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Educare alla migrazione

foto richichidi Valentina Richichi

La scuola è oggi un luogo in cui educazione e immigrazione costituiscono un binomio inedito e variamente interpretabile. Entrambi i concetti, esplorati singolarmente, schiudono universi disciplinari molto ampi e in continuo aggiornamento:  numerosi sono gli studi sull’immigrazione odierna, più antica è la scienza dell’educazione. Ma è solo quando la pratica quotidiana sovrappone i due termini, che il terreno di ricerche e azioni si fa accidentato e solleva dubbi di natura interpretativa. Si può, infatti, intendere il rapporto tra immigrazione ed educazione come una relazione asimmetrica fra educatori e alunni immigrati che adottino strategie di tipo assimilazionista. La relazione tra i due termini suonerebbe così come un “educare gli immigrati” a diventare italiani a tutti gli effetti. Quando invece l’immigrazione, da oggetto da circoscrivere diventa soggetto attivo e scaturisce una riflessione sull’identità stessa degli educatori, ecco che “educarsi alla migrazione” diventa la locuzione di favore dalla quale partire, verso una prospettiva che ricollochi noi cittadini come migranti della nostra stessa società.

Le discussioni sulla presenza di alunni e studenti immigrati nelle aule scolastiche e universitarie del nostro Paese hanno preso le mosse da una considerazione del fenomeno definito in termini di emergenza. Occorre tenere presente che il settore dell’educazione rappresenta soltanto uno degli ambiti nei quali è stata posta la questione della nuova società multiculturale, valutata dalle istituzioni e dal mondo della politica in modi spesso distanti tra loro. A fronte, infatti, di una società che manifesta l’esigenza di comprendere le conseguenze dei flussi migratori verso l’Italia, la politica ha fornito risposte e interventi situati alle due estremità opposte di una linea che va dalle strategie di inclusione sociale fino a quelle di assoluto rifiuto. Ma anche quando si tratta dell’estremità che manifesti apertura nei confronti delle culture “altre”, i rischi non sono minori. Si incorre, infatti, nelle mosse maldestre di chi, malgrado agisca in buona fede e in difesa di una categoria valutata come “debole”, non fa che accentuarne la diversità e accrescerne la marginalità sociale.

Nelle classi multiculturali, gli insegnanti sono i primi soggetti chiamati a rispondere a quella che oltre che un’esigenza sociale, è anche un richiamo a nuove forme di ricerca didattica. L’attenzione degli insegnanti si rivolge prevalentemente al cosiddetto “problema della lingua”: la non-competenza e conoscenza della lingua italiana sembrano costituire il solo ostacolo all’inserimento nella nuova classe. Superato tale ostacolo, l’alunno può finalmente dirsi “integrato”. Ma cosa vuol dire integrazione, e soprattutto: è mai stato lecito adoperare questo termine? Con “integrazione” si è spesso inteso l’inserimento e l’assimilazione degli stranieri nel tessuto sociale ospitante, attraverso retoriche che puntano a un annullamento o, al contrario, ad una accentuazione, delle loro identità di stranieri. Il fine di questa attenzione alle identità, percepite in conflitto con una certa identità autoctona, di cui si cerca di confermare una presunta unitarietà, è quello di provvedere nel minor tempo possibile a condurre la presenza straordinaria dell’Altro ad una condizione di normalità che possa richiedere sforzi sempre minori da parte delle istituzioni. Una simile dinamica è stata indagata negli anni Ottanta da Aihwa Ong, durante una ricerca sulla vita dei rifugiati cambogiani in California. La manipolazione dell’identità dei rifugiati scaturiva dalla loro collocazione all’estremità peggiore di un continuum che va da chi, per problemi di inserimento nel mondo del lavoro, dipendeva dal welfare, fino all’estremo positivo del buon cittadino americano, raggiungibile attraverso l’acquisizione dell’autonomia economica. Il modello di cittadinanza italiana non ha del tutto edificato simili pregnanze simboliche legate al mondo del successo individuale, così caldeggiato negli Stati Uniti, ma è concretamente legato all’acquisizione della lingua, non solo come carta d’ingresso al mondo dell’istruzione e del lavoro, ma come esclusivo percorso verso l’acquisizione della cittadinanza ideale.

Una ricerca che ho condotto tra il 2011 e il 2012 in una scuola primaria della città di Palermo, ha mostrato come si articolino alcune strategie adottate dall’Istituto e dagli insegnanti, rispetto ad alunni immigrati di seconda generazione, bambini cioè nati in Italia da genitori immigrati. Si tratta di scolari che non hanno vissuto l’esperienza della migrazione, ma che sono alle prese con cambiamenti quotidiani tra registri comunicativi domestici e scolastici. Ho riscontrato una simile contraddizione esistenziale, in particolare in un’alunna di origine cingalese, disorientata perché costantemente in bilico tra due universi: quello della scuola, dove non riusciva a trovare chiavi interpretative dei fatti che avvenivano intorno a lei, e quello della casa, dove la sua immaginazione era costantemente stimolata dal mito dello Sri Lanka, una terra di cui non aveva alcuna esperienza personale.

Per molti immigrati, acquisire la competenza dell’italiano corrisponde all’appropriazione di una parte di quello stesso potere che li tiene ai margini. Significativa è, in questo senso, l’acquisizione delle parolacce come strumento violento di reazione verbale e di difesa. L’apprendimento della lingua, come ci insegnano studiosi di pedagogia cognitiva come Piaget e Vygotskij, è un processo interazionale che necessita di una guida, piuttosto che di una somministrazione diretta verso un oggetto passivo. Chi apprende è sempre un soggetto attivo, in grado di codificare ed elaborare a suo modo la realtà con cui entra in contatto. D’altro canto, l’insegnante si trova a dover fronteggiare un compito di mediazione già a partire dal rapporto tra i programmi ministeriali e l’organismo-classe. Se poi, in quello stesso organismo, alcuni componenti denotano un vissuto familiare di immigrazione che crea distanza, il primo riconoscimento di tale peculiarità è affidato alla conoscenza o meno della lingua italiana. Ne deriva un senso di emergenza in grado di spiazzare anche chi vanta decenni di esperienza nel mestiere di insegnante. Sebbene la lingua costituisca il titolo preferenziale di trasmissione della cultura, i linguaggi sono parte dell’esistenza e – da quanto rilevato sul campo della mia ricerca – alcune realtà scolastiche si sono mostrate sensibili anche ad altre tematiche comunemente definite “interculturali”. Si tratta dell’adozione di strategie comunicative costruite attraverso pratiche didattiche come percorsi linguistici extracurriculari, abbinati a progetti annuali e a laboratori incentrati sulla conoscenza di alcuni caratteri tradizionali delle “culture altre”:  passano per spunti ludici e narrativi e sono realizzati alla luce della volontà di “integrare” gli alunni stranieri. L’iniziativa, per esempio, di una recita natalizia, è  spesso motivata dagli insegnanti come un’occasione in cui le famiglie di migranti possano trovare la serenità di constatare il pieno inserimento dei loro figli. Simili strategie perseguite nel segno dell’inclusione paradossalmente rischiano di condurre a situazioni che generano nient’altro che esclusione. Come già fatto notare da Barbara Pinelli, nell’ambito di una ricerca condotta a Bologna insieme alle donne immigrate, le retoriche culturaliste esacerbano le differenze culturali e costruiscono degli individui privi di soggettività, spesso identificati da etichette, prive di un concreto significato, come: “i cinesi” , “i rumeni”, “i marocchini”. Un rischio che si traduce, nelle scuole, con l’adozione di spunti “esotici”, esplicitamente riferiti al “compagno tunisino” e a tradizioni che trovano un significato maggiore nell’esperienza dei suoi genitori, piuttosto che nella sua.

Ulteriori problemi sono legati anche alla fissità degli orizzonti culturali cui il Paese di accoglienza è legato, quando invece sarebbe auspicabile rivedere le metodologie didattiche alla luce di un ambiente nuovo quale è la nostra società in movimento. Interessanti, a tal proposito, sono le pagine di Straniero in classe di Davide Zoletto, in cui si propone un nuovo posizionamento dell’insegnante, chiamato a farsi straniero egli stesso rispetto alla cultura cui ha fatto finora riferimento, scomponendola e ricomponendola insieme agli alunni. Nel concreto, si auspica una lezione che muova da punti di vista molteplici, in grado di ridisegnare profili concettuali dati per scontati. Stilare insieme agli alunni un elenco di caratteristiche fisiche dovrà diventare un momento in cui si valuteranno tanti modi possibili di descrivere il personaggio di una fiaba: la figura della principessa è quasi sempre rappresentata da caratteristiche somatiche del tipo caucasico, ed è esattamente in questa forma che anche alunni di origini lontane la disegnano. Dietro un certo tipo di rappresentazione, vive una implicita concezione di tipo gerarchico che, a mio parere, andrebbe demolito, per lasciare posto a principesse dagli occhi a mandorla e supereroi neri e riccioluti. L’insegnante che si ponga come straniero, dovrà, di volta in volta, ridiscutere i suoi assunti tradizionali e dubitare della certezza con cui ha finora consigliato ai propri alunni di utilizzare i pennarelli rosa per colorare il volto della principessa.

In senso più lato, la dimensione del contatto tra l’autoctono e lo straniero non dovrà situarsi nella pratica di condurre quest’ultimo al di là di un confine che lo separa dalla comune accettazione, ma nell’incontro di entrambi in uno spazio comune fatto di confronto e relazione, dove, individuate le differenze, saranno le somiglianze a farsi interpreti pertinenti del contatto tra le persone, le loro storie e la loro immaginazione.

Occorrerà dunque ridiscutere concetti come quello di “integrazione”,  situato in una retorica dell’accoglienza, ma che necessita di liberarsi di quella “g”, come proposto dal Ministro Cécile Kyenge, perché diventi realmente un processo di Interazione e di crescita culturale collettiva, un nuovo modo di concepire l’istruzione scolastica e di considerare tutti gli alunni come attori principali nella costruzione del futuro.

Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013

Riferimenti bibliografici

Ong Aihwa, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.

Pinelli Barbara, Donne come le altre. Soggettività, relazioni e vita quotidiana nelle migrazioni delle donne verso l’Italia, Ed. It, Firenze-Catania, 2011.

Richichi Valentina, Antropologia tra il banco e la lavagna. Una ricerca sulle dinamiche interculturali in classe, tesi di laurea, Università di Palermo, anno accademico 2010-11

Zoletto Davide, Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.

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