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Fruizione simbolica nella Sicilia antica. Il Triskelés

Triscele-svastikadi Lorenzo Mercurio

La simbologia che oggi viene identificata e fruita come prettamente rappresentante del territorio regionale siciliano presenta un’ampia varietà di elementi. Simboli antichi e nuovi, più volte risemantizzati, sono esposti e fruiti come legittimi portavoce del ‘popolo’, della ‘Nazione’ o della Regione siciliani: chi anche oggi indossa spille o stemmi in tessuto su cappellini o magliette si appella a una loro indefinita antichità e a una loro millenaria o secolare funzione rappresentatrice della Sicilia. La genesi o la derivazione di molti dei simboli siciliani si perde nella storia e molto più spesso si intreccia con il mito, con il ‘sentito dire’, con una tradizione a cui viene, di volta in volta, dato un nuovo senso secondo il contesto situazionale o, più nello specifico, sociale, storico, politico o economico.

Appare utile sottolineare che le plurime versioni degli elementi simbolici che vogliono qui essere trattati costringono a iniziare il discorso da ciò che oggi è attestato e in qualche modo ‘congelato’ in una descrizione ufficiale e istituzionale, per poter così essere in grado di ricercare gli archetipi cui tali simboli contemporanei si sono ispirati e quale sia stato il loro uso e significato nel corso del tempo.

‘Capostipite’ dei simboli rappresentanti oggi la ‘sicilianità’ tout court, che ritroviamo all’interno dei simboli ufficiali della Regione Siciliana, è il cosiddetto triscele siciliano (τρισκελής, triskelés, letteralmente ‘tre gambe’), più spesso genericamente chiamato Trinacria, presente al centro della bandiera dell’Istituzione regionale e dei simboli ad essa connessi, ossia l’immagine delle tre gambe nude, piegate al ginocchio, che partono da un unico punto e che disegnano un andamento circolare che può essere orario o antiorario, con al centro la testa di una donna e delle ali all’altezza delle orecchie, i cui capelli, dalle fattezze di serpi, si aggrovigliano a tre spighe di grano che si trovano tra una gamba e l’altra. Si considera il triskelés siciliano ‘capostipite’ di tutta un’altra serie di simboli perché esso è in sé una componente formale e sostanziale ben più antica ed essenziale di tutta una serie di altri simboli sorti in epoca moderna e contemporanea sul territorio siciliano, ad iniziare da stemmi comunali fino alla composizione di bandiere come quella adottata dal Governo Siciliano rivoluzionario del 1848, dai separatisti degli anni ’40 del XX secolo o dalla stessa Regione Siciliana da solo una ventina d’anni.

Simboli, come il triskelés, hanno avuto una larghissima diffusione nello spazio, nel tempo e in società e culture apparentemente molto distanti tra loro: infatti, si ritrovano oggi simboli triscelici, anche molto somiglianti a quelli che rappresentano la Sicilia, in aree come l’isola di Man (nel Mar d’Irlanda), mentre le forme mediterranee più arcaiche (tra il VI e il III secolo a.C.) sono presenti in numerosi manufatti, soprattutto numismatici, della Lycia, della Panfilia, della Cilicia, della Misia, del Troade, della Tracia, dell’Attica, di Creta, oltre che di Siracusa, di Palermo, di alcune zone della Calabria, della Basilicata e della Campania (Vismara; Jenkins). Con la conquista romana della Sicilia, continuano a essere coniate monete siracusane e panormitane con impresso il triscele siciliano, con l’aggiunta regolare delle spighe di grano tra una gamba e l’altra.

Un simbolo triscelico stilizzato è già noto anche alle popolazioni celtiche, le quali coniano una propria moneta di scambio con la sua effigie almeno fino alla sconfitta di Vercingetorige ad opera di Giulio Cesare (27 a.C.). Il triskelés celtico è solo un ulteriore esempio da poter prendere in causa al fine di evidenziare quanto tale simbolo abbia riscosso un successo anche presso popolazioni costituenti solo un tassello apparentemente periferico dell’ambito mediterraneo. Il suo significato archetipico non sembra affatto distare da quello di altre forme di triskelés più centralmente mediterranee.

Ma se è vero che non è necessario ricercare chissà quali intricate ragioni di un simile ‘successo’ simbolico, è altrettanto vero che da sempre l’uomo viaggia, intrattiene contatti di diverso tipo con popolazioni spesso anche molto distanti dalla realtà socio-culturale di partenza: si ha ragione di credere che già nel VI millennio a.C. «genti accomunate dall’appartenenza a un comune ceppo genetico, grosso modo indoeuropeo, occuparono progressivamente il Continente [europeo], eliminando o riducendo le precedenti presenze [...]. L’esito finale di questa invasione [...], in alcuni millenni, mutò completamente l’identità antropologica dell’Europa» (Buttitta 2004, p. 5). E ancora, «come è noto [...] già nel II millennio a.C., i Paesi del Mediterraneo erano fortemente interessati dalla rete commerciale istituita dai mercanti micenei, sicuramente già preceduti da quelli minoici» (Buttitta 1996, p. 116). Infatti, simboli simili al triskelés, sebbene diversamente stilizzati e talvolta con l’aggiunta di una o più ‘gambe’ (o ‘braccia’), sono legati alle religioni orientali quali il Buddhismo, l’Induismo o il Giainismo, ma anche all’Islām, che ha probabilmente assunto come proprie delle influenze simboliche pre-musulmane adattandole, a partire dalla calligrafia cufica, agli stessi nomi di Muhammad, di Alī o di Dio (Bagdasarov), fonte di «chiarissima Luce», per usare un’espressione dello stesso Corano (Bausani). In taluni edifici cristiani appare altresì il simbolo di una ‘croce uncinata’, come nel monastero di Lambach, in Austria o nella chiesa parrocchiale di Rosazza, in Piemonte. Nel Buddhismo, nell’Induismo e nel Giainismo, questo stesso simbolo assume il nome di svāstikah – in sanscrito, ‘essere fortunato’ (Wilson) – e indica augurio e buona fortuna. Con significato affine, lo svāstikah è addirittura introdotto, prima delle due Guerre Mondiali, negli Stati Uniti in cartoline augurali con su scritto Good luck (‘Buona fortuna’). Ma simboli dalla stessa forma sono adoperati anche in America dai Maya o da tribù amerindie come quella dei Navajo o degli Hopi dell’Arizona, o ancora in Africa tra gli Ashanti del Ghana. Tutto ciò sembra confermare che «i prodotti culturali [...] assumono progressivamente realtà autonoma rispetto ai soggetti storici e ai processi mentali da cui si originano» (Buttitta 1996, p. 99), in una diffusione simbolica geograficamente molto ampia che non esclude rielaborazioni di significato rispetto a quello per cui il simbolo è stato ideato en archè. Proprio l’archetipo, che ha dato il via all’ideazione di un tale processo simbolico ancor oggi così diffuso e pregno di significato, può essere individuato in quello «del suo emblema circolare o sferico, che preesiste assolutamente all’utilizzazione tecnica e utilitaria della ruota, del trasporto e del carro» (Durand 1972, p. 325). Sembra infatti che «la sfera nel suo uso simbolico [sia] da accostare alla ruota zodiacale, simbolo universalmente ammesso e che si ritrova quasi identico a Babilonia, in Egitto, in Persia, nelle Indie, nelle due Americhe come in Scandinavia. Etimologicamente Zodiaco significa “ruota della vita”. […] Solo tardivamente […] lo zodiaco avrebbe acquistato una significazione solare. Primitivamente lo zodiaco è lunare: gli antichi Arabi lo chiamano “cinto di Ishtar” e i Babilonesi “case della Luna”. La ruota non ha d’altronde preso che molto tardi una accezione solare: quando per ragioni tecniche si è munita di raggi […]. Ma primitivamente la ruota zodiacale, come quella del calendario, è una ruota lunare, di legno pieno, rafforzata da un triangolo o da un disegno a quadretti di panconi, il che le dà suddivisioni interne aritmologicamente significative. Lo stesso accade colla svastica, che per lo più è andata procedendo verso un simbolismo lunare, ma che primitivamente porta nel suo centro la falce lunare. […] Scopriamo d’altronde lo stesso simbolismo, ma con una divisione ternaria, nel triskele, figura a tre braccia o a tre gambe o ancora formata da tre pesci, emanante da un cerchio» (Ibidem).

Inoltre, nella società indù vi è anche una sostanziale differenza tra l’andamento orario e quello antiorario, riguardo a quest’ultima tipologia simbolica: il primo, che riguarda la vera e propria svāstikah, ha valenza solare; il secondo, che riguarda il cosiddetto sauvastika, ha principio femminile ed è emblema della dea Kālī. Proprio all’interno della civiltà prevedica della Valle dell’Indo sarebbero apparsi i primi esemplari di svāstikah, il quale viene «disegnat[o] in un senso o nell’altro [nei siti di] MohenjoDaro e Harappa [(III-II millennio a.C.)]. Il segno compare sulle ceramiche e inciso sui sigilli» (Ries J. 2008, p. 183). Ma allo stesso periodo appartengono anche svāstikah ritrovate in Anatolia, presso AlacaHoyük, come presso la civiltà elamita, e successivamente nel Caucaso, a Cipro, a Rodi, ad Atene, in Macedonia, Tracia, Creta, Lycia, Paflagonia e ancora nella Magna Graecia, a Pompei e presso i Celti, in Gallia, in Germania e in Scandinavia.

Si ha dunque a che fare con la più peculiare attitudine dell’uomo, ovvero ciò che lo rende l’unico animale che riesca a costruire, proporre e consumare simboli e a rimanervi invischiato come in una ragnatela (Geertz), che diventa di fatto il suo habitat: la discretizzazione e riduzione della complessità caotica in un cosmo intelligibile. Il concetto astratto della ‘rotazione’, percepito fisicamente e universalmente dall’uomo stesso nell’ambiente in cui vive, tramite l’osservazione astrale e la sequenza ciclica delle stagioni, viene da egli stesso significato e adoperato come ‘scintilla’ che porta a manifestazioni simboliche analoghe all’interno di culture apparentemente anche molto distanti tra loro.

Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013
Riferimenti bibliografici

Aigner D. J.

2000, The swastika symbol in Navajo textiles, DAI Press, Laguna Beach (California)

 

Amisano G.

2004, La storia di Roma antica e le sue monete, Diana Ed., Cassino (FR)

Bagdasarov R.

2001, Svastica, sacro simbolo, Saggi etnoreligiosi, Mosca, p. 432

Bausani A. (a cura di)

1998,Il Corano, BUR, Milano, IV, v. 174

Buttitta A.

1996, Dei segni e dei miti, Sellerio, Palermo

2004, I nuovi schiavi. Ovverosia del multiculturalismo improbabile, in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, Anno V-VII, n. 5-7

D’Agostino G.

1996, Segni e simboli nell’arte popolare siciliana, ed. Museo Internazionale delle Marionette A. Pasqualino, Palermo

Durand G.

1972, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Ed. Dedalo, Bari

Geertz C.

1973, The interpretation of cultures, Basic Books, New York

Jenkins J. K.

1990, Ancientgreekcoins, Seaby, Londra, 1990, pp. 1-182

Ries J.

2008, Simbolo, Jaka Book, Milano

Vismara N.

2001, Monetazione arcaica della Lycia. Prime rilevanze circa l’approvvigionamento metallico, in “Revuedesétudesanciennes”, n. 103

Wilson T.

1896, The Swastika: The EarliestKnownSymbol, and ItsMigrations; with Observations on the Migration of CertainIndustries in Prehistoric Times, in “Annual report of the Board of Regents of the SmithsorianInstitution”, Washington

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