di Alberto M. Cirese [*]
Premessa
Mi è capitato di recuperare in modo inaspettato, fra i miei appunti presi nel corso di incontri su temi di antropologia museale risalenti agli anni Novanta, la trascrizione di una conferenza tenuta dal prof. Alberto M. Cirese a Pescara il 1 febbraio 1990. Cimelio di un’archiviazione cartacea allora predominante su quella digitale, il testo è riemerso in tutta la sua freschezza e lucidità. Superata l’emozione del ritrovamento proprio nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita dello studioso, la lettura non poteva che rinverdire memorie e stimolare considerazioni.
La conferenza risale al periodo in cui Cirese iniziava a frequentare con una certa regolarità Pescara e il Museo delle Genti d’Abruzzo, a pochi mesi dall’inaugurazione del primo lotto di sale (nella nuova sede presso l’ex bagno penale borbonico) e in vista dell’incarico di consulente sugli allestimenti del secondo lotto affidatogli di lì a poco.
Oggi – a più di trent’anni di distanza – ciò che credo colpisca maggiormente è l’attualità degli argomenti trattati e delle riflessioni che Cirese ha espresso con la consueta cristallina profondità e consequenzialità di ogni suo ragionamento.
Mi riferisco, ad esempio, al valore del tempo e del lavoro nella società contadina correlato a quello ben diverso della società industriale, ai «saperi incorporati» come algoritmi che hanno fatto funzionare i meccanismi di quel mondo. Penso anche al richiamo, conciso ma penetrante, alla ricerca spesso aleatoria da parte di alcuni di una identità locale come testimonianza di unicità culturale.
Ma penso soprattutto al pacato appello contro l’illusione dell’inesauribilità delle risorse cui l’umanità attinge senza scrupoli e dunque per un rapporto più ragionevole e maturo con la natura. Argomenti, oggi più che mai, dolorosamente attuali.
Infine, avere ora sotto gli occhi il testo tratto da una registrazione audio, se a parlare era Alberto Cirese, provoca una suggestione particolare per diversi aspetti. Non è come leggere un suo scritto, già sottoposto alle revisioni e rifiniture del caso, nè si tratta di una lezione accademica, ma di una conversazione rivolta a un pubblico più vasto. Da qui l’impronta colloquiale del discorso, segnato da una leggerezza che tuttavia non abbandona mai i binari ineludibili della logica.
Allora la trascrizione, volutamente fedele alle parole ascoltate un tempo, ancora adesso aiuta a ricordare di quel discorrere pacato e stringente i toni, i ritmi, le pause, la chiusura netta di certe frasi. E rinnova il senso duraturo degli insegnamenti che vi sono contenuti.
Anna Rita Severini
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Quando si tratta di musei contadini, per gente della mia età e del mio tipo di giovinezza trascorso in un paese contadino, la prima impressione è quella di aprire una porta ed entrare nella casa della nonna, è ritrovare l’infanzia.
È questa una delle componenti forti delle ragioni della rinascita spontanea di questa museografia diversa dalla grande museografia archeologica e storico-artistica. Questa che è diventata in qualche caso un’eccessiva voga dei musei contadini non ha molti anni dietro le spalle.
Siamo nel ’70 – ’75. Non che non esistessero già dei musei di tradizioni popolari, ma la spinta decisa alla periferizzazione, cioè alla creazione di musei cittadini, e addirittura paesani, è una spinta che viene dal basso, non è nata nell’università. Come nel caso del gruppo bolognese della Stadura [1], è nata da ex mezzadri che cominciano un’esperienza. Sulla forza di che cosa?
Una volta non si poteva dire, poteva dirlo solo Pasolini, a lui si perdonava la parola «nostalgia». Cioè senso di un tempo che è stato nostro e se n’è andato, per certi versi infame e tuttavia pieno di bellezza. Il concetto di nostalgia non è poi tutto da respingere, soprattutto se «nostalgia» in qualche modo significa coscienza dei prezzi pagati.
Uno degli ex mezzadri della Stadura disse una volta: «Adesso vi faccio vedere quanto sono belli questi oggetti, così capite quanto stavamo male». Sembra un discorso completamente sconclusionato, che però dà l’avvio ad una riflessione. Stiamo meglio oggi, è indubbio, in generale, mediamente, tutti e fortemente meglio.
E quella Marsica attraversata oggi così velocemente, con ogni tanto le ferite delle arcate di cemento in mezzo alle montagne … le arcate di cemento sono il prezzo che abbiamo pagato per poter andare da Roma a Pescara in due ore e mezza.
Prezzi pagati ce ne sono stati parecchi. Uno a me pare fondamentale: la rottura della continuità di vita domestica, lavorativa, sociale, culturale del mondo contadino. Una continuità di vita che l’industria ha necessariamente spezzato.
Il tempo libero è un’espressione che è nata con la società industriale. Nella società contadina esisteva un vuotarsi di un lavoro e riempirsi di un altro. Per esempio, i tappeti erano i tempi vuoti di altre occupazioni che vengono capitalizzati.
Un proverbio dice che il pastore, quando non sa che fare, «’ntacca la mazza», cioè lavora e intaglia il bastone. Una continuità che vediamo nella vita domestica, attraverso l’immagine – ad esempio – della donna davanti al camino che guarda la pentola dei fagioli, culla un bambino, sferruzza e contemporaneamente chiacchiera con una vicina. Questo non è lavoro, ma capitalizzazione dei tempi vuoti dal lavoro contadino, con il ritorno ciclico della cerimonialità di tipo religioso. A teatro non ci si andava, perché ti veniva a casa, ad esempio con le processioni carnevalesche che facevano la questua.
Una continuità che era legata agli assi del mondo: le quattro stagioni. L’inverno era l’inverno e l’estate era l’estate, ognuno con i suoi prodotti. Oggi l’industria, invece, ha rotto le relazioni tra le stagioni e le operazioni produttive che un tempo vi erano legate. Un tempo, la continuità era data dalla ciclicità delle ricorrenze religiose, da un ritornare identico e diverso ogni anno che scandiva la vita e dava anche la misura dei tempi delle previsioni o dei progetti.
Uno degli sconvolgimenti maggiori che si è verificato nel momento del passaggio dal lavoro contadino al lavoro industriale è stato il salario settimanale: si è accorciato immediatamente l’arco della progettazione. La progettazione contadina non era mai meno di un anno; se poi il contadino mette vigna o pianta gli ulivi, la progettazione diventa biennale.
L’arco di progettazione, e anche di sofferenza, era almeno di un anno, con un continuo stringere la cinta di cui ha parlato nel 1910 uno studioso molisano, Enrico Presutti. Egli prendeva la dilatabilità dello stomaco come indice sociologico: questo stomaco che ha la capacità di restringersi fino alla fame più estrema per poi scoppiare nelle crapule dei mesi estivi – con la mietitura e la trebbia – per uno, due, tre quattro giorni.
La sofferenza non doveva durare una settimana, ma un anno. In questo mondo c’erano teste, cuori, anime dure. Non bisogna certo illudersi che fosse un mondo tutto rose e fiori. Aveva le sue crudezze, non soltanto imposte dall’esterno, ma anche quelle che derivavano da rudezza interiore.
C’erano dentro, però, forza e intelligenza. C’erano sapienze accumulate di capacità di controllo cognitivo e manuale del mondo in cui si viveva. Ad esempio, i proverbi relativi alla meteorologia sono la condensazione di esperienze ripetute, e in generale incontrovertibili, riferite all’andamento del tempo e degli agenti atmosferici.
C’è anche un modo di dire, legato ad attività connesse a quelle contadine, che dice: «Il falegname taglia a lungo, il fabbro taglia a corto». Il falegname, infatti, deve tagliare una misura abbondante rispetto al necessario, perché se avanza può rifilare il legno, mentre il fabbro deve tagliare una misura più scarsa, perché può allungare il ferro battendolo.
A livello di elementarità assolute, vengono tesaurizzate esperienze. Questa è la progettazione, anche se sembra un termine a sproposito per obiettivi così semplici. Forse, la progettazione nei calcolatori è di altra natura? La ragione per cui parlo di mondo moderno e musei contadini è proprio quella che ho cercato di delineare finora, salvo a percorrere adesso un secondo giro di riflessioni.
C’erano in quel mondo dei valori. Oggi nessuno di noi sarebbe disposto a scambiare, per esempio, una lavatrice con una bellissima tavola per lavare i panni a mano nel fiume: bella, ma scomoda.
Allora, quando si ha nostalgia di quelle cose, di che abbiamo nostalgia? Non della fatica, ma della bellezza e dell’intelligenza, della socialità del lavoro, dell’aggregazione che si creava, delle amicizie che nascevano. Non vorremmo più quella fatica e quella miseria, ma vorremmo quella bellezza e quella intelligenza, che erano connesse, ma non necessariamente, alla fatica e alla miseria.
La svolta nei confronti del mondo contadino è avvenuta quando lo slogan mentale è diventato: «Il calzino bucato si butta», non «si rammenda». La svolta nei confronti di un certo modo parsimonioso di considerare il mondo. La svolta operata, oltre la rottura della continuità, sta anche nel fatto che oggi la vita sul posto di lavoro è completamente diversa dalla vita fuori dal lavoro, il tempo libero non ha più la minima relazione con il proprio lavoro. Possibilmente è tutt’altro, sta agli antipodi. C’è da dire che il lavoro oggi è spesso alienante, ci sono fratture, spesso una dura coincidenza del vivere e del lavorare.
Ma se vogliamo che i musei contadini non siano soltanto a chiacchiere i piedi che poggiano nel passato per tenere la testa nel presente e nel futuro – che è poi l’etichetta data in genere a questi musei –, allora mi chiedo se in un mondo in cui esiste l’idea della inconsumabilità delle risorse – perché questa è l’idea delirante della nostra società – non si siano scavalcati i limiti di compatibilità. Invece, le risorse della Terra vanno man mano esaurendosi.
La vera attività produttiva dell’uomo è l’agricoltura. Le altre attività non lo sono nello stesso senso. L’agricoltura fa sì che ci sia quel che altrimenti non ci sarebbe; gli altri tipi di produzione rendono fruibile ciò che altrimenti non lo sarebbe, ma non produce quella cosa. Chi estrae minerali fa un prelievo, estrae, non produce. Invece, il contadino che lavora la terra produce ciò che altrimenti non esisterebbe e questa produzione può, con la rotazione delle colture, rinnovarsi ogni anno.
Il vero dramma è se non abbiamo scavalcato i limiti di compatibilità, in nome del mito della inesauribilità delle risorse, mito della società dei consumi. Il vero problema del mondo moderno è quello del rapporto con la natura.
La nostalgia di quel mondo passato poggia su tenerezze profonde e serie, nostalgia per quel mondo di valori. Innanzi tutto, la sobrietà mentale, la capacità di concentrazione, di progettazione, il rendersi conto che in nessuna società si può consumare più di quanto si produce. Ci sono limiti imposti dalla natura che sono assolutamente invalicabili. Una cultura che sceglie di consumare senza produrre a sufficienza è destinata a scomparire. Vi sono limiti ferrei e non valicabili alle opzioni culturali.
Una delle riflessioni che possono scaturire dalla visione di un museo contadino sta proprio nell’insegnamento che certi limiti non possono essere impunemente scavalcati perché fissati dalla natura e propri della nostra condizione di esseri umani. Possiamo dire, allora, tornando al museo contadino, no a quella miseria e a quella fatica. Sì, però, al cuore all’intelligenza che si respirano in questi musei.
E passiamo ad un’altra considerazione. Siamo oggi nell’era dell’informatica. L’informatica ha costituito una svolta tecnologica che, a mio avviso, è profondamente diversa e molto più radicale e decisiva di quelle provocate, per esempio, dalla macchina a vapore o dal motore a scoppio. Queste hanno tolto la fatica al braccio. Invece, la svolta informatica è sostituto dell’intelligenza o suo concorrente. La macchina informatica pone il problema di come si fa a comandare ad un servo che non ha paura della morte.
Il computer può essere programmato, ma l’onere di pensare resta a noi; non si affidano a lui le scelte. In questo senso, io sono un passatista, mi sento elogiatore delle tecniche morte, del calcolo mentale, del computo con l’abbecedario.
Perché tecniche morte e perché musei contadini? Un calcolatore, per eseguire un qualsiasi programma, ha bisogno di una serie di istruzioni molto minute e precise che vanno da uno stato iniziale ad uno stato finale, istruzioni che lo guidino passo per passo e che costituiscono il cosiddetto «algoritmo», il codice.
Ognuno di noi ha dentro di sé degli algoritmi, come quello del guidare la macchina o lavorare a maglia; movimenti che si fanno automaticamente, perché si posseggono dei codici, dei saperi manuali difficili da esplicitare. Sono saperi incorporati.
Alla stessa maniera, il calcolatore ha dentro di sé una serie di istruzioni, di algoritmi incorporati. Analogamente, un telaio a mano ha un algoritmo incorporato, è programmato per poter costruire un certo numero di trame ed ha bisogno, per realizzarle, dell’impulso del pedale e della specializzazione dell’operatore.
In un calcolatore, l’algoritmo incorporato, per essere riconosciuto, ha bisogno di una specializzazione di un certo tipo. Allo stesso modo, nel mondo contadino, c’era sapienza incorporata, sapienza della mano che difficilmente riusciva a tradursi in rappresentazione simbolica verbalizzata. La svolta informatica consiste proprio nel fatto che noi oggi agiamo non più sulle cose, ma sui simboli che rappresentano le cose; siamo in grado cioè di produrre algoritmi non eseguendo certe operazioni, ma rappresentandole.
Allora, il museo contadino è luogo nel quale possiamo recuperare, anche criticamente, i valori. Ed è luogo nel quale possiamo recuperare e far crescere, sul piano della padronanza intellettuale, le capacità intellettuali e le conoscenze. In esso troviamo cuore e intelligenza di un mondo che è stato povero, faticoso e sporco, qualche volta feroce, ma che ci ha dato la base sulla quale noi poggiamo.
E non è per riconoscenza che noi oggi ci volgiamo indietro, ma perché forse quel mondo ha ancora qualcosa da insegnare, se lo consideriamo non come passato, ma come qualcosa che è ancora presente. E questo non perché vogliamo farlo rivivere noi.
È proprio questo mondo che ci dice: «Badate che quello era un mondo di competenze».
Allora, fare musei contadini non è solo nostalgia o rimpianto, ma è riacquisizione di valori nel cuore della nostra società. E il detto «Il futuro ha un cuore antico» può essere trasformato in «Il futuro ha un cuore eterno», perché questi valori c’erano allora, ma ci sono stati anche prima. E non c’è umanità se non costruisce seriamente i suoi rapporti con il reale.
Possiamo aggiungere «il reale delle mille patrie», cioè, riferendoci all’Italia, delle mille realtà regionali nelle quali i singoli cercano e si costruiscono, magari immaginosamente, la propria identità. Questo mondo rischia, dunque, di scontrarsi, se non si fosse capaci di vedere al di là delle molte patrie, così come, in uno specchio spezzato, ogni frammento continua a riflettere tutta intera la luce dell’universo.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
[*] Conferenza tenuta da Alberto M. Cirese a Pescara il 1 febbraio 1990
Note
[1] Il Gruppo della Stadura è nato a Castel Maggiore (BO) nel 1968 per iniziativa di ex agricoltori che hanno voluto raccogliere e valorizzare gli strumenti tradizionali del lavoro contadino nella pianura bolognese. Il loro impegno ha dato vita nel 1973 al Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio (BO), una delle prime e più significative espressioni della museografia etnografica spontanea nell’Italia degli anni Settanta.
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Anna Rita Severini, è stata fino al 2017 Responsabile del Servizio Attività Culturali e Turistiche del Comune di Pescara. Dal 1981 al 2000 ha lavorato presso il Museo delle Genti d’Abruzzo, svolgendovi attività di ricerca, studio delle raccolte oggettuali e co-progettazione dei contenuti espositivi. Ha scritto su temi di antropologia museale e cultura materiale tradizionale abruzzese. È socio fondatore di S.I.M.B.D.E.A. (Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici). Sta per pubblicare il suo primo romanzo, ambientato a Istanbul e nel Museo dell’Innocenza, lì realizzato dallo scrittore Orhan Pamuk (premio Nobel 2006).
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