Che l’antropologia sia tra le scienze umane la più umana è probabilmente vero. Ma accade a volte che ciò che gli antropologi non dicono riescano a farlo gli scrittori, gli autori di storie inventate, di racconti dell’immaginario. A chi gli chiedeva di descrivere e spiegare la Russia sovietica l’eminente antropologo Tzvetan Todorov non suggeriva la lettura di manuali di storia, i testi di sociologia o di politica ma piuttosto il romanzo di Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita. Molto spesso la letteratura, «maestra di sfumature» secondo l’acuta definizione di Barthes, ci introduce alla conoscenza del mondo meglio di qualunque altro discorso, con più forza di penetrazione di quanto riescano a fare certe opere di saggistica o apposite ricerche di approfondimento critico.
Fouad Laroui non è un antropologo né un sociologo ma i suoi racconti (L’esteta radicale, Delvecchio editore Roma 2013) ci dicono qualcosa dell’universo sociale e culturale da cui muove l’immigrazione maghrebina, disegnano con grazia e ironia il profilo di quella umanità che vive il disagio della quotidianità e coltiva le speranze nel tempo sospeso di un’attesa infinita e indefinita. L’autore è di origine marocchina e, pur abitando e lavorando da oltre vent’anni in Europa, tra Parigi e Amsterdam, scrive soltanto del Marocco, dal suo Paese, lontano e pure vicino, trae l’ispirazione narrativa, la materia e le ragioni dello scrivere. La sua stessa condizione di emigrato gli offre lo sguardo obliquo e decentrato per attraversare i confini, per mescidare e incrociare orizzonti e prospettive, per assumere la giusta distanza da sentimenti collettivi e memorie soggettive. La scelta di scrivere in lingua francese con innesti di parole arabe sembra voler connettere in un sottile equilibrio la trama di fili invisibili che uniscono l’Occidente con il mondo delle sue origini.
Per la prima volta tradotta in italiano, l’opera di Fouad Laroui, se pure riconducibile alla folta ed affermata letteratura maghrebina francofona contemporanea, se ne distacca per originalità di tratti ideologici e stilistici. Più vicino per certi aspetti all’algerino Amara Lakous che al marocchino Tahar Ben Jelloun, lo scrittore vive la sua esperienza di esule con l’impegno a decostruire e perfino, in alcuni casi, a ridicolizzare, tra il disincantato e il grottesco, alcuni tabù della società arabo-musulmana, stereotipi che appartengono alla tradizione popolare marocchina quali la malinconica indolenza, l’inquietudine repressa, la nostalgia di un passato mitico. Se usa la satira contro ogni forma di fanatismo religioso dei suoi connazionali, contro la diffusa e ottusa rassegnazione alle convenzioni esistenti, con la stessa leggerezza di toni e di accenti l’autore critica beffardamente i guasti prodotti da certa islamofobia occidentale, gli abusi e gli inganni del potere, le tare del colonialismo, il cinismo delle burocrazie.
Le storie e i personaggi ruotano in gran parte attorno ad un luogo eminentemente simbolico e centrale nella storia e nella vita sociale e culturale dei Paesi mediterranei e arabi in particolare: il caffè. Già in epoca ottomana era locale pubblico non solo di consumo di bevande calde, come il caffè forte alla turca e il tè alla menta (šāy bi al-na‘nā‘), versato in piccoli bicchieri, ma anche di intrattenimento e di confabulazione: vi si tenevano i popolari spettacoli delle marionette (qārāqūz), si giocava a carte, ci si aggiornava sugli eventi cittadini e si confrontavano le opinioni, si chiacchierava praticando l’arte della filosofia spicciola accanto a quella del pettegolezzo e del “sentito dire”. Qui, in questo spazio familiare per gli uomini, quasi mai frequentato dalle donne, tra le pareti rivestite di mattonelle in ceramica che separavano e proteggevano l’interno dalla frenetica vita della città, era possibile “parlare liberamente”, era possibile ospitare gli emarginati sociali, i militanti politici, le minoranze intellettuali. Sebbene oggi l’atmosfera sia oggettivamente mutata e il tempo consumato nei caffè sia sensibilmente ridotto rispetto al passato, essi conservano per le comunità arabe un’eguale funzione di aggregazione e di conversazione, di invenzioni e narrazioni di storie e soprattutto di osservazione e contemplazione dello spettacolo della vita quotidiana.
Attorno al cafè de l’Univers di Casablanca nascono e germogliano molti dei racconti che Fouad Laroui ha riunito nel suo libro. Su quei tavolini e dalla terrazza che si affaccia sulla strada i giovani marocchini intrecciano le storie che, in un ben congegnato gioco di specchi, diventano i racconti i cui personaggi sono gli stessi narratori. Da qui il complesso ordito temporale che oscilla tra passato e presente, tra la fabula ovvero la materia narrata e la trama ovvero il discorso con cui prende forma ciò che si narra. Nell’arte del raccontare, nelle vite costruite dalle conversazioni degli uomini che narrano di uomini e di donne protagonisti di storie e personaggi di racconti, Laroui sembra voler sottolineare il valore di transazione sociale affidato alla pratica – tutta mediterranea – di mettere in comune le storie, il vissuto, la memoria. Attraverso il filo delle vicende narrate e delle storie scambiate si tesse quel reticolo comunitario cui l’autore guarda con arguta e amabile simpatia. Tra le maglie di questo cortocircuito narrativo e della rappresentazione letteraria del “come se”, è possibile accedere a inediti livelli di conoscenza della realtà marocchina, a un certo spaccato di quel mondo in bilico tra tradizione e modernità, impigliato dentro una ragnatela di contraddizioni identitarie.
Accade pertanto che il conflitto tra la cultura storica predominante nel discorso pubblico e gli stili di vita di tipo individualistico che si vanno affermando nel privato generi disorientamento e comportamenti schizofrenici. Stretti tra la città che si dilata e la campagna che resiste, tra la lingua francese egemone, quella inglese neocoloniale e quella araba che si frantuma in tutte le sue varianti dialettali, gli antieroi che abitano i racconti di Laroui vivono esperienze e sentimenti contrastanti: slanci di libertà e di riscatto, drammatiche sconfitte e umiliazioni. C’è chi come Malika si sottrae al matrimonio combinato, “arrangiato tra due paia di schiaffi”, ribellandosi al destino della madre, che era stata a sua volta costretta a sposare “quello sconosciuto madido di sudore che le si strusciava addosso la notte delle nozze”. C’è chi come “il visionario incompreso” Zahidi si inventa una squadra di calcio locale che tenta di affrancare i giocatori dai modelli dei campioni occidentali. Ma ci sono anche i giovani marocchini che vivono e lavorano in Europa, figli degli emigrati, protagonisti degli oscuri e travagliati processi di inserimento nella società di Amsterdam o di Marsiglia. Le pagine di questi racconti di Laroui lasciano intravedere i percorsi incerti, tortuosi, difficili di quanti tra le nuove generazioni sono impegnati a definire la propria identità, a tentare strategie di riconoscimento, a riscattare la propria condizione di subalternità culturale.
Ahmed è il protagonista del racconto che dà il titolo al libro. Lavora presso un impianto petrolchimico e, quando conosce una ragazza francese, ha finalmente “l’impressione per la prima volta di essere a casa sua in Francia”. Ma ritorna presto straniero quando la compagna lo pianta in asso. Sulla metropolitana, “a forza di incontrare, perlopiù, sguardi vuoti, diffidenti o silenziosamente ostili, era diventato a sua volta un viaggiatore dallo sguardo sfuggente”. Cadrà vittima di un incidente sul lavoro ma la diffusa sindrome islamofobica lo scambierà per un terrorista kamikaze. Laroui imbastisce un caustico gioco narrativo di cui lascio scoprire al lettore l’ineffabile verità.
Nella storia di Jaafar, marocchino di seconda generazione nato in Olanda, il problema dell’identità ha risvolti meno drammatici ma non meno densi di profonde inquietudini. Il giorno in cui Saddam fu impiccato segna la crisi del padre che, “immobile davanti allo schermo della televisione”, cessa di dormire e di mangiare, rinchiudendosi in un ostinato silenzio. L’umiliazione subita dal dittatore iracheno, la sua cattura e la sua esecuzione esibite al mondo in modi sprezzanti e contrari ad ogni principio di umanità, sono percepiti come una arrogante mortificazione di tutti gli arabi immigrati in Occidente, della loro “diversità etnica”, della loro stessa dimensione umana. Jaafar capisce le intime ragioni del padre, ne condivide il disagio e si interroga: “Uomini come mio padre, che gli assomigliano, sono, in qualche modo, in attesa di esecuzione. Se si può umiliare a tal punto un uomo potente come Saddam, quanto valgono loro? Il minimo incidente può condurre alla vergogna più totale”. Nelle sue parole si riassume in fondo, forse meglio che in qualsiasi ricerca sociologica, l’angoscia esistenziale dei tanti giovani di origine straniera che nel contesto migratorio sono dibattuti nella ricerca di un equilibrio tra le diverse culture di appartenenza.
L’ultimo racconto è probabilmente quello più intenso e più accorato. Narra la tragedia di Lahcen, in fuga dal Marocco, come tanti altri ventenni, per inseguire il sogno europeo al di là dello stretto di Gibilterra. Lo attendono “le correnti invisibili e traditrici che facevano la guardia meglio di un esercito intero”. Lo scontro con il padre, che nulla può contro le aspirazioni del figlio, la feroce rapacità degli scafisti, le vicissitudini che precedono l’imbarco, la traversata nella notte su una imbarcazione di fortuna, il motore che si blocca, l’acqua che penetra e sommerge la stiva, le onde che “sembrano mettere in scena un balletto crudele a perdita d’occhio”, gli uomini ad uno ad uno inghiottiti dal mare, Lahcen che maledice il Dio sordo alle preghiere e si lascia scivolare tra i flutti: una incalzante e drammatica sequenza di azioni che precipitano in un rovinoso epilogo verghiano. Naufragano le vite e le speranze dei migranti e con esse l’idea di un Mediterraneo senza frontiere, di un’Europa ancora ospitale.
Raccontando di Malika, Zahidi, Ahmed, Jaafar, Lahcen, e dei tanti giovani marocchini che sono nati nelle nostre città o guardano all’Occidente con desiderio e con fiducia, Fouad Laroui è riuscito a rappresentare, senza enfasi e senza sofismi, alcune umane sfumature delle complesse questioni delle identità culturali, lungamente e affannosamente dibattute dagli antropologi, e qui concretamente incarnate nelle storie che attraverso le sofferte e controverse vicende dei migranti parlano a noi, di noi, dei nostri egoismi e delle nostre contraddizioni.
Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013