di Lorenzo Greco
Lo scorso anno in cui ricorreva il centenario della nascita di Giorgio Caproni, in tutto il mondo in cui la cultura italiana (ancora) ha un seguito, il grande poeta è stato commemorato in più modi. Anche nella città di Livorno che è poi la sua città natale, si sono promosse belle iniziative più o meno ufficiali per ricordarlo, e personalmente ne ho realizzate alcune. E in varie occasioni il mio ricordo correva spesso ad una giornata che a Giorgio Caproni fu dedicata, proprio a Livorno, nella primavera del 1984, quando in Municipio gli fu attribuita la Livornina d’oro, massimo riconoscimento cittadino, in una cerimonia sentita e gioiosa.
Persona quanto mai schiva e antiretorica, tuttavia Caproni accettò volentieri quell’omaggio. In quell’epoca egli era probabilmente conosciuto soltanto da pochi dei partecipanti a quel rito pubblico, dedicato a un anziano concittadino un po’ commosso che faceva pubblicamente ritorno “in patria”. L’avevo conosciuto a un convegno milanese per Montale pochi anni prima, ci eravamo scritti: egli manifestava il rammarico di non essere più tornato nella città dov’era nato e aveva vissuto i begli anni dell’infanzia. E io che sono specialmente sensibile a questo tasto, parlai con molti, finché il sindaco si convinse e venne promosso un giorno di onorificenze. Ma ripeto, pochi lo conoscevano a quel tempo.
Oggi, dopo molti anni, la situazione è mutata. Se egli non è più fisicamente presente, la sua poesia – dico proprio fra i lettori – lo è molto di più: è letta e studiata, perfino gli studenti delle scuole superiori preparano tesine per gli esami, e nelle università sono molte le ricerche filologiche al suo lavoro letterario dedicate.
Momento importante di quella giornata del 1984 consacrata al suo “ritorno”, fu la visita ai luoghi della città che egli rievocava spesso nelle poesie e che gli erano più cari.
Curiosamente eravamo scortati – in giro per le strade con un’ auto del Sindaco – dai motociclisti del Comune, ed era un po’ strano che un esile anziano scrittore di versi delicati venisse scortato ufficialmente dai simboli del potere cittadino. Ma gli avrà fatto piacere questo, mi chiedevo? Per qualche tendenza al paradosso che la presenza di Giorgio quella mattina eccitava, mi ponevo fra me e me quesiti siffatti: ma la vera poesia ha bisogno di scorte in divisa perché essa stessa corre qualche pericolo o perché risulta per suo statuto filosofico pericolosa per il potere?
Ad ogni modo insieme facemmo il tour della Livorno seguendo la mappa dei suoi ricordi, a ricercare le strade dove aveva abitato o che di più aveva amato. Le sue impressioni erano ancora nette e vive, ma la memoria non altrettanto precisa. Un po’ anche l’assetto urbanistico era cambiato, con le distruzioni e le trasformazioni di due guerre mondiali di mezzo. E non trovammo né la casa di nascita in fondo a Corso Amedeo, né quella in via Palestro dove andò ad abitare coi suoi in casa di parenti. Mi resi conto che non si sarebbe potuto apporre una lapide senza una preventiva ricerca nei catasti storici. Ed è questo che molti anni dopo si riuscì a fare.
E quel giorno ripercorremmo – io avevo in mente i riferimenti toponomastici che forniscono i suoi versi – la Livorno del Parterre e del Voltone, del Gigante e dello Sbolci, dei cosiddetti fossi, della Dogana d’acqua e dello Scalo dei Fiorentini. Alcuni termini oggi già quasi scomparsi dall’uso, e che i più giovani forse non conoscono, ma che sopravvivono consacrati nella sua poesia.
Una città come Livorno feconda di musicisti, pittori e artisti di ogni tipo ma povera di scrittori significativi (bisogna forse ritornare nientemeno ai romantici Guerrazzi e Carlo Bini), da Caproni è stata ripagata in un colpo solo col dono dei Versi livornesi.
I riferimenti alla città natale non sono affatto per Caproni folclore o cartoline d’epoca. Sono la proiezione in un paesaggio urbano disegnato dalla memoria più remota, di un patrimonio di sentimenti assai intimi, fusi al calore degli affetti familiari: la rustica via degli Archi (Gli anni tedeschi, III) il cui il ricordo è legato al fratello e al padre, le vie del centro, del porto e del mercato dove egli scruta il passaggio della giovane figurina della madre. E poi i luoghi più simbolici della propria interiore frontiera, di uno scontato esilio: il Voltone, la Barriera della Dogana d’acqua… Queste sue poesie per Livorno hanno il dono di una cantabile schiettezza, versi che paiono scritti forse anche un po’ per gioco, ma mai per accademico vezzo, sempre frutto di un lavorìo di lima e di correzione inesausto, e il lampeggiare dell’ironia è l’unica risorsa per non cedere alla commozione dei ricordi familiari, o dell’infanzia.
Questo ritorno e il conseguente girovagare per le strade di Livorno, additando i luoghi alla figlia Silvana che ci aveva accompagnato, e che non conosceva la città del padre e dei nonni, gli risultò gradito: ricordate quel verso? “proprio quest’oggi torno / deluso da Livorno”. Quando venne a trovarci nella metà degli anni Ottanta non era più deluso, era felice. Infatti mi scriveva il 2 aprile 1984: “rieccomi a Roma più che mai impigliato nella mia ritrovata – grazie a Lei – “liburnicità”. Non so come esprimerle la mia gratitudine per tutto quello che è stato fatto per me, senza retorici svolazzi, ma con quella sobrietà e schiettezza proprie del carattere livornese, a parte – si capisce – la “signorilità” e generosità dell’accoglienza e di tutto il resto. Non dimentichi la prego di ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a rendermi così lieto il soggiorno…”
Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013