di Ugo Iannazzi [*]
In Italia sui giornali, sulle riviste, in Tv, nei cartelloni pubblicitari, nei dispositivi di legge, emanati dal Parlamento e dalle Istituzioni regionali e locali, per una contagiosa mania e per il bizzarro e ossessivo capriccio di molti concittadini incoscienti e, a mio avviso, immaturi, si continua a far abuso nel linguaggio scritto e parlato di inglese superfluo, cioè di tanti di quei vocaboli o frasi non indispensabili alla normale nostra comunicazione. Ora la questione è valutare la liceità-opportunità di accettare o respingere questo fenomeno.
Nessuna obiezione al diritto di ciascuno di esprimersi nel proprio orizzonte privato o nei social nei modi che crede. Ma il multilinguismo, che è una condizione assolutamente auspicabile, può diventare pericoloso nel caso in cui non si attuino metodi di intelligente protezione della lingua preesistente, per evitare che sia sopraffatta e condannata a sparizione. Lo studio delle lingue è libero, il loro uso, però, va gestito. Io posso conoscere bene, oltre all’italiano, anche il latino, il greco e l’aramaico… Non posso usare, però, correntemente questi idiomi in un notiziario, al mercato, negli incontri di lavoro con colleghi, nelle chiacchierate con gli amici.
Vi sono nazioni molto gelose della loro lingua, ad es. la Francia, che evitano che essa diventi debole rispetto a una lingua dominante, capace di erodere e sostituire man mano i vocaboli dell’idioma esistente per creare un nuovo linguaggio, povero, senza riferimenti culturali, etimologici, storici e, in generale, sicuramente approssimato rispetto a un lessico collaudato da secoli.
Ogni persona può studiare tutte le lingue che vuole, che si scrivano in alfabeto latino, ma anche arabo, o cirillico, o giapponese, o cinese. Il problema è quello di dare a queste lingue le corsie giuste di uso. Se una comunità vuole garantire la sopravvivenza della sua cultura, cercherà di far viaggiare queste lingue su binari ordinati e separati e non aggrovigliati tra loro. Nella complessità della globalizzazione, oggi sorgono anche temi nuovi e così complicati. Il problema della confusione e della contaminazione si pone soprattutto negli ambiti della comunicazione ufficiale (informazione pubblica; informazione e legislazione derivante da organismi politici; pubblicità…).
La tecnologia informatica, la rete, in un mondo globalizzato e connesso inducono a scegliere come lingua veicolare l’inglese, e ciò non è una novità. Meravigliano e preoccupano i casi in cui dell’inglese si fa abuso. Sappiamo che la conoscenza ottimale dell’italiano è ancora in Italia molto approssimativa sia nelle fasce degli anziani, che in quelle giovanili e questa condizione si è ulteriormente aggravata durante la pandemia.
Quindi, mediamente, capita che non solo non si colmino le lacune dello studio della lingua nativa ma, allo stesso tempo, lo studio della lingua straniera è anch’esso gravemente lacunoso, perché spesso condotto senza la scientificità dei metodi didattici, ma con l’empirismo di ricorrere solo a strumenti informatici. Mentre un tempo a scuola ci prescrivevano di tener separati gli ambiti del dialetto e dell’italiano, oggi nessuno si meraviglia della sempre più frequente promiscuità o forte contaminazione di lingue spurie, cosa più volte affermata da vari studiosi, tra cui, per citarne qualcuno, Mauro De Mauro, Andrea Camilleri, Corrado Augias. Lo stesso nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha utilizzato per tutta la vita l’inglese nella sua attività professionale, alcuni mesi fa, visitando il centro vaccinale di Fiumicino, si è meravigliato dell’eccessiva presenza di vocaboli inglesi nel linguaggio corrente degli italiani!
Tornando al discorso iniziale, un lettore che non gradisce più l’eccessiva presenza di forestierismi sui giornali e sulle riviste che legge, dovuti soprattutto al modo di scrivere delle giovani leve giornalistiche, per evitare l’orticaria, può rinunciare a comprarli, cercando altre pubblicazioni meno “inquinate”, ma non è facile, perché in Italia la mania esterofila dilaga. Ciò poi dispiace, soprattutto se nei giornali e riviste, letti da anni, si è legati a determinate vecchie firme e a determinati e collaudati orientamenti culturali.
Di fronte, poi, al massiccio abuso di inglese superfluo nella pubblicità e nel commercio, io ho scelto un comportamento manicheo: trovando una confezione di Ace gentile, che invece di altra marca riportante “Made in Italy”, mostrava la scritta “Prodotto Italiano”, l’ho comprato. Ma davanti al caffè Nespresso, che scioccamente voleva ammiccarmi con un irritante “What else!”, ho evitato l’acquisto!
La cosa, invece, è grave sull’informazione pubblica della Tv, dove si è costretti a pagare il canone e accettare quello che viene offerto. Le reti private poi straripano anch’esse di trasmissioni in cui si diffonde sempre più, soprattutto nei titoli, l’idioma anglosassone. Per fare un piccolo esempio, si riportano alcuni titoli di programmi TV sulle maggiori reti italiane nella settimana 14-20 agosto 2021, in generale senza necessità espressi in inglese, ma forse solo per una colorazione di esotismo, per un pubblico che spesso non ne recepisce l’utilità, anzi la contesta. In Francia tale valanga di titolazioni straniere non troverebbe mai spazio! Eccone un elenco parziale:
Overland Uno, Weekend, Dreams road, Desperate housewives, Instinct, Eat parade, Report, A river called Titas, Festivalbar Story, Beatiful, Crowded, Powerless, Drive up, Speed racer, Brooklin nine nine, Little murders, Preview, Paddok live, X Factor people, Blue bloods, Geo Magazine, Sapiens files, Station 19, Ice Ice Baby, Soap, Great News, New Fred and Barney Show, E-Planet, History greatest lies, Escape room, The founder, Hawaii Five-0, Racket, Celebrated, Morning News, Brave and beautiful, Crowded, Foghorn leghorn, Medical Division, Bones, American dad, The Big Bang theory, Superstore, Coffee Break, The good wife, Page eight, Basic instinct, Love is all you need, Filming Italy, Shakespeare’s tragic heroes, Fire down below, Gangster story, Chewing gum Discoteca, Love is in the Air, The lost canvas, Face to face, Forever, My old Lady, Web of lies, Deal with it, Gangster Story, All toogether now, Chicago fire, Prodigal son, Power hits, Too young to die, Italia’s got talent, Horror Movie, Lady killer, Eat parade, Modern family, FBI: most wanted, Blue bloods, Play digital, Criminal minds, Bullet head, Wild Italy, Twin dragons, Global meltdown, Supernatural, All together now, Chicago fire, Arrow V, Person of interest, Batman forever, Heartland, Rebel in the rye, Art night, Station 19, Law & Order, Guess my age, Scent of a woman, Airport security…
Né va meglio con i titoli dei film, quei pochi che in questi giorni di agosto circolano a Roma nelle rare sale cinematografiche aperte. I titoli in lingua straniera (inglese), che nessuno più traduce, approssimativamente ammontano al 70% del totale. Eccoli:
Old, Free guy, The suicide squad, Jungle cruise, Black widow, Nomadland, I Croods, Possession, Alps, Charlatan, Dogtooth, Maternal, Nomad, Rifkin’s festival, Leningrad cowboys go America, The father, Fast & furious…
Una ventina di anni fa erano pochissimi i periodici che mostravano titoli stranieri. National Geographic Magazine dalla vita centenaria ebbe solo nel 1988 la sua edizione italiana; Vanity fair, nato negli Stati Uniti nel 1983, ebbe in Italia un’edizione italiana nel 2003. Oggi, invece, al loro fianco sono cresciuti a dismisura i titoli di riviste con perfetta origine italiana, anche di modesta importanza, che esibiscono, però, titoli in puro idioma anglosassone. Eccone un piccolo elenco:
Oltre a National Geographic e Vanity Fair: Mistery in history, Far West gazette, Runner’s world magazine, Mountain bike action, History kids, Freedom, Men’s health, Best movie, Speak up, For men magazine, Icon magazine, Blow up, Rolling stone, Youngtimer, Road book, Top Gear, Millionaire, East west, Reputation review, Business people, Fortune, Forbes, Chrono passion, Cyclist…
Su molte riviste con intestazione italiana, avvengono fenomeni simili nell’impaginazione interna. Non sono più, per es., in lingua italiana i titoli delle rubriche, perché da poco sono stati tramutati in inglese. Da una rivista femminile abbastanza diffusa sono stati ricavati i seguenti, ormai stabili, titoli delle rubriche:
Millennial, Party, Community, Lost & found, Beauty, Wellness, Hot!, Me time, Coverstory, Reportage, Empowerment, Wish-list, Summer pop, My way…
I responsabili di questa invasione di vocaboli non autoctoni, costante e inquinante la nostra lingua, non si rendono conto del danno che arrecano a essa, alla nostra cultura e, in definitiva, anche alla nostra economia, che offre ampie praterie libere all’ingresso di prodotti stranieri, culturali e materiali. L’invasione non necessaria, ed essenzialmente illegittima, dei forestierismi somiglia a ciò che avviene in botanica, quando specie alloctone invadono aree di flora nativa e diventano infestanti. I vocaboli albionici, quelli non necessari e nocivi per la nostra lingua, corrispondono al loglio, alla gramigna, alla zizzania, all’ortica, all’ailanto… che invadono un campo coltivato, o un orto, e ne colonizzano la superficie, bloccando lo sviluppo normale e naturale della vegetazione autoctona presente, facendola progressivamente morire.
In una trasmissione televisiva si affermava che meno del 10% della massa degli italiani ha una conoscenza accettabile dell’inglese, tale da poter comprendere correttamente, senza ricorrere ai vocabolari, i significati dei frequentissimi prestiti, che ormai vengono introdotti senza alcuna traduzione. Io credo che questo non sia del tutto vero, perché con l’introduzione continua anche di neologismi, da un po’ di tempo inventati dagli italiani solo in lingua anglosassone, è sempre e comunque necessario il ricorso a un vocabolario e spesso, in molti casi, all’ausilio più aggiornato della Rete.
Vi sono articoli su giornali e riviste, dove all’interno di frasi normali in lingua italiana sono inseriti ex abrupto vocaboli, o brevi frasi incidentali in lingua inglese, senza mai traduzione!, che disorientano il lettore. Dove, invece di usare il familiare vocabolo concorso, che rischia di andare in disuso, s’impiega all’improvviso l’intruso contest; invece di usare la domestica parola fedeltà, si usa faithfulness; invece a massaggiatore si preferisce massage therapist; dove il chiaro e onesto obiettivo di carriera, diventa l’ambiguo career goal! Dove di punto in bianco perfino la pubblicità è chiamata proditoriamente advertising! O la semplice gestione delle strutture è trasfigurata in facility management!
Nessuno sul suolo italiano e in comunicazioni su stampa periodica o in interventi televisivi rivolti a un pubblico, che naturalmente parla l’italiano, tiene conto del 90%, o più, dei connazionali meno attrezzati, che vanno in difficoltà (e qui non ho usato l’abusato tilt!). Quindi, è logico che la comunicazione verso un pubblico non specializzato, non è un fatto privato da gestire arbitrariamente.
È poi una cosa grave osservare su una rivista femminile italiana un intervento sulla prevenzione del cancro al seno con un titolo a caratteri cubitali inglesi. È cosa tollerabile? È cosa di buon gusto? Delle due l’una: o tutte le donne italiane conoscono l’inglese, o questo messaggio di apparente pubblica utilità è indirizzato solo alle donne poliglotte! E, poi, questo messaggio, in lingua straniera, fa sorgere dubbi anche sulla sua costituzionalità.
Ma mentre un tempo insegnavano a scuola che ogni espressione scritta o orale doveva essere formulata secondo un metodo di totale purismo idiomatico, per cui in un testo in italiano era considerato un vero “sacrilegio” riportare anche un solo vocabolo dialettale, oggi non si fa più caso a testi che risultano intrugli, accozzaglie, guazzabugli di idiomi, mischietti di lingue differenti tra loro (mai corredati di traduzione), come se l’Italia fosse diventata una nazione talmente multiculturale, da essere in grado di recepire ogni qualsivoglia significato di espressioni variamente contaminate.
Una ditta italiana specializzata sul suolo italiano nella distribuzione di pacchi, nella sua pubblicità a grandi caratteri, indirizzata a nostri connazionali, esibisce lo slogan Flex delivery parcel service: mi domando quanti clienti dei ceti popolari abbiano chiaro al primo colpo il significato esatto dello slogan! È probabile che chi lo ha inventato voleva solo distinguersi e credeva di affidare all’inglese un malvezzo suggerito dalla convinzione di essere tutti “connessi”, o una maniera di essere “alla moda”, o un tono di modernità, di efficienza, di affidabilità, che forse una frase in italiano non offriva. Ma non credere nella capacità di persuasione della nostra lingua è solo un ingiustificato atto di sfiducia e far riferimento a modelli esteri, come vedremo, è solo un modo di credere a un’illusione. Usare nel linguaggio comune degli esotismi può essere una tentazione, ma ricorrervi sempre più frequentemente, e senza necessità, è un colpevole abuso, è un’ingiustificata abitudine.
Per fare un esempio: in questo periodo, da nativo dell’Italia centrale, sto leggendo alcuni racconti, scritti da Andrea Camilleri in quel fantasioso dialetto siciliano, in parte autentico, in parte inventato, che ha caratterizzato un’ampia parte della sua produzione letteraria. Se, ove fossi un infatuato del suo linguaggio e preso da raptus improvviso, inserissi di tanto in tanto nei miei dialoghi o nei miei scritti, all’interno di argomentazioni in italiano, dei vocaboli camilleriani, senza traduzione, come scasciato, camperi, àrmalo, scurata, aceddri, stiddrato, splapita, gana, taliare, ammucciuni, fodetta, astutari, catunio, viddrano, càrzaro, grevio… tutti avrebbero ragione a darmi del matto!
- Perché il mio pensiero, in un italiano contaminato da termini neosiciliani, non raggiungerebbe nella sua completezza di significato l’intero ventaglio dei miei interlocutori italiani, ma appena quella piccola minoranza dei parlanti i dialetti siculi;
- perché si configurerebbe come puro atto esibizionistico e autoreferenziale;
- perché urterebbe chi non ha voglia di subire tali vocaboli spuri;
- perché sarebbe una violenza verso chi è interessato ad afferrare il significato delle mie parole e ne viene impedito per aver inserito vocaboli anomali, esterni al suo normale vocabolario.
Lo stesso dicasi dei tanti giornalisti, opinionisti, pubblicitari, che infarciscono i loro discorsi di inglesismi gratuiti, per esibire la loro bravura e varietà espressiva, mentre potrebbero essere incolpati di non essere in grado di esporre pienamente e organicamente il loro pensiero nella nostra lingua. Diranno che l’italiano è privo di neologismi utili: si può rispondere che – 1. non sono amanti dell’italiano ma lo disprezzano, – 2. sono, comunque, loro a essere incapaci nell’usare dinamicamente la nostra lingua e nel sapervi coniare le nuove espressioni che la modernità oggi richiede.
In televisione un minuto fa in un telegiornale ho ascoltato un’annunciatrice dire: “Sicilia, sold out” Perché dirlo a tutto il pubblico italiano in inglese, invece del naturale: “Sicilia, tutto esaurito”? Perché questo mostrarsi proni a una cultura estranea, di fronte alla quale la nostra non ha nulla che la faccia sfigurare?
Molti italiani hanno come modello da rincorrere quello inglese, non tanto perché ne sanno apprezzare la cultura (oggi la grande massa dei nostri connazionali, purtroppo, non brilla per la conoscenza della storia, della letteratura, dell’arte, né italiane, né tantomeno inglesi) ma forse vive nel “miraggio” di un popolo che sembra avere credenziali di attendibilità e di autorevolezza nel mondo, tali che il mondo ne voglia globalizzare la lingua. Ma questa affermazione non corrisponde a verità. Sotto gli occhi di tutto il pianeta vi è l’immagine delle ripetute figuracce che in questi ultimi mesi il popolo inglese ha mostrato sia sul piano delle relazioni politiche, che della gestione della pandemia e, anche, della gestione delle ultime competizioni sportive.
Ora è opportuno soffermarci sulle caratteristiche del popolo inglese, titolare di quella lingua che sempre più pare diffondersi nel mondo, ma non in affiancamento leale alle altre lingue, ma in posizione di capacità erosiva e sostitutiva delle parlate locali. E ciò, purtroppo, sta accadendo anche grazie all’infatuazione in Italia di molti nostri neoparlanti filoalbionici. Nei giorni successivi alla sconfitta della squadra inglese nella finale dell’11 luglio 2021, in cui ha affrontato la nazionale italiana e ne è uscita sconfitta, feroci e spietati sono stati i commenti su tutti i giornali dell’Unione Europea di fronte ai comportamenti inopportuni, indistintamente, di tutti i differenti livelli della popolazione albionica, dai teppisti dei ceti popolari ai tifosi della borghesia, dai giocatori ai rappresentanti politici, da quelli del governo a quelli della Casa reale.
Dopo le Olimpiadi di Tokio, disputatesi dal 13 luglio all’8 agosto del 2021, in cui gli atleti italiani si sono brillantemente e meritatamente affermati in alcune tra le gare più rappresentative dell’atletica, gli inglesi hanno mostrato comportamenti tali da provocare ancora giudizi negativi unanimi in tutto il mondo: hanno accusato gli italiani di slealtà sportiva e ricorso a sostanze dopanti (vd. Times e Washington Post…), quando agli esami antidoping è stato scoperto proprio qualche loro atleta, nel caso Chijindu Ujah, ad aver commesso un riprovevole uso di sostanze dopanti!
Molti altri opinionisti, soprattutto dopo gli Europei, hanno espresso giudizi estremamente negativi, quali incivili, bastardi, maleducati, a gente d’Oltremanica, che si pensava avesse inventato in passato il codice dei comportamenti corretti e rispettosi delle regole, per garantire le stesse opportunità ai diversi contendenti, sia nello sport, che nella politica e nelle relazioni sociali. E hanno sottolineato che, mentre qualcuno s’illudeva che il loro comportamento fosse nobile, cavalleresco, altruista, si è, invece, rivelato egoista, gretto, indisponente, rancoroso, sia nei modi di pensare che nella pratica, prescindendo dall’amicizia, dal rispetto degli avversari e dello spirito sportivo e scadendo, così, in comportamenti teppistici e discriminanti. Il gioco è divertimento, va fatto con lealtà e nel rispetto delle regole, dei compagni, degli avversari, degli arbitri e del pubblico; la sconfitta va accettata con dignità. Ma per loro non è stato così.
In questi giorni ho ascoltato in tv un’intervista fatta al noto giornalista e per molti anni corrispondente da Londra, Antonio Caprarica. Alla domanda di quali siano oggi i grandi difetti del popolo inglese, ha risposto: “Avere un’istituzione, la monarchia, che è un “cascame del Medioevo”; avere una nostalgia avvelenata e anacronistica di dominio imperiale, esercitato sul mondo nei secoli passati; avere una volontà di indipendenza da ogni idea di comunità e di integrazione fra Stati, cosa che ha provocato la Brexit!”. Da quanto esposto, io ricavo il giudizio che l’immagine globale che oggi danno di sé gli Inglesi è quella di essere sicuramente “antipatici”. È questo un giudizio personale che scaturisce dai miei gusti, dalla mia sensibilità, dal mio modo di giudicare che, partendo da valutazioni dei periodi storici lontani, quelli descritti da Russell in cui l’impero britannico prosperava sul colonialismo e sulla schiavitù, giunge a tale conclusione con la cronaca odierna. Poi anche tra gli inglesi faccio qualche eccezione: apprezzo Oscar Wilde, Charles Darwin, Edward Lear, lo stesso Bertrand Russell.
Dopo le Olimpiadi ho provato a fare un paragone tra il popolo giapponese e quello inglese. I giapponesi hanno vinto nettamente il confronto: hanno condotto in porto con bravura, precisione e sacrificio un’impresa straordinaria e in forte perdita economica. Davanti alla maledizione della pandemia hanno sì fatto svolgere i Giochi olimpici, ma tenendo chiusi gli stadi sia al pubblico interno, che a quello straniero, perdendo incassi da capogiro! Così, però, con serietà e severità si è evitato che il virus si moltiplicasse in patria e in tutti i continenti: è stato questo un grande esempio, mondiale, di moralità e di rispetto nei confronti di tutti i popoli. In Inghilterra Boris Johnson, durante gli Europei, nonostante il virus circolasse ancora in modo minaccioso, ha consentito il libero accesso del pubblico negli stadi. Ha salvato gli incassi, ma ha provocato, nonostante le vaccinazioni, una fortissima recrudescenza di contagi, che oggi continuano a crescere vistosamente: il 20 agosto 2021 si sono registrati 37.344 nuovi contagi!
In Giappone non vi è stato alcun problema di ordine pubblico; in Inghilterra prima della finale gli hooligans hanno messo a ferro e fuoco gli spazi limitrofi allo stadio di Wembley, diventati un vero teatro di guerra: aggressioni ai tifosi avversari, tumulti, scorrerie, bottiglie rotte, insegne divelte, scontri con bastoni, bandiere bruciate. Il Giappone, invece, ha dato esempio di elevata efficienza e di comportamenti estremamente corretti anche sul fronte istituzionale. L’imperatore Naruhito con una presenza minimalista ha dichiarato aperti i Giochi e il principe ereditario Akishino è apparso alla cerimonia di chiusura, distaccato, composto, misurato. In Inghilterra Johnson, indossando la maglia dei giocatori, ha rumoreggiato tra i tifosi e il principe ereditario William, la moglie Kate e il figlio George, come rappresentanti reali della nazione ospitante, si sono distinti per antisportività, abbandonando sdegnosamente lo stadio durante la premiazione e non chiedendo scusa per i fischi all’inno nazionale italiano.
Da una parte ci sono stati i comportamenti di civiltà, di progresso, di rispetto tra i popoli e dall’altra atti, somiglianti a quelli di un signorotto decaduto, che pretende di essere superiore a tutti per antica supremazia imperiale e, invece, è inferiore per villania, volgarità, maleducazione e, forse anche per immoralità, ove fossero vere le accuse al principe Andrea di frequentare ragazze minorenni.
Tra le altre cose, ora mi chiedo: se gli inglesi sono così antipatici, io italiano perché, non avendo nessuna necessità di comunicazione con altri popoli, devo subire l’invasione (provocata da pubblicitari, da informatori e da politici italiani) del loro idioma, che è, innanzitutto, l’idioma di persone antipatiche? Perché mi si deve rubare l’italiano, per rifilarmi un idioma “antipatico”? Perché nei tanti slogan che circolano qui da noi, l’Italia deve scimmiottarsi in Italy; Venezia in Venice; Toscana in Tuscany? Il territorio di Parma perché deve essere trasfigurato in Parmaland? Per dignità, almeno salviamo i nostri nomi propri dal raptus di albionizzare anche i nostri caratteri nativi più profondi!
Le campagne turistiche fatte in Italia a uso degli italiani con i nomi propri storpiati, mi chiedo se portano vantaggi economici: credo di no. Rivelano, invece, una debolezza psicologica, un complesso di inferiorità di chi si sente al di sotto di un altro popolo e di un’altra cultura dominanti e per fragilità cerca di identificarsi con essa. Ma se il modello di cultura, in cui molti italiani si immedesimano, è quello inglese, che è così degradato, vale la pena ispirarsi a esso? L’Italia, invece, sta dimostrando in molti settori (sport, pandemia, equilibrio politico, ripresa della produzione economica, crescita dei lavoratori occupati, serietà, educazione…) una lenta ma convincente capacità di recupero, una rinascita e una serietà che negli ultimi tempi pareva aver perso.
La Francia in campo linguistico ha un suo preciso e ammirevole comportamento: recepisce e rielabora ogni definizione che proviene da altra origine idiomatica. Oltralpe il Green pass non ha terminologicamente preso piede e i transalpini lo hanno ribattezzato Laissez-passer vert, o Passeport Covid, o Passeport de vaccination. L’Italia poteva chiamarlo Carta vaccinale, o Carta Covid, ma, per la nota infatuazione idiomatica nei confronti dell’inglese, ha accettato Green pass, dove il verde non è quello della natura, dei boschi, dei prati, ma semplicemente uno dei colori del semaforo.
La lingua italiana sappiamo tutti che è una lingua molto giovane: a differenza di altre lingue europee, si è diffusa sul territorio nazionale solo negli ultimi 160 anni. Per questo meriterebbe una protezione migliore, che non la contaminazione con altre lingue, che riescono pian piano a snaturarla e a soffocarla, prendendo esempio dalla Francia, che difende con saldezza la sua lingua e rintuzza i tentativi di contagio. Tutti dicono: Viviamo in un’epoca di globalizzazione e la rete, i social, la tecnologia informatica stanno aprendo la strada all’ingresso prepotente dell’inglese nel nostro linguaggio quotidiano. Ma perché i francesi, convinti difensori in massa dei valori della loro tradizione culturale, politica e letteraria, riescono a fare argine all’inglesizzazione del loro idioma e l’Italia no? I linguisti me lo spieghino.
Molti studiosi accettano come un fatto giusto e naturale la contaminazione. Ma ciò non è cosa giusta. Due lingue diverse sono come due fiumi, autonomi e indipendenti, che hanno acque, sotto ogni aspetto, dalle caratteristiche importanti e qualitativamente diverse. Si decide in modo estemporaneo di deviare quello con maggior portata, per farlo defluire in quello di portata più debole, ampliandone il letto. Le acque si mescoleranno e non potranno mai più essere riportate alla condizione iniziale. Se, invece, si vuole conservare integre le qualità di entrambi i fiumi, occorre tenerli separati, con letti paralleli ma indipendenti.
Riportando il paragone alle lingue e volendo evitare la prevalenza della più forte sulla più debole, occorre dare loro percorsi contigui ma separati: esistono libri bilingui, dove gli stessi testi, espressi in idiomi differenti, si affiancano, o susseguono, o l’un testo è in nota perfettamente tradotto nell’altro. Lo stesso può avvenire nei periodici. Questo rispetta le esigenze dei differenti parlanti ed evita ogni assurda ibridazione delle lingue. Lo stesso dicasi delle televisioni: si possono fare programmi doppiati nelle due lingue e trasmetterli a richiesta. Già in Rete si possono trovare video per i quali è possibile scegliere la lingua dei sottotitoli. Così la lingua che sostiene un’importante e storica cultura non viene di colpo spazzata via, può sopravvivere senza violente e improprie contaminazioni e i parlanti evitano di subire condizioni di furto/sottomissione/colonizzazione linguistica.
Molti fenomeni negativi, riguardanti il pianeta, oggi si vanno amplificando: ma se li consideriamo gravi, o gravissimi, ci impegniamo a combatterli, ad es. tentiamo di ridurre le eccessive emissioni di CO2, o di porre freno all’intensificarsi degli incendi del pianeta, vorremmo evitare il grave inquinamento dei mari… Bene, se siamo disposti a combattere gli inquinatori-distruttori dell’ambiente, perché non affrontiamo e sconfiggiamo gli inquinatori della nostra lingua, creando percorsi separati alle diverse lingue?
Mia sorella lavora attualmente negli Stati Uniti a Washington in una delle scuole, dove s’insegna l’italiano agli stranieri. Queste scuole, diffuse nel mondo, fanno capo al nostro Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Quando le è stato affidato l’incarico, ha dovuto sottoscrivere un disciplinare che chiedeva a tutto il personale di utilizzare sempre ed esclusivamente, nelle comunicazioni con il Ministero, la lingua italiana, col divieto assoluto di usare forestierismi: “… ogni infrazione sarà sanzionata”! È probabile che questa norma abbia un’origine non recente, ma illustra bene la legittima preoccupazione di un’Istituzione culturale che intendeva/intende ancora difendere l’integrità della nostra lingua.
Io credo che oggi molte persone vivano un presente assolutamente scollegato da ciò che si chiama passato e da ciò che si chiama futuro. Questo presente è fortemente saturo di informazioni, di dati, di casi di cronaca e di vita, che sommergono i fruitori per mezzo delle radio, delle tv, dei social che si sono espansi e ramificati in ogni angolo dell’esistenza. Ma questi fruitori non hanno più la capacità, la forza e neanche il desiderio di ricollegare il presente con la storia, di cui non si sente più necessaria la conoscenza, né sono capaci di elaborare proiezioni sul futuro. Ciò che si apprende dipende dalla giornata; le cose conosciute oggi cancellano quelle apprese ieri e l’altro ieri; e ciò, comunque, dà pieno appagamento. Questo avviene anche nella frequentazione delle lingue. In una confusione molto vasta, non si operano più orientamenti di ordine, di prevalenza, di stile, di valore storico, di valore letterario, di valore morale. Non si distingue ciò che è patrimonio culturale da salvare, da ciò che non ha valore. Non si ha nessuna idea di ciò che merita di essere conservato per le generazioni future. Il tutto in assenza di indicazioni forti da parte dei cosiddetti “intellettuali”, cioè di quegli studiosi la cui cultura non è basata su atteggiamenti estemporanei, ma su solide metodiche di ricerca.
Che già in un lontano passato ci si meravigliasse del forte afflusso di vocaboli inglesi sul nostro territorio, ci viene documentato da questo sonetto, pubblicato in anni prossimi al 1910 sul periodico satirico romanesco “Rugantino”. L’autore è il poeta Edoardo Francati (conosciuto anche come Fra Tinca), la cui biografia compare in Gianni Salaris, I poeti romaneschi, dal 1600 ai contemporanei, Daniela Piazza Editore, Soveria Mannelli (CZ), 2017. Il sonetto fa riferimento alle prime edizioni del Giro d’Italia, nato nel 1909 e alle cronache sui giornali sportivi già all’epoca infarcite da fastidiosi forestierismi.
Lingua itaiana
Pe’ la Corsa cicristica itajana
nun c’è no sporteman resocontista
che quanno scrive sopra la “Rivista”,
nun addopra la lingua cispatana1.
Così, nun legghi mai ‘na riga sana,
senza che nun ce trovi in prima lista
la perforance de quarcuno in pista
o quarc’antra parola rangutana2.
Come: er mangers pe’ fatte le frizioni
lo starter pe’r segnale da maestro
e l’equipes pe’ l’ariparazioni.
Pòra “Dante Alighieri” quanto sbaja!
vò che se parli l’itaiano all’estro3,
si nun se parla manco più in Itaja!
Lo sconsolato Francati in conclusione si domanda: un istituto culturale come la Dante Alighieri come fa ad accrescere nel mondo la diffusione dell’italiano, se non riesce a bloccare in Italia i tanti nuovi arrivi linguistici stranieri? Oggi qualcuno potrebbe rivolgere questa stessa osservazione anche all’Accademia della Crusca e alle tante istituzioni letterarie gestite o collegate con le Università. Ove queste strutture non fossero titolate a intervenire, perché non ne creiamo altre all’altezza del compito?
Alcuni amici miei hanno svolto un rudimentale sondaggio, libero e non condizionato da giudizi preventivi tra una ventina di amici e conoscenti, tutti maggiorenni. Alla domanda: “Ci risulta che la televisione italiana, la stampa e la pubblicità oggi usino molti vocaboli, o frasi in inglese. Come va giudicato questo fenomeno?” L’80% ha risposto: negativo! Una mamma l’ha trovato accettabile/utile. Altri hanno evitato di rispondere. Sono convinto che se si svolgesse un referendum, libero e aperto a tutti i ceti sociali, prevarrebbe l’orgoglio dei nostri concittadini nel difendere i nostri campioni sportivi, la nostra bandiera, il nostro inno e anche la nostra cultura e la nostra lingua italiana.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
[*] Con questo intervento si conclude la serie delle mie riflessioni. Chi volesse conoscere gli altri miei precedenti testi sull’argomento pubblicati su Dialoghi Mediterranei nella rubrica Per l’Italiano, deve far riferimento ai numeri 47 del 1° gennaio, 48 del 1° marzo, 49 del 1° maggio e 50 del 1° luglio del corrente anno.
Note
[1] Parlata dei settentrionali che abitano al di sopra del Po, incomprensibile ai romaneschi.
[2] Vocabolo rozzo e selvatico.
[ 3] Estero.
_____________________________________________________________
Ugo Iannazzi, architetto, museografo, studioso di tradizioni popolari, ha realizzato ad Arpino (FR) il Museo dell’Arte della Lana e redatto progetti per i Musei della Liuteria e delle Arti tipografiche. Con Eugenio Beranger ha creato ad Arce (FR) il Museo antropologico della “Gente di Ciociaria” nel 2004 e pubblicato nel 2007 il relativo saggio storico-critico, che raccoglie le vicende territoriali, gli usi e i costumi popolari del mondo rurale e artigiano locale. In collaborazione con Antonio Quaglieri ha pubblicato nel 2016 Chi parla i sparla nen perde ma’ tiempe. La civiltà contadina, una filastrocca, un pretesto e nel 2018, in collaborazione con Ercole Gabriele Gli apologhi di Fedro tradotti in dialetto arpinate. Ha di recente pubblicato: Il pensiero popolare 1, detti, proverbi, motti, raccolti da Luigi Venturini nel 1911 e da Antonio Quaglieri nel 2011; ha in preparazione, un saggio sul poeta dialettale Giuseppe Zumpetta e uno sugli incontri a Firenze tra Gioacchino Rossini e il letterato Filippo Mordani.
______________________________________________________________