per minette
di Enzo Pace
Macioti amava molto mettersi in ascolto delle storie di vita vissute dalle persone. Sia che fossero vive e vegete, magari sedute di fronte a lei, armata di penna e di uno dei tanti quaderni che riempiva di appunti, sia che fossero scomparse ma avessero lasciato ampie tracce di che cosa fosse loro accaduto. Sia che le persone raccontassero come la grande storia o le grandi trasformazioni sociali avessero incrociato le loro singole e, spesso, dolorose biografie sia che le stesse riflettessero sulle scelte compiute nell’aderire a movimenti esoterici, magici o spirituali in un Paese di profonde tradizioni cattoliche.
Tutto ciò che in campo religioso si configurava come non convenzionale né conforme alla religione-di-chiesa cattolica le appariva, infatti, degno d’interesse e di studio. Ciò che mi colpiva era il rispetto con cui rivolgeva il suo sguardo di ricercatrice verso figure carismatiche e verso nuovi movimenti spirituali che altrove, nell’accademia o nei media, non riscuotevano troppa attenzione o erano descritti come fenomeni da baraccone.
Devo a Macioti le prime conoscenze sulla Soka Gakkai italiana e sulla cittadella esoterica di Damanhur in Val Chiusella. Così come devo a lei (e a Vittorio Dini, che spesso ci faceva da guida lungo itinerari insoliti nell’Appennino tosco-emiliano) l’osservazione diretta delle tracce lasciate dalle tradizioni popolari legate al mondo magico-sacrale e ancora evidenti nel cattolicesimo vissuto in Italia.
Il metodo biografico, delle storie orali e delle tranches de vie, non era solo lo strumento d’indagine che Macioti ha preferito; rifletteva una visione del mondo. Fare ricerca significava per lei entrare in sintonia con le persone che concretamente portavano i segni delle trasformazioni culturali e sociali, spesso drammatiche e che, dunque, assieme raccontavano cosa significasse stare in società. Anche quando, dopo una lunga esperienza di ricerca sul campo (dalle borgate del sottoproletariato di Roma alle indagini sulla persistenza di figure di guaritori/guaritrici o, più in generale, di tipo carismatico sino alle ultime ricerche sul genocidio armeno e su esemplari figure di donne che hanno dovuto affrontare l’esperienza dei campi di concentramento), Minette Macioti riflette dal punto di vista epistemologico sul metodo delle storie di vita, l’astrattezza della teoria si alimenta della concretezza dei tanti dossier che lei aveva raccolto nel tempo.
Penso che, da tale punto di vista, Oralità e vissuto. L’uso delle storie di vita nelle scienze sociali (Napoli, 1995) possa essere considerato un libro-ponte nell’ampia produzione di Macioti, tra una prima lunga e appassionata esperienza di lavoro sul campo e una seconda, altrettanto intensa, segnata dall’ osservazione dei nuovi fenomeni che caratterizzavano e caratterizzano ancora oggi la storia sociale del nostro Paese e non solo, giacché parliamo di un fenomeno mondiale come l’immigrazione (nel 2005 esce il libro curato assieme a Enrico Pugliese dal significativo titolo L’esperienza migratoria).
Macioti non amava le grandi teorie astratte e non ne faceva mistero. Un piccolo ricordo: nel 1978 avevo scritto un breve articolo sui primi movimenti carismatici e pentecostali nel cattolicesimo italiano per la rivista Social Compass, rifacendomi a un classico come Ernst Troeltsch. Ci trovammo in un convegno poco dopo e con la sua consueta gentilezza mi disse: “interessante, ma un po’ filosofico!”. Una critica tagliente, ma detta con il sorriso sulle labbra di chi ti considera un buon amico. Da allora la nostra amicizia e stima si consolidarono. Così iniziammo a fare assieme ricerca, condividendone i risultati in libri e riviste. Più volte Macioti mi coinvolse nei numerosi master, seminari e convegni che instancabilmente organizzava a Roma, alla Sapienza, o fuori Roma.
Macioti sapeva mettersi in ascolto, dunque, e il suo modo d’intendere la sociologia rifletteva questo suo abito del cuore. Ciò le ha facilitato spesso il compito nella scelta dei temi di studio e degli oggetti d’indagine etnografica. Mettersi in ascolto ha significato sovente mettersi dalla parte di chi non aveva voce nella società o ne aveva poca o la voce era sovrastata da altre più imponenti. Tale era l’approccio, per esempio, nello studiare la condizione degli immigrati e, in particolare, dei progetti migratori delle donne africane, o nell’interesse per le vicende dei rifugiati di oggi o d’ieri così come, infine, per la vita di donne che hanno dato esempio di resistenza morale nei campi di concentramento (è l’ultimo originale lavoro che ha pubblicato con Guida nel 2020).
Problematiche di ricerca che possono essere considerate egualmente come tante variazioni su uno stesso coerente tema: osservare cosa sono e come funzionano le macro-strutture di una società con gli occhi di chi subisce le ingiustizie e le sofferenze che l’ingiustizia sociale genera. Che siano le contraddizioni sociali ed economiche di un’urbanizzazione crescente senza anima (ne parla ancora in un intervento fatto online in un convegno organizzato dall’Università di Padova e ripreso dalla locale radio dell’Ateneo – Radiobue –, il 21 giugno 2021 all’interno di un ciclo sul destino delle città all’epoca del corona-virus) o gli squilibri crescenti fra aree del mondo e in singoli Stati (nell’intervento appena ricordato, Macioti descrive, per esempio, quanto accade in California al tempo della pandemia – situazione che presumo conoscesse bene grazie alla sua adorata figlia che lì viveva con la sua famiglia –, con i latinos che pagano un prezzo in termine di salute e di sopravvivenza economica molto più salato degli autoctoni).
Lo stare dalla parte di chi soffre le ingiustizie sociali e le atrocità dei regimi politici totalitari non era frutto di astratte scelte ideologiche, ma di ragionate (pacate e pazienti) riflessioni di chi cercava di andare a vedere cosa accadesse alle persone in carne e ossa e, quando ciò non fosse possibile, di documentarsi attentamente prima di arrivare a delle diagnosi sociologiche esaustive. Macioti ci lascia, dunque, in eredità questa saggezza dell’ascolto trasfigurato in metodologia della ricerca.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Enzo Pace, è stato professore ordinario di sociologia e sociologia delle religioni all’Università di Padova. Directeur d’études invité all’EHESS (Parigi), è stato Presidente dell’International Society for the Sociology of Religion (ISSR). Ha istituito e diretto il Master sugli studi sull’islam europeo e ha tenuto il corso Islam and Human Rights all’European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation. Ha tenuto corsi nell’ambito del programma Erasmus Teaching Staff Mobility presso le Università di Eskishehir (Turchia) (2010 e 2012), Porto (2009), Complutense di Madrid (2008), Jagiellonia di Cracovia.(2007). Collabora con le riviste Archives de Sciences Sociales des Religions, Social Compass, Socijalna Ekologija, Horizontes Antropologicos, Religiologiques e Religioni & Società. Co-editor della Annual review of the Socioklogy of Religion, edito dalla Brill, Leiden-Boston, è autore di numerosi studi. Tra le recenti pubblicazioni si segnalano: Cristianesimo extra-large (EDB, 2018) e Introduzione alla sociologia delle religioni (Carocci, 2021, nuova edizione).
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