speciale cirese
di Lia Giancristofaro
Alberto M. Cirese era da un lato logico e universalista, dall’altro molto presente sul terreno: dialogava con le realtà locali, cercando poi di interpretare i documenti e di produrli in modo corretto e adeguato.
Cinquant’anni dopo la pubblicazione di Cultura egemonica e culture subalterne (1971), oggi ripenso a come, a partire dalle sue intuizioni ed elaborazioni, si sia arricchita, in questo lasso di tempo, la nozione di “tradizione” negli studi folklorici, etnologici e antropologici italiani.
Facendo una sommatoria del discorso, possiamo dire che, essendo una categoria scientifica occidentale, nonché un concetto incarnato e attivo all’interno di gruppi sociali, la tradizione può essere pensata come: a) il processo stesso di trasmissione culturale (la tradizione è il modo in cui avviene la trasmissione); b) uno strumento per cogliere meglio la temporalità, nel senso che la modernità (o il progresso) è ciò che si scontra con la tradizione; c) un patrimonio di beni e/o habitus di un gruppo specifico che, appunto, si identifica in tale patrimonio e desidera trasmetterlo con una connotazione morale, ispirata alla sostenibilità ambientale e ai cosiddetti “diritti dei popoli indigeni”. Quest’ultima connotazione ha aperto la strada sia alle valutazioni politiche e all’impegno critico con i Ministeri della Cultura e le amministrazioni dei beni culturali, dei musei e degli archivi (con cui Cirese volentieri interloquiva), sia alla cooperazione internazionale che passa per l’UNESCO e per le Nazioni Unite.
Tutti questi usi intellettuali della “tradizione” sono presenti in Cirese, che li analizzava passando dalla dimensione locale a quella globale, in un viaggio nella gerarchia dell’universo. Idealmente, questo viaggio cominciava nelle realtà locali: in Molise, Abruzzo, Sardegna, Lazio e in tutti i luoghi in cui Cirese visse e sperimentò la vita sociale, per arrivare alla sua casa di Roma, sita nel quartiere dei Prati Fiscali, dove lo incontrai l’ultima volta nel 2001. Non sono stata un’allieva diretta di Cirese, ma l’ho incontrato più volte negli anni Ottanta e Novanta, ascoltando sue lezioni e conferenze in Lazio, Abruzzo e Molise. Mi piace ricordare quell’ultimo incontro del 2001, perché contiene una piccola summa del suo interesse verso un territorio specifico, l’Abruzzo.
Nel quartiere dei Prati Fiscali, quel giorno andavo a trovare Ireneo Bellotta, assistente storico del compianto Alfonso M. di Nola. Per caso, lungo la strada mi trovai di fronte ad Alberto M. Cirese, che abitava a poche centinaia di metri e camminava lentamente con una signora raffinata che, in seguito, capii essere la moglie Liliana. Lo salutai timidamente e lui mi chiese chi fossi. Speravo di non disturbarlo troppo, ma i suoi occhi sentendo il mio cognome si illuminarono in un collegamento col terreno e coi luoghi, dunque mi bloccò e mi riempì di domande: cosa fai? Come sta tuo padre? La “Rivista Abruzzese”, funziona ancora? Sei tu attualmente a dirigerla? Chi ti segue nel dottorato in Sicilia? Conosci il mio saggio su Verga pubblicato ne “La Lapa”?
In quei mesi, con la preziosa correlazione di Antonino Buttitta, stavo progettando la tesi di dottorato su Giovanni Verga e l’antropologia, e di Cirese mi ero già imbattuta negli interessantissimi Appunti su Verga e il mondo popolare: un procedimento stilistico nei Malavoglia (“La Lapa”, II, 1954, 2-3). Cirese sembrava soddisfatto dalla mia conoscenza dei suoi Appunti, che in effetti cinquant’anni prima avevano aperto la strada di una rilettura antropologica della narrativa rusticana di Verga. Cirese era incuriosito dal nome del corso di dottorato che frequentavo (“Lingua e Letteratura delle regioni d’Italia”, diretto da Giovanni Oliva): apprezzava molto che esso fosse dedicato alle regioni d’Italia, e che riportasse i dottorandi sui terreni regionali.
Dell’Abruzzo e dei suoi colleghi demologi ricordava ogni cosa: dovevo necessariamente conoscere il suo lavoro pubblicato su “La Lapa”, perché egli aveva donato i quattro numeri a mio padre Emiliano negli anni Sessanta, quando quest’ultimo si occupava del culto del Verde Giorgio in Abruzzo seguendo appunto il prezioso tracciato ciresiano contenuto ne I canti popolari del Molise (Rieti, 1957, vol. II). Cirese ricordava che si erano incontrati a Pescara, nel 1968, al Convegno sul folklore abruzzese promosso dall’ente provinciale per il Turismo, e snocciolava nomi, vicende, iniziative pubbliche e private nel campo dei musei etnografici, come se fossero fatti accaduti pochi mesi prima.
La ragnatela di culti balcanici del Verge Giorgio era stata una brillante intuizione ciresiana degli anni Cinquanta. Egli, muovendosi nei paesi molisani, aveva notato che l’usanza del giovinetto itinerante e coperto di frasche era attiva, fino al Secondo Dopoguerra, solo nelle antiche comunità slave di quelli che, all’epoca, erano ancora “gli Abruzzi”; nel 1954, condusse una indagine specifica ad Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice Slavo, paesi in cui si parlavano ancora i dialetti balcanici. In seguito, su questo argomento tornò mio padre Emiliano, sia per via dell’incoraggiamento di Cirese, sia perché a Pescara, negli anni Sessanta, aveva incontrato un gruppo di studiosi di Spalato che appunto svolgevano ricerche su questo argomento, ossia lo sviluppo del culto del Verde Giorgio dalla costa dalmata alla costa italiana come effetto e persistenza delle migrazioni. Migrazioni che, nel corso degli ultimi cinquecento anni, avevano portato tante comunità balcaniche a spostarsi sulla costa italiana, e avevano lasciato in eredità nomi, cognomi, usi, culti e leggende mitiche sull’arrivo leggendario via mare.
Su questo fatto storico avevano scritto Gennaro Finamore e Corrado Marciani, ad esempio. Mio padre approfondì l’argomento ne La primavera religiosa di Nuova Cliternia (Lanciano, Cet 1966), e in due articoli sulla “Rivista Abruzzese”, trimestrale di cultura che all’epoca dirigeva, cioè Tracce del verde Giorgio e degli usi di maggio in Abruzzo, in “Rivista Abruzzese” (XXV, 1972, n. 1: 30-39) e Ancora tracce del Verde Giorgio in Abruzzo, la pagliaretta di Atessa, in “Rivista Abruzzese” (XLII, 1989, n. 4: 288-297). Ne scrisse, in seguito, anche Alfonso M. di Nola (Slavi ed albanesi nel Molise, in “Rivista Abruzzese”, LIV, 2001, 1: 23-31), facendo importanti considerazioni sulle abitudini endogruppali di queste colonie, dovute anche alla difficoltà di integrazione degli immigrati con le popolazioni locali, e sulla persistenza di linguaggi e tradizioni.
Il rito del Verde Giorgio, denominato pagliara o majo, segnalava il primo di maggio tramite la processione di un giovane che, indossata una “maschera a capanna” di canne, ramoscelli e fronde, andava ballando e cantando per le vie del paese la seguente filastrocca in dialetto slavo: “Chi ha detto che maggio non sarebbe venuto\ esca fuori e lo trova vestito”. A San Felice Slavo, invece, il canto “Maja, kata maja, oteja maja” (maggio, ecco maggio che è tornato) veniva eseguito da ragazzi che, saltellando, accompagnavano un giovane con indosso un cono di vimini a mo’ di tunica, sul quale erano appesi rami di ciliegio, piante di fave e rami fioriti.
Negli anni Ottanta, nei paesi di interesse la festa era stata reintrodotta ad opera delle Pro-loco e di altre associazioni locali, che l’hanno contornata di elementi folkloristici di richiamo turistico, come la banda, la fisarmonica e le danze in costume. Questo rito era attivo (e tuttora lo è) pure nella zona di Schiavi d’Abruzzo, antica colonia orientale della valle del Trigno, ai confini col Molise. La festa del Majo è sopravvissuta anche a San Giovanni Lipioni, sempre sulla Valle del Trigno, dove il primo maggio va in processione il majo, una grossa e beneaugurale ghirlanda di fiori, fave e frasche, tramite la quale si chiede protezione al sovrannaturale per la stagione produttiva che è alle porte. La comitiva del majo, preceduta dalla banda, si ferma dinanzi ad ognuna delle case del villaggio, dove canta il canto di questua [1], riceve in dono uova e altro cibo e suggella l’augurio ricambiando un mazzetto di fiori della ghirlanda, che alla famiglia porterà fortuna tutto l’anno.
Alberto M. Cirese ricordava tutto di quella sua preziosa inchiesta sul terreno degli anni Cinquanta, e l’aveva seguita, nei suoi sviluppi, continuando a raccogliere la documentazione prodotta da altri, come appunto mio padre, o Ernesto Giammarco, di cui conosceva e menzionava ad esempio la Grammatica delle parlate d’Abruzzo e Molise (Centro di Studi Abruzzesi, Pescara, Istituto Artigianelli 1960). Ma la “Rivista Abruzzese”, che dal 2000 ho l’onere di dirigere, gli era cara anche per un altro motivo. Infatti, la Rivista, fondata a Chieti nel 1948 presso la Biblioteca Provinciale “Angelo Camillo De Meis” dallo storico e folklorista Francesco Verlengia [2], nel 1952 aveva ospitato uno dei suoi primi saggi, tratto da una attenta analisi sul terreno: Alcuni canti popolari abruzzesi raccolti in provincia di Rieti, V (1952, n. 2: 40-46). Il saggio venne poi ripubblicato e ampliato su “Lares” nel 1954 (Una raccolta inedita di canti popolari reatini: con una notizia sugli studi di tradizioni popolari in Sabina, Lares, XX, 1954, ¾: 87-112).
Ma Cirese era rimasto molto legato alla rassegna abruzzese, che nella corrispondenza con mio padre, divenutone direttore nel 1963 per volere dello stesso Verlengia, usava definire come la «sorella giovane di Lares». Per questo motivo, con una certa severità, in merito alla mia direzione della Rivista Abruzzese, in quel nostro fortuito incontro del 2001 mi disse che di non prendere sottogamba una simile impresa scientifica che, a suo avviso, dovevo ancora dimostrare di saper condurre. Io pensai di rassicurarlo dicendogli che comunque la direzione editoriale restava a mio padre perché io nel frattempo avrei proseguito le mie ricerche all’estero. Ma non ottenni l’effetto sperato, perché bruscamente si accomiatò, raccomandandomi invece la massima attenzione per la testata regionale e mettendomi in guardia da un facile desiderio (un desiderio che definì “ideologico”) di fuga verso l’EHESS di Parigi, verso l’università di Toronto ed altre realtà straniere a cui ero legata. Da quello, compresi il valore che, per lui, avevano i territori, e la funzione che egli attribuiva alle istituzioni culturali periferiche per realizzare lo studio delle culture e, al tempo stesso, il socialismo.
Il terreno abruzzese-molisano aveva segnato profondamente Cirese: a Pescara, nella sua introduzione ai lavori del Convegno sul folklore abruzzese (1968), aveva messo a nudo un asse tematico che è tuttora al centro delle nostre riflessioni: quello della tensione positiva tra le ragioni del cosmo e quelle del campanile, come recitava, trent’anni dopo, la sua raccolta di saggi Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali (Siena, Protagon 2003). Il rapporto tra le ricerche locali e gli sviluppi delle scienze sociali e umanistiche crea una tensione intellettuale che si dibatte tra la chiusura autarchica e autoreferenziale del campanilismo e l’altrettanto pericolosa fuga dalla propria realtà e dalle proprie responsabilità, tipica del cosmopolitismo. Nel 2001, quella sua severa raccomandazione di salvaguardare la testata storica della demologia abruzzese conteneva una spinta verso l’impegno diretto ed esplicito sul territorio: un impegno che fosse lontano da dilettantismi e compiacimenti campanilistici, e che avesse il compito di attestare la ricerca regionale sui livelli scientifici internazionali. Del resto, l’articolazione su scala provinciale e regionale della ricerca demo-etno antropologica fu una costante delle sue campagne, e si rivelò in grado di fornire analisi minuziose, fatte di comparazioni e verifiche intorno al tema generale di cruciale importanza: quello della trasmissione culturale e della circolazione culturale centro-periferia, intorno al quale siamo ancora riuniti.
Con quelle parole, nel 2001 Cirese mi lasciò attonita nel 2001, ma oggi più che mai mi sono chiare, secondo la formula gramsciana della verità “rivoluzionaria”. Avevo smania di uscire dall’Italia, di fare ricerca in Nordafrica, negli USA, e lui considerava questo “troppo ideologico”, poco produttivo, e forse davvero lo era, per certi aspetti.
Nel 2007, Cirese scrisse una bella prefazione a Riti propiziatori abruzzesi, un volume etno-fotografico da me curato, pubblicato nella collana Etno-antropologia e cultura del territorio dell’editore Textus dell’Aquila. Il volume raccoglieva le foto di Giuseppe Iammarrone, grande artista della fotografia etnoantropologica, la cui cospicua e preziosa documentazione racconta riti propiziatori, oggi detti “feste tradizionali”: dalla festa marinara di S. Andrea di Pescara ai Serpari di Cocullo, dal Bue di S. Zopito di Loreto Aprutino alle Panicelle di Taranta Peligna, dalle Verginelle di Rapino alla Corsa degli zingari di Pacentro. Gli scatti di Iammarrone intrecciano i riti e i gesti codificati connettendoli con il territorio, con le sue asprezze, con la sua orografia, con le contaminazioni di altre culture, e sono di sicura utilità per l’approfondimento etno-antropologico.
Cirese, ormai molto affaticato, nella sua prefazione cercò di far entrare la poesia nell’imbuto della prosa: la poesia di un mondo che non è la degradazione del mondo egemonico, ma un mondo “diverso”, cresciuto su se stesso con movimenti che hanno fisionomia propria. Questo si percepisce dal lessico usato da Cirese per descrivere l’obbiettivo etno-fotografico, «che così bene coglie, rappresenta, esprime il senso della vita tradizionale. Ora alla mente tornano, dalla mia remota infanzia marsicana, la femmina di carta, gigantesca, che una volta volò in cielo, bruciando, a Carnevale; il grande pane dolce e giallo delle Pasquette, a Pietraquaria; il canto acuto delle pellegrine, nell’aria fredda d’inverno, a piedi, di ritorno dal Santuario» [3].
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Note
[1] Riportiamo una parte del lungo canto del majo di San Giovanni Lipioni, registrato da E. Giancristofaro nel 1992: “Apprisse lu Maje vè l’Ascenze (ndr., l’Ascensione)\ L’urie (ndr., orzo) ha spicate e lu grane cumenze\ Vegna venga Maje, e venghe la bon anne\ A chesta case ce dà entrà ddu nore\ E se è bone ce pozza fa l’anne…”, in Emiliano Giancristofaro, Tradizioni popolari d’Abruzzo, Roma, Newton Compton 1996: 24.
[2] Francesco Verlengia, etnologo e storico (Lama dei Peligni 1890-Chieti 1967), fraterno amico di Giovanni Papini, Paolo Toschi ed Eugenio Cirese (padre di Alberto M.), nel 1947, sull’onda della nuova situazione politico-sociale, fondò la “Rivista Abruzzese”, riprendendo la nota testata fondata a Teramo nel 1886 (lungamente diretta da Giacinto Pannella). Nel 1957, con Paolo Toschi organizzò a Chieti il VII Convegno nazionale delle Tradizioni Popolari (atti pubblicati da Leo S. Olschki di Firenze).
[3] Alberto M. Cirese, Presentazione a Giuseppe Iammarrone, Riti propiziatori abruzzesi, con testi di Lia Giancristofaro, Textus, L’Aquila 2007: 8-9.
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Lia Giancristofaro, Ph.D., DEA, è professore associato di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Chieti-Pescara. Si occupa di diritti umani e culturali, di culture folkloriche e popolari e delle nuove responsabilità politiche delle ONG. In rappresentanza di SIMBDEA, ha osservato diverse sessioni dell’Assemblea Generale degli Stati-Parte della Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. Tra le sue pubblicazioni: Il segno dei vinti, antropologia e letteratura nell’opera di Giovanni Verga, 2005, pref. di Antonino Buttitta; Riti propiziatori abruzzesi, 2007, pref. di Alberto M. Cirese; Tomato Day, il rituale della salsa di pomodoro, 2012; Il ritorno della tradizione. Feste, propaganda e diritti culturali in un contesto dell’Italia centrale, 2017; Cocullo. Un percorso italiano di salvaguardia urgente, 2018; Politiche dell’immateriale e professionalità demoetnoantropologica in Italia, 2018; L’avenir du patrimoine, Parigi 2020 (con Laurent Sébastien Fournier); Patrimonio culturale immateriale e società civile, 2020 (con Pietro Clemente e Valentina Lapiccirella Zingari); Le Nazioni Unite e l’antropologia, 2020 (con Antonino Colajanni e Viviana Sacco).
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