasse i miei passi sulla scia delle fantasie e delle nostalgie evocate dai suoi racconti.
Il mio contatto più diretto con lui è stato Jaime García Márquez, il fratello numero otto, come lui stesso si autodefinisce, uno dei dirigenti della Fundación Nuevo Periodismo Iberoamericano di Cartagena de Indias, fondata da Gabo. Da Jaime sono venuto a conoscenza di diversi episodi di vita familiare, da lui sono andato e tornato diverse volte, tra una spedizione e l’altra, per verificare particolari, confrontare ipotesi, sempre curioso com’ero di mettere a fuoco quei piccoli dettagli che potessero essere fonte d’ispirazione per il mio lavoro. Mi ha sempre accolto con il sorriso prima di lanciarsi in generose affabulazioni.
Dal 2006 ho compiuto tre viaggi in Colombia seguendo questo progetto, sempre col bagaglio ridotto al minimo, usando i mezzi di locomozione locali – autobus, lance a motore, moto-taxi – e dormendo in locande economiche. Anche per l’attrezzatura fotografica ho scelto di lavorare con un equipaggiamento essenziale, quasi sempre una macchina con ottica normale, rinunciando volutamente alla spettacolarizzazione tipica dell’estetica del fotogiornalismo.
Nel 2010, durante l’ultimo di questi viaggi, ho ripreso in mano Cent’anni di solitudine. È difficile descrivere le sensazioni provate rileggendolo dopo quarant’anni, trovandomi negli scenari stessi in cui il romanzo si dipana. Forse perché ormai conoscevo bene il Paese e la sua gente (o forse perché avevo quaranta anni di più…), l’effetto di sorpresa e di mistero della prima volta non si è ripetuto; eppure, forse proprio per gli stessi motivi, molto più di allora mi ha colpito il linguaggio.
García Márquez – nato in un villaggio polveroso di poche anime vicino alla costa caraibica, con alle spalle nient’altro che la tradizione orale del matriarcato degli indios Wayúu della Guajira, trasmessagli dalla nonna materna Tranquilina Iguarán – compie il prodigio di elaborare una lingua universale che trascende la realtà e nel contempo vi rimane assolutamente fedele.
Per García Márquez la morte è sempre al centro della sua concezione tragica del mondo. E questo fa sì che non ci sia nessuno come lui che sappia descrivere le passioni e la morte come nostalgia della vita, come nel finale del Generale nel suo labirinto quando racconta il momento in cui Simón Bolívar si rende improvvisamente conto che non vedrà il nuovo giorno che sta per sorgere. Per questo, uno dei personaggi di una novella, a chi gli chiede se abbia paura della morte, risponde: “Paura no! Mi fa rabbia!”
Più volte, seduto a leggere al caffè o al ristorante, sono scoppiato a ridere per delle frasi imprevedibili e folgoranti o mi sono ritrovato con le lacrime agli occhi. Mi sono chiesto spesso dove fossero i limiti tra realtà e finzione letteraria, ma lo stesso Gabo, del resto, ha ripetutamente dichiarato che alcuni dei particolari più fantasiosi dei suoi racconti siano nati da elementi reali.
Durante una riunione familiare a Cartagena, Jaime García Márquez mi ha presentato una delle sorelle, Margot, raccontando che da bambina mangiava la terra e la calce grattata dalle pareti, proprio come la Rebeca di Cent’anni di solitudine.
Sono stato più volte ad Aracataca, il villaggio natale dello scrittore, la mitica “Macondo” della famiglia Buendía, trascorrendovi l’ultima volta ben dieci giorni accompagnato da Rafael Darío Jimenez, memoria storica della regione. Con lui ho visitato l’antico compound della United Fruit, la compagnia nordamericana che con le sue piantagioni di banane causò la fortuna e la rovina di Aracataca/Macondo.
Nel 2006 avevo fatto ancora in tempo a parlare con Pablo Cortina, quasi centenario, ultimo testimone della strage dei lavoratori della Compagnia bananiera compiuta dall’esercito colombiano durante lo sciopero del 1928, episodio centrale di Cent’anni di solitudine.
Il Mercoledì delle Ceneri del 2009, nella cattedrale di Valledupar, mi sono trovato a fotografare un bambino che portava sulla fronte la croce di cenere e non ho potuto fare a meno di ripensare alle pagine di Cent’anni di solitudine in cui si narra dell’arrivo a Macondo dei diciassette figli illegittimi del colonnello Aureliano Buendía nel giorno del Mercoledì delle Ceneri: «Di ritorno a casa, quando il minore volle pulirsi la fronte, scoprì che il segno era indelebile, e che lo era pure quello dei suoi fratelli».
Da Magangué, sul Río Magdalena, mi sono imbarcato su una lancia a motore per raggiungere Mompós, uno stupefacente villaggio coloniale, da sempre famoso per la sua oreficeria. Dimenticato sulle rive di un braccio minore del fiume, è miracolosamente sfuggito allo scempio del tempo e della modernizzazione. Qui, alla fine degli anni ’90, avevo incontrato Luis Guillermo Trespalacios, che ancora fabbricava pesciolini d’oro come il colonnello Aureliano Buendía.
Sul Río Magdalena si conclude il romanzo L’amore ai tempi del colera e sullo stesso fiume naviga Simón Bolívar nel suo ultimo viaggio in Il generale nel suo labirinto. Sul Río Magdalena, a bordo di battelli a vapore che provenivano dai cantieri del Mississippi, Gabo studente viaggiò ben undici volte in un senso e nell’altro fra la costa caraibica e «la città di Bogotá, lontana e fosca».
Spingendomi oltre, lungo la via d’acqua, ho avuto una rivelazione: la cittadina di Sucre. Dal balcone del mio albergo affacciato sulla piazza principale, Isidro Álvarez Jaraba, studioso di quei luoghi remoti e delle loro leggende, mi ha indicato tre edifici allineati di fronte a noi: la casa dove Gabo ambienta uno dei racconti di I funerali della Mamá Grande, la casa dove la famiglia García Márquez visse dal 1939 ai primi anni ’50, e, in mezzo, la casa di fronte alla quale, per motivi d’onore, venne accoltellato nel 1951 Cayetano Gentile Chimento.
Il giovane, che diventa poi il Santiago Nasar di Cronaca di una morte annunciata, era di origine italiana e amico dei fratelli García Márquez. Ho visitato la sua tomba nel piccolo cimitero del villaggio ed è stato proprio qui, a Sucre, che, in una sorta di mostra improvvisata sotto un boschetto d’alberi polverosi davanti alla scuola del paese, ho esposto per la prima volta, di fronte a una classe attenta e incuriosita, una serie di fotografie dei miei viaggi precedenti. E anche qui a Sucre, nel boschetto polveroso e nella piazza, ho riconosciuto Macondo.
Come ad Aracataca e nei villaggi lungo la tratta della ferrovia che una volta attraversava le piantagioni di banane della compagnia nordamericana: Tucurinca, Prado Sevilla, Orihueca, Guacamachito, Río Frío, Neerlandia, Guacamayal. Il suono dei loro nomi mi ha indicato la strada da seguire. Le tracce di quel passato mi hanno portato fin dentro le dimore più antiche, sopravvissute all’oblio di cento anni di abbandono e solitudine.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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Fausto Giaccone, cresciuto a Palermo, si è laureato in architettura a Roma, dove ha iniziato a dedicarsi professionalmente alla fotografia seguendo le proteste giovanili del 1968. Ha lavorato sempre da fotogiornalista free lance, realizzando per varie testate reportage sociali e culturali. Ha collaborato con le principali riviste italiane e internazionali. Ha pubblicato i seguenti libri: nel 1987, Una storia portoghese (sulla stagione della Riforma Agraria del 1975 in Portogallo) per la galleria Randazzo/focus di Palermo; nel 2013, Macondo, il mondo di Gabriel García Márquez, ediz. Postcart, e Volti di Cavallino Treporti, ediz. Edifir. Alcuni suoi lavori sono stati acquisiti dalla Beinecke Library dell’Università di Yale.
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