di Luigi Lombardo
Cinquanta anni fa, il 26 settembre del 1971, giorno di domenica, veniva inaugurata (e dunque nasceva ufficialmente) la Casa Museo di Palazzolo. In effetti, il 26 settembre veniva inaugurata, ma il museo era nato tanti anni addietro, almeno nella mente di Uccello, con una serie di mostre, conferenze, eventi, in luoghi dove lo studioso esponeva gli oggetti etnografici che andava raccogliendo (molti, specie gli utensili di lavoro, provenivano dalla masseria della Aguglia della famiglia Caligiore, stiddha).
Con l’apertura terminava il lungo peregrinare tra Palazzolo e la Lombardia, dove Uccello era emigrato per lavoro (era un maestro elementare). Qui, nei vari paesi dove insegnava come Cantù e soprattutto Milano, egli esponeva gli oggetti che più suscitavano l’ammirata attenzione di intellettuali, scrittori, studiosi affascinati da pitture su vetro, sponde e ferri del carretto, lavori su legno dei pastori siciliani e altro.
Col trasferimento definitivo a Palazzolo gli oggetti e lo stesso Uccello trovarono l’ubi consistam. E fu una fortuna per tutti, in particolare per noi giovani ventenni (i ragazzi del ‘71) che trovavamo in Uccello un punto di riferimento, un legame con un passato molte volte rifiutato o comunque mai apprezzato dalle culture pseudoprogressiste.
Collaborai con Uccello per dieci anni, fino alla morte dello studioso. Poi, passato il museo in mano pubblica, fu un alternarsi di luci (poche) e ombre nella vita di una fragile creatura qual era la “nuova” Casa Museo. Personalmente da queste alterne vicende di luci ed ombre sono uscito sfibrato, un po’ “disamorato”, nel constatare come quell’idea di “museo vivo”, estensione della vita di ognuno di noi, non esisteva più. Non esisteva né esiste, oggi a maggior ragione, quel luogo vivo, palpitante di vita, di libertà, di scambi culturali: il museo aperto alle comunità locali.
Mentre inventariavo, con estrema difficoltà, gli oggetti della Casa Museo, chiesi ad Uccello ormai quasi moribondo, se non era il caso di continuare quella gestione privata che per dieci anni, pur tra polemiche, chiusure e riaperture, aveva assicurato la salvaguardia delle collezioni. Egli mi guardò e sussurrò: «Tu non sei un marxista con i tuoi se». Fu chiaro cosa volesse dire. L’accordo con la Regione Siciliana era stato raggiunto, anche grazie alla paziente mediazione di Peppe Voza, Soprintendente d’altri tempi. Dopo la morte di Uccello, cominciarono gli errori di approccio a quel museo: i lavori di “riqualificazione” si rivelarono un vero disastro. Poi la catalogazione, in cui furono impegnati brillanti studiosi, sembrò portare nuova energia, che durò poco. Io stesso feci parte dell’equipe, riconstatando la mole e la bellezza di oggetti che già conoscevo.
Ma le cose cambiavano “drammaticamente” sul piano della legislazione regionale dei Beni Culturali. Non so in base a cosa, certo non per il bene delle bellezze della Sicilia e della loro tutela, fu abolita la legge 77/80, la legge voluta dal rimpianto Alberto Bombace, sostituita da una serie di leggine che, in nome del presunto risparmio, consegnarono in mano a incompetenti i vari settori dei beni culturali. Nulla da dire sui singoli funzionari, ma quasi sempre erano e sono oggi fuori posto, diciamo “incompetenti” non in senso assoluto, ma relativamente alla mansione loro assegnata: unica eccezione la nomina di Pennino a direttore. Il capolavoro è stato poi il declassamento della Casa Museo, accorpato ad altre e diverse realtà museali, privato della sua autonomia: tutto in nome della razionalizzazione economica!
Tramontavano così definitivamente quegli ideali che il museo privato-pubblico aveva coltivato. Sulla scia della Casa Museo nacquero tanti musei privati, ragguardevoli e dignitosi, che oggi cercano la mano pubblica, non sapendo l’errore che fanno: molti di questi musei sono chiusi, altri stentano a sopravvivere. Le uniche realtà museali di tipo DEA che resistono e che anzi si incrementano sono, a mio avviso: il Museo Sarica di Gesso (Me), che sulla scia del museo autoriale, si impone per la vivacità delle collezioni, poco musealizzate, se non per motivi di sicurezza: ma quanta vita avrà questo museo? Io spero, anche per lo studioso che apprezzo, un tempo indefinito, che non esiste. Un altro esempio di museo privato, che ha saputo resistere più di ogni altro, è certamente il Museo Pasqualino delle marionette di Palermo. Qui il privato dialoga brillantemente col pubblico, mantenendo autonomia finanziaria e di altissima e qualificata progettualità. La gestione privato-pubblica è difficile, ma è l’unica strada!
Avevo deciso di esimermi dal parlare ancora una volta della Casa Museo, ma oggi in questo anniversario non potevo sottrarmi, per un obbligo morale che sento verso Uccello: promisi allo studioso di esserci comunque e nonostante tutto. Nel corso degli anni ho scritto tanto sulla Casa Museo. Ho organizzato mostre, convegni, approfittando delle piccole crepe che si aprivano nella burocrazia regionale. Erano piccole cose, a fronte degli “eventi” effimeri che di tanto in tanto qualche mente brillante metteva in campo. Oggi ci vorrebbe qualcosa d’altro: la rivoluzione, che ribaltasse il peso della burocrazia sulle competenze! “Sogna Catarì”!
Mi permetto di proporre ai nostri lettori una visita virtuale della Casa Museo, che mi sembra il modo più bello di onorarne i Cinquanta anni, perché la sua vita è stata un po’ la nostra.
La storia
La Casa Museo di Palazzolo Acreide occupa, come è noto, l’antico Palazzo Ferla Bonelli nell’attuale via Machiavelli. L’edificio, fulcro di un quartiere, oggi chiamato l’Orologio, ma in antico li mannirazzi (cioè grandi ovili), di chiara origine medievale, fu costruito tra il 1735 e il 1740, inglobando precedenti strutture e case, in parte crollate e in parte rimaste dopo il terremoto del 1693. Già prima di questa data doveva elevarsi in questo sito la “casa palazzata” della famiglia Bonelli- Bonfiglio: il matrimonio di una Bonfiglio-Bonelli con un La Ferla darà origine all’attuale palazzo. I Ferla-Bonelli (soprannominati i Bbunella) erano proprietari terrieri, arricchitisi con le gabelle comunali, con l’affitto delle terre del principe e i successivi acquisti di terre allodiali e feudali.
Il palazzo era uno degli edifici inseriti nel progetto di ristrutturazione del quartiere S. Sebastiano e S. Michele dopo il terremoto del 1693. Conteneva al suo interno locali – molti rimasti in piedi dopo il terremoto – adibiti al lavoro e alla conservazione dei prodotti agricoli: frantoio, maiazzé, stalle, legnaie, locali deposito, il frantoio delle olive, il centimulo del grano ecc.
Il piano nobile era la residenza del proprietario. Come afferma Uccello, sulla scorta di testimonianze orali, una parte dei locali a pianterreno era occupata dal massaro fattore, che reggeva l’amministrazione delle proprietà, curava la tenuta dei vari ambienti, si occupava della custodia delle derrate agricole, dei cavalli, degli animali nelle stalle, dei rapporti con affittuari e sensali.
Si trattava dunque di un’interessante unità produttiva in un altrettanto originale sistema abitativo, in cui coesistevano due mondi, integrandosi e fondendosi spesso: il mondo del massaro‑contadino e il mondo del padrone. Uccello sentiva il peso di questa realtà e la tenne costantemente presente: tant’è che in molte mostre di arte e cultura popolare facevano la loro comparsa (in apparente e stridente contrasto) oggetti del mondo “egemone” del padrone. Verso i primi del ‘900 la proprietà fu divisa fra due fratelli e il palazzo dovette adattarsi alla nuova situazione, che è quella odierna.
Di questo palazzo, Uccello poté acquistare solo una parte, dove realizzò la Casa Museo. L’acquisto fu facilitato dalla credenza che il palazzo, dopo l’uccisione del padrone per mano di un suo dipendente, fosse abitato dagli spiriti. Uccello colse l’occasione propizia. Ma egli sapeva bene che quello che stava acquistando era solo una parte di un unitario sistema abitativo. Quando decise di sistemare nel pianterreno del palazzo da lui acquisito le sue collezioni etnografiche, sapeva che quella casa, divisa “innaturalmente” a metà, non dava esattamente conto dell’originaria unità socioeconomica, che avrebbe potuto dare solo l’intera struttura del palazzo.
Dopo la morte di Uccello il Museo, aperto sotto forma privata nel 1971, fu acquisito dalla Regione siciliana nel 1984. Nel 2008, il direttore del tempo, Gaetano Pennino, condividendo ciò che in varie occasioni avevo (sommessamente) suggerito, prese in affitto la restante parte del palazzo, ricostituendo in questo modo l’antica unitarietà dell’immobile, che oggi si può visitare quasi del tutto. Un’altra brillante soluzione fu quella di esporre le collezioni degli oggetti dei depositi, evitandone in questo modo il deperimento e arricchendo l’itinerario all’interno del museo. Fu un azzardo, riuscito, credo.
Il cuore della Casa Museo
Chi imbocca la via Machiavelli si trova subito davanti ad un edificio austero, quasi una masseria fortificata, con un solo portone centrale (le altre aperture sono recenti) e cinque balconate sorrette da cagnoli tardo barocchi. Da questo portone si accede alla piccola corte interna con volta a botte. Qui si trova il calesse padronale, detto sautafossa, mentre ai muri sono esposti piatti smaltati (fiancotta), che si usavano per asciugare in estate l’estratto di pomodoro: sono divisi per aree, quelli di Caltagirone e quelli dell’Italia Meridionale. Questi ultimi presentano svariati soggetti dipinti quali barche, cuori, facciate di palazzi, castelli, animali, donne, ed hanno colori più delicati con prevalenza degli azzurri e del grigio perla; i piatti di Caltagirone sono a fondo giallo e presentano disegni a fiori, frutta e sono di esecuzione molto diversa e più popolari.
Nell’armadio a muro, che non è altro se non la porta di comunicazione con gli altri bassi del palazzo (oggi murata), è esposta altra ceramica calatina: brocche, quartare e cannati, tra le quali spicca una serie di cannati co ngannu, usate come scherzo di carnevale a malcapitati ospiti, da cui si può bere solo provvedendo ad otturare un foro del canale interno. Si offriva colmo di vino con l’invito: «Biviti, si putiti» (bevete se potete). Vi sono sbrunei, vasi per le olive, per i capperi salati e per l’estratto di pomodoro da conservare. Tutto intorno al patio sono esposte pietre intagliate in calcare (a petra i Palazzuolu), opere di abili scalpellini locali: frammenti di balconi o di architravi, cagnoli, fregi di facciate liberty, che Uccello aveva salvato raccogliendole dalle discariche.
Sulla destra, saliti pochi scalini, si accede al primo ambiente che inaugura la visita delle collezioni della casa Museo. In questo locale sono esposti: pezzi di carretto, pupi, giocattoli, cartelloni scenari e avvisi dell’Opera dei pupi e dei cantastorie. Una certa unitarietà unisce questi oggetti: spesso i pittori dei carretti dipingevano gli scenari dell’opera, o anche i giocattoli. Tutti i pezzi dei carretti attengono in gran parte alla Sicilia Sud orientale e al catanese in particolare, mentre non mancano pezzi che rinviano al ragusano (Vittoria e Comiso). Le sponde (masciddhara) che presentano uno sfondo rosso vivo, con una tecnica che si definisce a-rrausana (alla ragusana), rinviano appunto all’area ragusana.
Le sponde sono divise spesso per soggetti, tra cui spicca la storia di S. Genoveffa, il ciclo della Cavalleria Rusticana, il ciclo dei Reali di Francia e dei Paladini. I ferri battuti che in gran parte formavano u ntrizzu del carretto, sono straordinarie opere di fabbri ferrai di Rosolini. Spicca tra tutti i soggetti esposti il simbolo della Casa Museo: l’uomo Uccello. Chiavi e cascia di fuso chiudevano il carretto: ve ne sono esposte alcune assai significative. Le chiavi erano la parte che chiudeva il carretto all’altezza delle aste posteriori (i murri): sono sapientemente scolpite con scene in gran parte epico cavalleresche. Il soggetto rappresentato è spesso scritto in basso a punta di pennello o scolpito a rilievo: «Ruggiero libera Angelica», «Leo uccide il grifo», «Pazzia di Orlando», «Fote un grifo». Fuori da questi canoni è una scena frequente: il duello mafioso.
Nella parte lignea della cascia di fuso era spesso indicato il nome del carradore, la sua città, qualche volta la data di esecuzione. Ma considerato che il carretto era anche un oggetto di invidia dei malevoli cucchi, o iettatori, il carradore inseriva qualche scongiuro del tipo «Perce mi guadi cose paleto» (perché mi guardi così pallido?). In questo ambiente, che in origine era una stalla, poi divenuta maiazzè, spicca la ricostruzione di un Teatro dell’Opera dei pupi, che Uccello chiese di allestire al puparo Ignazio Puglisi di Sortino. I pupi esposti sulla scena sono quasi tutti palermitani. Quelli catanesi sono pochi e limitati ad alcuni personaggi particolari: Pulicani, Nacaluni, il Ciclope. Sono più alti di quelli palermitani e presentano le articolazioni rigide.
In un angolo dove è ricavata un’antica iazzena o armadio a muro, sono esposti i giocattoli: da quelli più popolari in canna o legno, a quelli di produzione seriale in latta o celluloide. Vi sono esposti anche alcuni esemplari di fischietti di Caltagirone, che i contadini compravano per i bambini nelle fiere, in particolare nella cosiddetta fiera dei Morti (la notte tra il 1° e il 2 Novembre).
Ritornati nell’atrio e saliti alcuni gradini, si nota l’ampia cisterna del palazzo, ancora attiva, con la curchera e u sicciu. Si accede alla casa del massaro, divisa in due ambienti: a casa i stari e a casa i massaria. Questa è un ampio locale con tetto a tavole e trave maestro a sostegno, dove la famiglia contadina svolgeva i lavori domestici legati alla confezione del pane, alla lavorazione della ricotta, alla preparazione dei pasti, alla tessitura, all’intreccio dei panieri e delle ceste, all’intaglio dei cucchiai, alla riparazione degli arnesi di lavoro. Sulla destra entrando è il forno, detto a fumu persu, perché privo di canna fumaria: uscendo dal tetto senza tavole il fumo asciugava le salsicce e uccideva gli insetti molesti. Segue la cucina con la tannura a due fornelli (i funnacelli), disposta sul piano cottura chiamato tuccena. Alla parete e sul forno sono appese le pentole e le padelle di rame, i cucchiai in legno, mestoli (scumalori), la pirciata o sculamaccarruna (scolapasta), la sartania.
Segue l’angolo della ricotta con l’ampio calderone (a quarara) dove si cagliava, sospesa su due treppiedi in legno, con tutti gli arnesi della caseificazione: u scutiddharu per il caglio, la cazza per il latte, la rruotila per rompere la cagliata, a mastreddha per scolare il siero di cottura e asciugare il formaggio. Al forno erano collegati due attrezzi della panificazione: la maiddha e la sbria, per impastare e scaniari il pane, fino alla giusta consistenza.
In questa stanza, simbolo del lavoro femminile, il telaio è ancora funzionante e periodicamente viene attivato da anziane contadine o da giovani appassionate. Qui la massaia tesseva giorno e notte la dote della figlia, a rrobba, tra cui a cutra, a frazzata, u cannu, pagghiazzi, pagghiazzeddi, ma anche lenzuoli e federe. A lato del telaio sono disposti gli arnesi della filatura: l’arcolaio (annìmulu), il fuso, l’aspo (rrucca). Nel cesto di paglia i vari gomitoli di lana, cotone, lino e filondenti, e tante spole (navetti), tummarieddi (bilancine), tutte finemente intagliate da abili mani di pastori.
Una bassa porta permette l’accesso all’ambiente forse più suggestivo: a casa i stari, la stanza degli sposi. Qui la famiglia contadina riposava e al contempo custodiva le ricchezze: la dote della sposa, il grano nel canniccio; ma anche i ricordi e il mondo devozionale. Un alto letto occupa gran parte della casa, coperto d’inverno da pesanti coltri di lana (frazzati), tessute la maggior parte con motivi a scacchi (ar-ugna); in estate una leggera coperta di cotone bianco, detta cutra a livia, con disegni a greca e spesso ornata di disegni augurali del tipo «Vuoi ornare il tuo bel cuore: fama, virtù e onore». Il letto è sormontato dalla culla, chiamata naca a-bbuolu, o culla a vento, con bellissimi tessuti di cotone e adornata di fiocchetti rossi e immagini di santi.
Al capezzale a proteggere la casa e le ricchezze della famiglia sono disposte, secondo una precisa gerarchia, le stampe devote, tra cui campeggia l’immagine del patrono S. Paolo da una parte e la stampa dell’Addolorata dall’altra: il primo invocato durante la mietitura, l’Addolorata nei periodi di siccità. Sotto il letto un bel baule di colore verde col disegno di un cuore fiammante custodisce la roba della sposa. Quando i santi non bastavano si faceva ricorso alla magia delle mandorle “cornute”, cioè doppie e legate con nastrino rosso, al ferro di cavallo; e quando tutto ciò non funzionava, allora la scupetta (fucile ad avancarica) poteva funzionare da deterrente.
Poiché trattasi di casa del massaro, non poteva mancare qualche mobile un po’ più pregiato, come la bella cassapanca settecentesca (u casciabbancu), destinata a custodire coperte, vestiario, biancheria, bisacce e scialli preziosamente tessuti al telaio di casa, o acquistati in cambio di frumento.
Lungo il lato opposto al letto Uccello, seguendo lo schema di “allestimento” suggerito dalla vecchia zia contadina e dalla moglie figlia di massaro, ha disposto i ritratti di famiglia, degli antenati, le foto degli avvenimenti più importanti del clan familiare. Qui la famiglia trascorreva le serate d’inverno al calore del braciere (a conca), giocando a carte sul tavolo (a buffetta) in noce, dove sono disposti vari oggetti di casa: tra cui il bilancino per pesare la polvere da sparo e il corno di bue coi pallini del fucile. Al muro è appeso infine il tamburo e la mazza battente, col fischietto di canna (u friscalettu), per allietare le lunghe sere d’inverno o, nelle feste di Carnevale, per animare le danze “comandate” (a quatriglia) e i festini “associati”. Certo, questi ambienti sono stati allestiti ex novo da Uccello e dalla sua famiglia (tutti massari e contadini), ma il grado di veridicità è altissimo, al punto da diventare modello per altre ricostruzioni museali (si vedano i musei di Modica e Buscemi).
Usciti nell’atrio principale si accede alla piccola stalla, dove sono esposti i collari dei buoi e delle pecore, scolpiti o dipinti da sapienti mani di artisti popolari. Seguono gli attrezzi del lavoro dei campi, in gran parte manufatti dal massaro stesso o dai suoi garzoni. Da questo ambiente si accede al frantoio per macinare le olive, situato in un grande ambiente (tammusu) con volte a botte, in parte anteriore al terremoto del 1693. In fondo è stata ricostruita la macchina per frangere le olive: costituita da una base con pietre inclinate e convergenti verso il centro (a fonta), dove è collocata la base (a mola suttana), sulla quale gira una pesante macina in pietra vulcanica di Buccheri (a mola suprana), trainata durante il lavoro da un asino, per mezzo di una lunga pertica detta minciarru. La pasta, raccolta col maiddhieri, una sorta di attingitoio in legno, veniva disposta nelle fiscelle circolari a sacca (dette coffi), che a loro volta venivano collocate a pila sotto una pesante pressa detta cuonzu, formata da due pesanti elementi in legno: la çianca suttana e la çianca suprana. Quest’ultima si alza e si abbassa per mezzo di due viti senza fine dette pilieri, su cui scorrono due madreviti, i scufini, che premendo fanno fuoriuscire il prezioso liquido. Le passate sotto il torchio erano più di una.
L’olio e l’acqua di vegetazione erano raccolti dentro recipienti (i tinieddi) scavati nella roccia attraverso un raccoglitore in pietra lavica (a lumera). L’olio che decantava si passava nelle giare, mentre l’acqua di vegetazione defluiva dentro due vasche ricavate nella roccia dette a morti (la morte). Un lungo processo come si vede, da cui dipendeva in parte l’annata agraria dei contadini. Attraverso dei gradini scavati nella roccia si entra nel retro del granaio, dove sono disposte alcune pitture su vetro, ed è stato ricostruito il grande presepe con figurine in terracotta dipinte di Mario Iudici di Caltagirone. Si esce nel piccolo baglio di recente restaurato, dove è esposta la carrozza di famiglia.
Dalla piccola stalla si entra nel grande maiazzè. Qui per l’ampiezza del locale, un tempo destinato allo stoccaggio delle derrate agricole (frumento soprattutto) del padrone, sono disposte in bella successione una serie di collezioni, tra cui spicca quella delle pitture su vetro e quella dei cucchiai e mestoli in legno, la cui collezione costituisce un’organica rappresentazione dell’arte agropastorale iblea, che spicca sia per la funzione svolta da ogni oggetto nell’ambito delle stoviglie da mensa e da lavoro, che per spessore artistico. Disegni geometrici con i consueti simboli dell’arte contadina (la luna, il sole, la spirale, gli occhi apotropaici) gettano luce su un’arte popolare che si relaziona con un mondo immaginifico e simbolico di tipo magico-religioso. Spiccano tra tutti alcuni bastoni da combattimento tra pastori, i famosi vastuna che ruppa (bastoni nodosi). Questi oggetti sono disposti secondo un ordine espositivo sulla parete in legno che chiude il grande granaio padronale, in cui era conservato “l’oro dell’anno” agricolo.
Le pitture su vetro della Casa Museo
Sono in tutto 85 pezzi, disposti cronologicamente: dai più antichi esemplari della fine del ‘700, alle ultime produzioni seriali palermitane. Si tratta di una delle collezioni più complete esistenti in Italia. La tecnica è quella assai antica della pittura sul vetro a rovescio: il pittore infatti, tenendo conto di questo, disegnava i soggetti perché si vedessero correttamente sul recto del vetro (ma non mancano gli errori, alcuni assai clamorosi). Sono di soggetto religioso e si legano intrinsecamente alle stampe devote, incise su carta, di cui prendono spesso il posto. Al centro della sala sono disposti i vecchi fondali dell’opera dei pupi e gli avvisi dei pupari e dei cantastorie, parte di una vasta collezione di autentica arte popolare siciliana.
Il piano nobile e il nuovo allestimento
Se il pianoterreno conserva l’antico e originario allestimento voluto dal fondatore del Museo, il piano nobile rispecchia le scelte di diversi dirigenti, che hanno voluto lasciare la propria impronta: si comunque conferma l’impressione che, nonostante tutto, la Casa Museo è un museo vivo, che ancora potrebbe appassionare e far discutere.
Una scala in pietra permette l’accesso al piano nobile dove sono esposte le altre collezioni della Casa Museo: le cere, gli ex voto, le sculture polimateriche, i tessuti, le stampe devote, parti di carretto, giocattoli, forme di terracotta smaltate (formine) per il biancomangiare, la cotognata e la mostarda (a mustata), le forme in gesso dei dolcieri, la ceramica di Caltagirone, i presepi popolari, e infine la collezione degli idiofoni (fischietti), in terracotta dipinta in grandissima parte calatina: sono dei maestri Iudici, Forgia, Graziano e di tantissimi anonimi maestri pasturara calatini. Il visitatore si può muovere liberamente tra queste collezioni, disposti senza vincoli di ambientazione e collocazione, con voluta confusione, seguendo percorsi non vincolati, tenendo sempre presente che tutti gli oggetti fanno comunque parte di una struttura funzionale che li caratterizza e li condiziona: gli oggetti possono apparire belli o meno, ma sono sempre utili, servendo a qualcosa o a qualcuno.
Le sale del piano nobile ospitano eventi, mostre e incontri. La sua apertura alla visita consente di apprezzare uno straordinario esempio di residenza del patriziato locale, coi balconi che guardano verso il centro storico del paese. Spicca, con la sua facciata rococò, la basilica di S. Sebastiano, che custodisce la statua dell’antica patrona del paese, la Madonna Odigitria. Più in là nella parte più alta è la chiesa di S. Maria di Gesù, dove si può ammirare la bellissima “Santa Maria dela Gratia de Palazzu”, eccelsa opera del Laurana. I locali del palazzo che guardano a tramontana consentono la visione dell’ampia Valle dell’Anapo, del quartiere più storico del paese, Castelvecchio, coi ruderi del castello normanno, e in successione le tre chiese quivi ubicate: la Chiesa Madre (fondata nel 1215), la chiesa di S. Paolo, legata al titolare e patrono del paese, la chiesa dell’Annunziata, dove era custodito il polittico di Antonello da Messina, l’Annunciazione, oggi al Museo di Palazzo Bellomo a Siracusa.
Vengono in mente, davanti a simile struggente vista, alcuni versi che Uccello dedicò a un paese che amò e da cui fu poco riamato:
S’aprono fichi lìpari
palme e pietre normanne ad alte cupole
barocche scalinate e grigi santi
di pietra calcare
tegole come il pelo delle lepri
acquattate sul filo di muraglie
verde d’arancio mandorlo degli orti
piazze affocate d’oleandri e sole.
Paese frantumato di vicoli e sentieri
e di manieri arcigni
di cimiteri siculi e cristiani
dove la capra bruca …
La memoria di Antonino Uccello e dei ragazzi del ‘71
Il modo migliore di rispettare Uccello, la sua illustre creatura e tutti i suoi collaboratori è quello di continuarne l’idea conduttrice, le finalità che furono quelle di trasmettere ai giovani la memoria di una civiltà siciliana in rapido mutamento, il suo complesso universo simbolico e segnico; è anche quello di dar vita a un museo che, seguendo la metodologia di ricerca di Uccello, possa ampliare l’orizzonte degli interessi museografici (oggetti e soggetti fruitori) e che non si fermi alle sole cosiddette ‘classi subalterne’ (espressione oggi diventata urticante), ma riesca a raccontare gli intrecci e le relazioni di ceti e di civiltà, anche attraverso una rigorosa ricostruzione del “mondo del padrone”, cioè di ambienti, oggetti e documenti ampiamente presenti nelle collezioni di Uccello (materiale e documenti solo in parte esposti). Chi dovrà fare questo? Sinceramente non lo so.
I musei etnografici sono, per parafrasare Pietro Clemente, «una risorsa di identità, un luogo di appello delle civiltà. Quando una cultura o una civiltà vede in crisi la propria capacità di riconoscersi in valori comuni – la propria identità – fa ricorso al proprio passato come risorsa da investire nel futuro, e assai di frequente ci si rivolge al passato folklorico, in cui più che altrove è possibile leggere i segni di una communitas, come modello di riferimento possibile». Questo messaggio è necessario trasmettere alle nuove generazioni, in particolare quelle studentesche, in modo da rendere il museo non un luogo di deposito di oggetti “estinti”, e a volte di persone viventi, ma luogo delle memorie vivificanti, dove, ciascuno a modo suo, può percepire il senso di un’identità, che carsicamente scompare e epifanicamente ricompare.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa; Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga.
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