il centro in periferia
di Settimio Adriani
Fiamignano, 1° agosto 2020. Il paese è ormai gremito di villeggianti; per un mese ci sembrerà di vivere in un altro mondo, quello che vorremmo.
Anche questa mattina, in parecchi stiamo facendo la piazza, perché da noi la piazza ‘non c’è’ ma ‘si fa’, come si usa dire, e la fanno le persone che lì si incontrano e conversano.
Come di consueto prende vita la chiacchierata. Oggi è il canuto Vittorio Capparella che tiene banco e, tra il serio e il faceto, come soltanto lui sa fare, ricorda il bel tempo che fu. Il tono di voce funge da richiamo e, gradualmente, si forma un nutrito capannello intrattenuto brillantemente con fragoroso sarcasmo.
Mentre i giovani osservano e ascoltano sbalorditi, gli anziani seguono con frequenti ammiccamenti, sfoggiando un sorriso di beneplacito che non provano neanche minimamente a celare. Qualcuno interviene sporadicamente alla bisogna, ma il proscenio è tutto di Vittorio:
«Quand’ero giovane, il paese era abitato e si stava bene, ora invece manca tutto ed è vuoto.
Alle scarpe si mettevano le chioétte per non far consumare le suole, perché valevano più quelle dei piedi che ci stavano sopra. Però eravamo tutti allegri e spensierati.
Sia con la calura estiva sia con la neve invernale si usava sempre lo stesso paio, l’unico che avevamo, e non era mai nuovo. I geloni ai piedi erano di casa perché l’acqua entrava e usciva con facilità. Nonostante vivessimo tutti quella condizione eravamo sempre sorridenti.
A quel tempo, un maglione doveva durare per tutta la vita, o quasi. Quando nei gomiti la maglia diventava troppo lisa, per rinnovare l’indumento le nostre madri scucivano le maniche e poi ricucivano la destra a sinistra e la sinistra a destra. Le parti consumate c’erano ancora ma non si vedevano più, perché finivano nascoste nelle pieghe dei gomiti.
Indossare sempre gli stessi indumenti aveva anche un lato positivo: ci rendeva riconoscibili in ogni condizione, anche da lontano, perché ognuno di noi si identificava con quello che aveva costantemente addosso, ed eravamo felici.
In inverno, per scoprire se nella notte avesse o meno nevicato non dovevo affacciarmi alla finestra, me ne accorgevo dai fiocchi che trovavo sul cuscino. Quando capitava, mi alzavo in tutta fretta per sfuggire al freddo che regnava in casa. Ero sempre infreddolito ma contento.
Oggi, nonostante le case siano ben chiuse e coibentate, ogni famiglia arde dai 150 ai 200 quintali di legna ogni anno. Quando ero giovane, i serramenti somigliavano più a cancelli che a porte e finestre, e l’aria entrava e usciva a suo piacimento; eppure, si consumavano soltanto 40 o 50 quintali di legna, perché bisognava raccoglierla e trasportarla a dorso di mulo e più di tanto non si riusciva a fare. Stavamo tutti piuttosto freschi, ma eravamo sempre allegri.
Per mangiare un po’ di carne bisognava aspettare che arrivassero le grandi feste o l’invito a qualche matrimonio al quale si partecipava, ovviamente, per rimpinzarsi; non essere invitato, quindi, veniva considerata una grave offesa. Oggi, invece, ogni invito è una tragedia, perché il regalo non deve sfigurare rispetto a quelli degli altri e ti devi presentare sempre con il vestito nuovo. Avevamo la pancia vuota ed eravamo piuttosto magrolini, ma non ci lamentavamo.
Un maiale, o spesso soltanto mezzo, doveva bastare per condire i pasti dell’intero anno di ogni famiglia, anche se numerosa. Oggi, salsicce e affettati sono all’ordine del giorno, e hanno tutti il colesterolo. Allora sì che si stava in salute!
In casa non c’era acqua corrente, e una o due conche dovevano bastare per tutta la giornata. Bevevamo tutti attingendo con lo stesso mestolo, e l’acqua avanzata si rimetteva nella conca. Non era come oggi che, a causa del Covid, tutto deve essere disinfettato, sigillato e monouso. Allora si faceva economia anche sull’acqua, ma eravamo robusti e quasi nessuno si ammalava.
A cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta arrivò la corrente elettrica. All’epoca, i contratti erano a forfait e si pagava un fisso indipendentemente dal consumo. Tuttavia, per risparmiare, alla sera si spegneva l’unica lampadina di casa e ci si intratteneva alla fioca luce del tizzone. Quel bel clima di intimità familiare ora non esiste più.
Intorno al camino avevano diritto di parola soltanto gli adulti e gli anziani, soprattutto se maschi. Nella penombra i racconti erano sempre funesti, terrificanti, e nessuno si curava dei bambini impauriti che, da lì a poco, sarebbero andati a letto nel buio più totale e, col timore di essere derisi, non avrebbero dormito né chiesto conforto. Ormai non esiste più neanche quel bel rapporto intergenerazionale che fortificava.
Nei primissimi anni Cinquanta, in paese arrivò il primo televisore: era pubblico e a gettoni. Lo posizionarono nell’aula consiliare del Municipio. Lì furono predisposte anche quaranta o cinquanta sedie, sempre in numero insufficiente, perché ogni sera la gente vi si affollava curiosa. Per accaparrarsi le posizioni migliori, in molti occupavano il posto anzitempo aspettando che qualcuno mettesse il gettone e avviasse la visione. Capitava frequentemente, però, che nessuno avesse i soldi per farlo, allora si stava lì, tutta la sera, a guardare il televisore spento.
D’estate tornavano i romani e si andava a ballare a casa di qualcuno. Eravamo regolarmente imbarazzati per quello che indossavamo e le ragazze guardavano soltanto i villeggianti. Però ci facevamo forza con il sorriso che non ci è mancato mai.
Fino a quando si era adolescenti, qualunque anziano aveva il diritto di mandarti a prendere l’acqua fresca alla fontana pubblica, che sta in fondo al paese. Capitava ripetutamente e in ogni momento della giornata, e bisognava fare attenzione a non lasciarsi sfuggire di mano il fiasco altrimenti erano guai. Lo sapevamo, perciò stavamo bene accorti e obbedivamo con deferenza.
È capitato che qualche ricco villeggiante si allontanasse per giorni dal paese e lasciasse il cane in custodia a qualcuno, nonché i soldi per comprargli carne a sufficienza. Non si è mai capito chi davvero mangiasse quel cibo raro e prezioso: il cane era contento di tornare finalmente sotto l’ala protettrice del padrone, il padrone era contento che il cane lo festeggiasse così affettuosamente, il custode era contento perché aveva terminato i soldi e pensava alla successiva partenza del padrone.
Quando c’era la neve andavamo a scuola anche coi pantaloni corti e il passamontagna a protezione delle orecchie. Per scaldarci ogni scolaro doveva portare ‘u pezzaréllu, perché il Comune non comprava mai la legna a sufficienza, e spesso non riuscivamo neanche a scrivere perché avevamo le mani congelate. Era impensabile opporsi alla negligenza del Sindaco e alla richiesta dei maestri che, all’epoca, erano vere e proprie autorità; ci si adeguava alla circostanza senza lamentarsi e tutto procedeva nel migliore dei modi.
Qualunque anziano ci poteva comandare per qualsiasi esigenza, e non ci potevamo rifiutare perché i nostri genitori sarebbero stati immediatamente informati e, di conseguenza, ci avrebbero gonfiati di botte. Non si doveva né si poteva fare diversamente; il rispetto dovuto agli anziani era sacrosanto, quello dovuto ai bambini non era previsto, ma tutti eravamo felici.
Erano numerose le famiglie che nei due o tre negozietti del paese prendevano a debito quel poco che necessitava; quando arrivava il momento di pagare, però, trovavano sistematicamente il conto più salato del previsto. Ciononostante, bisognava saldarlo e, almeno formalmente, restare riconoscenti ai negozianti, perché soltanto in quel modo sarebbe stato garantito il futuro credito e si sarebbe potuto mangiare anche senza soldi in casa. E tutto scorreva ordinatamente.
A Natale e Pasqua aspettavamo il ritorno dei numerosi compaesani emigrati in Svizzera. A noi stanziali sembravano dei benestanti, perché al bar pagavano da bere per tutti e offrivano a piene mani cioccolata e Parisienne col filtro. Se oltreconfine non avessero dormito nelle baracche e agli ingressi dei locali svizzeri non li avessero trattati alla stregua dei cani sarebbero stati veramente signori. Quando tornavano a Fiamignano, loro erano contenti perché varcavano quel maledetto confine, e noi perché li aspettavamo al bancone del bar. Chissà perché alla ripartenza sia loro sia noi eravamo molto meno felici…
Ad ogni elezione si dovevano votare i candidati indicati dai signorotti, che di solito erano anche gli amministratori in carica, e bisognava necessariamente farlo perché allo spoglio avrebbero ricontato i voti. Tuttavia, seguire le loro indicazioni, solitamente, poteva fruttare qualche cosa, pertanto, si era soddisfatti.
Per paura di finire all’inferno, al prete in confessione si raccontava sempre tutto, cosicché lui sapeva sempre i cazzi di ciascuno, e non sempre si faceva i cazzi suoi. Ma il prete era il prete, e con l’assoluzione sollevava ognuno dai gravami delle malefatte. Cosicché, chiunque continuava a raccontargli i propri affari e vivevano tutti assolti e felici.
Il 2 e il 3 giugno 1946, in occasione del referendum per scegliere tra Repubblica o Monarchia, in piazza ci sono ancora i segni, a Fiamignano vinse il Re perché così vollero i notabili locali, e tutti erano comunque felici, perché la maggior parte degli elettori neanche sapeva quale fosse la differenza.
Bei tempi quelli! Non c’erano disordini e tutti erano contenti.
Da ragazzi andavamo nei campi a rubare fave e ciliegie, ma non si capiva se fosse un gioco o si facesse per fame. I proprietari erano inferociti e ci davano la caccia, tuttavia non era chiaro se lo facessero per alimentare il gioco o per difendere realmente i loro frutti. Noi eravamo felici, i proprietari sempre meno.
Per fare una giornata di lavoro e rimediare qualche spicciolo si doveva entrare e restare nelle grazie dei signorotti locali, che per quattro soldi sfruttavano chiunque fino all’osso. Ma il rispetto era rispetto e si pendeva ossequiosamente dalle loro labbra.
Tutto è finito ormai, irrimediabilmente, e mi chiedo: se si stava così bene, perché la gente è andata via da Fiamignano?
Magari tornassero quei tempi… per chi dico io!».
Chissà chi e che cosa ha in mente Vittorio quando auspica il ritorno del bel tempo che (non) fu della sua memoria.
Di certo chi ha potuto, ed ha avuto il coraggio di farlo, ha lasciato la condizione di ristrettezza e sudditanza del paese ed è andato via, per sempre. Molti hanno raggiunto le ricche città vicine e lontane, altri hanno varcato i confini della Svizzera, della Germania, dell’Inghilterra, dell’America…
Insieme a chi aveva i maglioni lisi e le scarpe sfondate sono andati via anche i notabili, ma gli esiti delle fughe non sono stati uniformi: se alcuni dei primi hanno continuato anche altrove a condurre una vita di sacrifici, quasi nessuno dei secondi ha avuto difficoltà a mantenere il tenore di vita precedente.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia e ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) e ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza” di Roma (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento MESVA). Per passione studia la cultura del Cicolano, sulla quale ha pubblicato numerosi saggi.
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