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Sulla tutela dei laghi di Faro e Ganzirri. Attività tradizionali e Genius Loci a Capo Peloro

Lago grande, 1912

Lago Ganzirri, 1912

di Sergio Todesco [*]

Una riflessione sui beni demo-etno-antropologici non può prescindere per un verso dall’ovvia considerazione che essi risultano in fondo essere non altro che scarti significativi della modernità in rapporto ai modelli di cultura secondo i quali la modernità stessa si è imposta come tale; per altro verso, da un più o meno consapevole progetto d’identità cui ancoriamo il conferimento di senso e il riconoscimento di valore a forme di cultura che non fanno più parte del nostro orizzonte conoscitivo ed esistenziale. Noi avvertiamo cioè l’esigenza di costruire parte della nostra identità attraverso un rapporto dialettico con forme di cultura espunte, rimosse o superate nel corso della nostra storia, e la distonia di tali forme con quelle che connotano il nostro presente non ci impedisce tuttavia di considerarle in qualche modo delle risorse.

Nella consapevolezza di tali presupposti avendo avuto, in un passato ormai lontano, la responsabilità di programmare sin dal suo avvio l’attività della Sezione per i Beni Etno-antropologici della Soprintendenza di Messina, ho considerato preminente articolare tale attività secondo un quadro di riferimento disciplinare antropologico-culturale e non meramente folkloristico, come forse era stato implicitamente previsto nelle scarne premesse legislative di riferimento (L.R. 1.8.1977 n. 80). In breve, l’Ufficio da me diretto ha inteso esercitare i propri compiti istituzionali non limitandosi a tutelare pupi e carretti, secondo i più vieti luoghi comuni sui tratti salienti della cultura tradizionale siciliana (in tal modo sottoposta da alcuni decenni a meccanismi di fruizione tanto ambigui quanto mistificanti), bensì connotando la propria attività attraverso un’attenzione antropologica rivolta al territorio, al suo tessuto connettivo, ai processi di domesticazione in esso storicamente determinatisi, alle dinamiche socio-culturali di matrice tradizionale che ancora lo interessano, in breve esercitando una costante riflessione sulla cultura popolare siciliana e le svariate strategie di adattamento e di plasmazione da essa sperimentate di fronte agli aggressivi attacchi di una modernità omologante e tendenzialmente distruttrice di ogni specificità.

Tale impostazione ha naturalmente comportato lo studio, l’analisi funzionale e l’adozione di tutte le strategie di salvaguardia (da quelle passive del vincolo a quelle attive del restauro, della valorizzazione, della pubblica fruizione) nei confronti di beni facenti parte dell’universo tradizionale siciliano. In dipendenza di ciò, è risultato notevolmente ampliato il numero delle tipologie di beni astrattamente rientranti nella sfera di competenze della Sezione, che si è pertanto ritenuta estensibile a beni mobili, immobili e volatili che hanno a vario titolo definito storicamente le forme di vita tradizionale in Sicilia.

Benché tali ambiti di studio, ricerca e intervento coincidessero con quelli eletti a oggetti di investigazione da parte delle discipline demo-etno-antropologiche, in Italia negli anni ’80 pressoché interamente di appannaggio accademico, mi pare importante notare come l’approccio a tali categorie di beni fosse in qualche misura differente da quello praticato in ambito “professionale”: per l’antropologo puro gli oggetti e le presenze territoriali erano anzitutto i segni di una cultura i cui tratti si riteneva utile, a fini prioritariamente conoscitivi, investigare; a me, etnoantropologo della Regione Siciliana cui competeva la tutela e la pianificazione territoriale nonché l’educazione permanente, tali beni si presentavano risorse e contenitori di memoria dei quali occorreva in prima istanza assicurare la più ampia fruizione da parte delle comunità locali, all’interno di un progetto complessivo di crescita nella consapevolezza di identità “a rischio”, che mi pareva (quarant’anni fa) essere indispensabile per una partecipazione non subalterna alla cultura globale.

Cocciolaro, 1912

Cocciolaro, 1912

È appena il caso di ricordare in questa sede quanto sosteneva il de Martino maturo a proposito dell’importanza delle patrie culturali: «… alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una patria e di mediare, attraverso la concretezza di questa esperienza, il proprio rapporto col mondo. Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale».

Tale è stata la prospettiva che ha orientato l’azione di tutela, dispiegata in direzione non solo di importanti collezioni di oggetti tradizionali (mestieri di pupari, ex voto, pitture su vetro, strumenti di lavoro, ceramiche etc.), in qualche caso provvedendo al loro restauro e alla loro conservazione, ma anche verso significative testimonianze territoriali della Sicilia tradizionale quali mulini, palmenti, frantoi, resti di tonnare, agglomerati pastorali et similia.

Con il provvedimento declaratorio n. 1342/88 del luglio 1988 i due laghi ubicati nel territorio comunale di Messina, denominati “di Ganzirri” o “Pantano Grande” e “del Faro” o “Pantano piccolo”, di proprietà del Demanio dello Stato-Ramo Marina Mercantile, sono stati così dichiarati beni d’interesse etno-antropologico particolarmente importante ai sensi e per gli effetti della legislazione di tutela allora vigente, in quanto sedi di attività lavorative e produttive tradizionali connesse alla molluschicultura (mitilicultura e tellinicultura) che rappresentavano nel loro complesso una singolare testimonianza di cultura tradizionale nel territorio della città di Messina.  In forza di tale provvedimento i due specchi lacustri, e le attività lavorative e produttive che in essi ancora oggi si esercitano, venivano considerati beni etno-antropologici dei quali occorreva assicurare la tutela al fine di garantire l’identità e la memoria storica di un’attività che da circa tre secoli connotava l’economia e la cultura della zona di Capo Peloro.

Con tale provvedimento l’attività tradizionale della molluschicultura è stata dunque riconosciuta bene etno-antropologico da tutelare e di cui assicurare il mantenimento con le caratteristiche e le modalità che ne hanno connotato l’assetto tradizionale, ancorché tale attività fosse stata in alcuni periodi (a quel tempo, nel lago di Ganzirri) inibita e vietata dalle autorità competenti per motivi igienico-sanitari; il provvedimento di tutela, pur prendendo atto di tale situazione di degrado, sottolineava «che tale divieto [di esercizio della molluschicultura] può comunque essere ragionevolmente considerato temporaneo, in quanto con mutate e migliori condizioni igienico-sanitarie dei laghi (…..) l’attività della molluschicultura appare come l’unica compatibile con l’ecosistema che nei laghi si rappresenta…». Auspicio poi divenuto realtà, tanto che ancora oggi la molluschicultura viene praticata.

I due laghi

I due laghi

Il lago di Ganzirri, distante circa 9 km. dal centro di Messina, presenta una superficie di 338.400 mq., una forma allungata nel senso S.O.-N.E. e una profondità massima di 6,50 metri. Il toponimo Ganzirri deriva probabilmente dall’arabo Gadir (stagno, palude). Tale etimo appare verosimile, dato che nell’antichità l’intera zona dei laghi era paludosa, e solo con i primi stanziamenti e la creazione di nuclei abitativi stabili si determinò una progressiva bonifica del territorio. Il livello del lago non è stabile; esso infatti s’innalza con la cosiddetta “inchitura”, sensibilmente parallela alla fase della corrente montante dello stretto, e si deprime invece con la “mancatura” o “secchezza”, pure parallela alla fase della corrente scendente dello stretto. Le acque del lago sono in comunicazione con il mare adiacente per mezzo di canali, alcuni fatti costruire dagli Inglesi intorno al 1830, il primo dei quali, il canale Catuso, è coperto e si trova situato nella zona sud del lago, mentre il secondo, denominato Carmine o Due Torri, è scoperto e si trova quasi al confine nord del lago; un terzo canale, scavato in contrada Margi, collega il lago di Ganzirri con quello di Faro.

Il lago di Faro (Lago Piccolo) è più ridotto ed è situato più a nord rispetto a quello di Ganzirri o Lago Grande; esso si trova cioè più vicino al Capo Peloro; quest’ultimo sarebbe stato in origine fortificato dagli Zanclei, antichi abitatori di Messina, e dotato di un faro a fiaccole (fani) che serviva da guida notturna per i naviganti. Il toponimo di Faro potrebbe trovare qui una sua spiegazione; già nel 1543 Francesco Maurolico denominava gli abitanti della zona come «abitanti sotto il nome del Faro». D’altra parte Domenico Puzzolo Sigillo (1927) ritenne di poter attribuire l’origine del toponimo alla parola pòros, passaggio (cfr. Bosforo), stretto di mare, che dunque si riferiva all’intero tratto costiero messinese antistante la Calabria e, in senso proprio, al tratto di mare che separa le due terre. Il lago presenta una superficie di 263.600 mq, una forma quasi circolare col diametro maggiore nel senso N.O.-S.E. e la profondità massima di 28 metri. Esso comunica con il Mar Tirreno attraverso il “Canale degli Inglesi” e con lo stretto di Messina attraverso il cosiddetto “Canale Faro” o “Canalone”.

In passato i laghi sarebbero stati tre, come asseriscono, tra gli altri, Diodoro Siculo e Solino, e come dopo essi sostennero parecchi autori, da Cluverio a La Farina. Il terzo lago, situato tra i due laghi di Ganzirri e del Faro e denominato “Margi”, o “Marga” o “Maggi”, costituiva una palude pestifera più che un vero e proprio specchio d’acqua, al centro della quale secondo gli antichi sorgeva una postazione sacra dedicata al dio Nettuno, poi inabissatasi per sconvolgimenti tellurici.

Non si hanno dati storici attendibili riguardanti la fondazione dei due villaggi di Ganzirri e di Faro. Secondo Caio Domenico Gallo che ne dà conto nei suoi “Annali” parrebbe che il villaggio di Faro esistesse già nel 1500. L’impianto di un agglomerato stabile di persone sulla riviera nord di Messina, a causa delle non infrequenti incursioni piratesche e della difficoltà di difendere le coste, deve in realtà risalire a pochi secoli or sono, e non è pertanto improbabile che i primi nuclei dei due villaggi consistessero in strutture di tipo lavorativo-produttivo (piccoli cantieri navali, magazzini per la salagione del pescato etc.) piuttosto che residenziale.

Lago grande, anni 20

Lago Ganzirri, anni 20

Francesco Maurolico spiega la formazione dei nuclei urbani in prossimità del Capo Peloro con la prospettiva di un sicuro guadagno per mezzo dello sfruttamento dei laghi, o delle vicine saline. Pare verosimile che i primi stanziamenti consistessero in miseri abituri sparsi nelle campagne circostanti i due laghi, come emerge da una cronaca del terremoto del 1783 riportata negli “Annali” di Gaetano Oliva (1892). Varie e complesse sono le vicende concernenti il diritto di proprietà sui laghi. Essi, come laghi salmastri, fanno parte del Demanio dello Stato (ramo marittimo), ma gli abitanti dei due villaggi vantano un diritto di molluschicultura loro spettante per antica consuetudine. Il Re delle Due Sicilie infatti, fin dal 1791, concesse gratuitamente il diritto privato di pesca al barone Giuseppe Gregorio, il quale si obbligò di tenere limpida l’acqua dei laghi, ripulendola delle erbe che la rendevano limacciosa. In seguito a tale concessione, nel 1800 il barone chiese e ottenne il permesso di costruire un canale di comunicazione del lago di Ganzirri col mare, per aumentare il prodotto della pesca e migliorare le condizioni igieniche dei laghi.

Il canale, completato nel 1807, venne chiamato dai locali col nome di “Catuso”. La concessione gratuita fu trasformata più tardi (1807) in enfiteusi, sempre a favore del barone Gregorio, con un canone annuo di tre onze; il barone assunse gli obblighi di continuare le opere relative al canale, di purgare a proprie spese il lago grande, di non pescare nei modi proibiti dalla Deputazione della Salute, di immettere nei laghi nuovi semi per l’aumento delle pescagioni, impiegando per tutte queste opere gli abitanti dei due villaggi, ai quali veniva accordata la terza parte di tutto il pescato.

Essendo venuto meno l’enfiteuta ad alcuni degli obblighi assunti, il Regio Erario, con atti che vanno dal 1826 al 1839, intentò causa agli eredi Gregorio per farli decadere dall’enfiteusi. Ma prima che fossero eseguite le perizie sullo stato dei luoghi, gli eredi provvidero a pulire e risanare i laghi e i canali, tanto che il Tribunale, con sentenza definitiva pubblicata nel 1839, rigettò le richieste del Regio Erario confermando l’enfiteusi. Certamente, nel periodo che va dal 1807 al 1839 furono costruiti gli altri canali di comunicazione, quello tra i due laghi (1810) e gli altri di comunicazione con il mare. Nel 1839 gli eredi Gregorio sbarrarono il canale di comunicazione fra i due laghi con un reticolato di ferro a piccole maglie, iniziativa questa nociva alla salute pubblica in quanto venivano con ciò trattenute le alghe e le erbe galleggianti che imputridivano, e impedivano al contempo il transito di imbarcazioni da un lago all’altro.

Lago grande, 1929

Lago Ganzirri, 1929

Per tali motivi, su protesta del popolo, la grata fu eliminata con ordinanza dell’Intendente in data 19 settembre 1840. I rapporti tra enfiteuta e locali divennero peraltro sempre più tesi e raggiunsero il culmine allorché l’enfiteuta pretese che i cocciolari togliessero le proprie barche dal lago e non coltivassero più le cocciole; benché le autorità avessero emesso alcune ordinanze con le quali si riconosceva e si rafforzava il diritto dei pescatori, il concessionario, citati in giudizio alcuni di questi ultimi, ebbe sentenza favorevole (dicembre 1843). Le autorità cittadine, interessate ai reclami dei pescatori, minacciarono di elevare conflitto amministrativo per incompetenza al Tribunale. Tale questione rimase insoluta fino al 1850, allorquando gli eredi Gregorio richiamarono il giudizio contro alcuni miseri pescatori, escludendone altri dalla citazione poiché questi ultimi potevano pagare loro una tangente di 24 tarì e venivano quindi autorizzati a mantenere le proprie barche nei laghi. Il Tribunale, ritenendo la propria competenza nel dibattito, condannò sedici pescatori a sgomberare i laghi. I pescatori condannati fecero però ricorso alla Gran Corte Civile di Palermo la quale, con sentenza del 19 agosto 1853 decretò «… che trattandosi di gente povera, la quale merita tutta l’agevolazione e la commiserazione del R. Governo, possa loro concedersi la franchigia delle spese giudiziarie e raccomanda al Regio Procuratore Generale, presso la Gran Corte Civile, che nei termini di giustizia sostenga i diritti di siffatta povera gente».

Le liti e le controversie proseguirono per oltre un trentennio, fin quando, per il mancato pagamento della quota fondiaria da parte degli eredi Gregorio e su istanza della vedova del debitore Antonio Gregorio, il Tribunale con sentenza del 28 novembre 1878 autorizzò la vendita dei laghi ai pubblici incanti al prezzo peritale di £ 54.275,90 lorde del tributo fondiario; risultò aggiudicatario della vendita il Sig. Luigi Pirandello che rimase possessore del diritto di pesca. Le controversie sulla reale proprietà degli appezzamenti e sulla natura giuridica dei luoghi (demanio pubblico, la cui titolarità è stata avanzata alla fine degli anni ’20, ovvero patrimoniale) sono proseguite lungo l’intero XX secolo e fino ai giorni nostri, costituendo di fatto un nodo inestricabile.

Attualmente entrambi i laghi sono divisi in circa novecento appezzamenti e su di essi vantano diritti circa duecento proprietari. Gli appezzamenti, regolarmente catastali, sono stati nel corso degli anni acquistati, venduti, ereditati etc., a onta delle rivendicazioni di demanialità avanzate dalla Capitaneria di Porto, alla quale comunque venne notificato il provvedimento di tutela. L’unico dato concreto e sociologicamente significativo che emerge dall’intera questione pare essere la realtà di un’attività produttiva plurisecolare che ha costituito il principale mezzo di sostentamento per svariate generazioni di locali, i quali, prescindendo dalla normativa giuridica mai rivelatasi univoca e trasparente nella definizione delle annose controversie, appaiono gli unici legittimi depositari delle sorti dei due laghi, avendo in un certo senso fatto sempre organicamente parte dell’ecosistema che nei laghi si rappresenta.

Lago Grande, 1929

Lago Ganzirri, 1930

L’attività lavorativa e produttiva tradizionale denominata mitilicultura, che ha sempre visto nei locali i suoi storici portatori, si presenta dunque come prezioso elemento di cultura tradizionale del territorio posto a nord di Messina, in prossimità dello Stretto, in quanto attorno a tale attività si son venuti stratificando, nel corso delle generazioni, usi e costumi, consuetudini e rituali, tecniche ergologiche e abilità manuali, tutto quanto insomma in un’accezione antropologica viene definito “cultura”. L’attività tradizionale della coltivazione di mitili venne pertanto ritenuta con il provvedimento (nella storia dei Beni Culturali in Sicilia, primo provvedimento di tutela etno-antropologica esercitata su un’area e non su manufatti) un bene etno-antropologico (ancorché volatile) di rilevante pregnanza, in quanto documento prezioso di contesti socio-economici e lavorativi che hanno per lungo tempo segnato la cultura tradizionale locale.

Il termine generico di molluschicultura indica le due distinte attività della mitilicultura (la coltivazione del Gallo provincialis, volgarmente chiamato cozza) e la tellinicultura (la coltivazione delle telline o vongole, chiamate dai locali cocciole, delle quali esistono nei laghi quattro specie principali: la Tapes decussatus, o còcciola masculina o ad occhi o vongola verace, la Cardium edule o còcciola rizza, la Tapes laetus o còcciola fimminedda e la Lucina lactea o còcciola padella). Del tutto scomparsa è invece la coltivazione delle ostriche (Ostrea edulis) fiorente fino alla fine dell’Ottocento.

Dall’indagine allora condotta sul campo è emerso che nella cultura locale dei molluschicultori si riteneva che delle due attività la prima ad apparire in ordine cronologico fosse stata quella il cui esercizio richiedeva un minore intervento della mano umana; è in effetti plausibile che i primi molluschicultori siano stati i cocciolari, la cui attività veniva così descritta da uno zoologo ottocentesco: 

«La coltivazione delle cocciole si fa (…) nello stagno di Ganzirri, ma anche in quello del Faro, ed è molto semplice. Si cercano (nel Pantano grande e nel piccolo) le piccole cocciole che madre Natura fa liberamente nascere nel fondo; ciò si fa col raschiare il fondo stesso (stando nella barca o sui bassi fondi) per una grossezza di 5 o 10 centimetri con un sacco di fitta rete, detto coppo, il quale è apposto ad un telaio di ferro armato di denti nel lato che serve a raschiare, ed è, mercé il telaio, innestato ad angolo retto in cima ad una pertica lunga circa 4 metri; catturate le piccole cocciole, separatele dai vari detriti incongrui e del fango, e messane insieme una certa quantità, vengono da ognuno dei cocciolari seminate in una data area, o propria o presasi dal fondo comune, che viene delimitata con un fragile recinto di cannuzze impiantate nella sabbia; là i piccoli bivalvi vengono lasciati crescere e tutta la fatica del coltivatore consiste nel tenere pulito il fondo della sua area, e talvolta, come dicono, nel migliorarlo, aggiungendo sabbia presa da terra e, contro il volere dei proprietari e degli appaltatori d’acqua, sostituendo bassi fondi e montagnole. Una volta le cocciole arrivate al voluto grado di accrescimento vengono vendute». 

Dalla distaccata seppur vivace descrizione del cronista ottocentesco non traspare certo ciò che era dato riscontrare a chi si fosse accostato al mondo dei cocciolari: un legame quasi organico con i laghi e con gli organismi viventi che li abitano, nonché la tenace convinzione di aiutare quasi, attraverso la propria attività, la natura a giungere a compimento. Tale atteggiamento risulta palesemente nelle interviste fatte ad alcuni informatori all’epoca del provvedimento di tutela, dalle quali emergeva come tutto il ciclo di coltivazione dei mitili, da quando essi nascono nei bassi fondali “per emissione di semenza” a quando vengono raccolti, selezionati, ripuliti dai parassiti, riportati in acque più profonde, e quindi di nuovo spostati, protetti dal caldo eccessivo così come dall’eccessivo freddo: l’intero ciclo insomma, della durata di circa due anni per la completa maturazione di alcune specie, nonché presentarsi come mera somma di procedimenti miranti alla raccolta di un bene disponibile in natura, si configurasse piuttosto come operazione culturalmente orientata, con i propri riti e le proprie simbologie, in un continuo rapporto dialettico con l’ambiente, che si giungeva a “dominare” solo attraverso continui atti di obbedienza. Per valutare tale carattere del ciclo attraverso i tempi lunghi delle sedimentazioni culturali, si consideri ad esempio che la costruzione di una montagnola arrivava a richiedere l’impegno lavorativo di due generazioni. Nell’immaginario dei molluschicultori il lago assumeva, in tale contesto, le medesime valenze che la terra possiede per i contadini.

Lago Grande, anni 60

Lago Ganzirri, anni 60

L’attività della mitilicultura è forse la più caratterizzante, nonostante la crisi attuale, l’economia del territorio nonché quella maggiormente incardinata nella rappresentazione “pittoresca” che dei laghi si è sempre storicamente offerta. Essa necessita di una descrizione accurata, qui resa attraverso le annotazioni fatte nel corso dell’indagine. Le prime cozze nacquero spontaneamente sui pali di castagno che venivano conficcati sui fondali del lago grande per delimitare, entro la sua superficie, le zone di pesca e i singoli appezzamenti. Una volta empiricamente appreso il ciclo di crescita di questi frutti di mare che, a differenza delle vongole, possono esser mangiati crudi, si giunse a predisporre i collettori artificiali.

Il ciclo, della durata di quasi due anni, inizia in ottobre, allorquando nelle cozze adulte compaiono due o più striature in corrispondenza della parte centrale della valva. I molluschicultori sanno allora che la cozza “sta mollando”, espelle cioè i prodotti sessuali necessari alla sua riproduzione. «La cozza è come la donna, essi dicono, che ha rotto le acque ed è pronta a partorire». Tale “espulsione di lattime” avviene negli ultimi giorni di ottobre o nei primi giorni di novembre, nel periodo che essi chiamano “la prima luna dei morti”.

Intanto, nel lago piccolo, si è provveduto a stendere orizzontalmente nelle acque, a pochi centimetri dalla loro superficie, delle corde vegetali dette libàni, lunghe dai 25 ai 30 metri e legate ciascuna all’estremità superiore di cinque o sei pali verticalmente conficcati sul fondo e posti alla distanza di circa cinque metri l’uno dall’altro. Tali libàni, per lo più paralleli e distanti tra loro quasi un metro, servono per l’attacco di piccoli fasci formati da radici di canne, o di pezzi di sughero tenuti insieme da frammenti di rete, o di altro analogo prodotto di bricolage naturale. I fascetti vengono inseriti tra i capi stessi della corda, a una distanza di circa 30 centimetri l’uno dall’altro e quivi, quasi a pelo d’acqua, essi fungono da collettori, in cui va ad attaccarsi il “lattime” fecondato. Si predispone insomma una sorta di utero naturale in cui la larva di cozza possa impiantarsi e crescere nei suoi primi giorni di vita.

Il piccolo mitilo comincia a scorgersi a occhio nudo dopo circa due mesi, in gennaio. L’avviso viene dato dai cefali che salgono a galla per succhiare il “lattime” di cui essi sono golosi. La vista di branchi di cefali vicini alle corde è interpretata come segno che “nascéru i cozzi”. Queste si presentano come puntini che da bianchi si fanno via via turchini e poi violacei, blu, neri; in aprile hanno già le dimensioni di una grossa lenticchia. Vengono allora trasportate dal lago piccolo, più profondo e freddo, a quello grande, dalla temperatura più mite. Si tolgono dunque dal “Pantanello” le corde con i fascetti e, all’aperto sulla riva, si liberano dalle cannucce e dalle corde stesse i piccoli mitili che, in gran parte, rimangono aderenti tra loro, per il bisso secreto, in piccoli gruppi. Si ripuliscono quindi dai corpi estranei organici e inorganici che vi insistono sopra (soprattutto dai “denti di cane”, i cosiddetti balàni, parassiti della cozza) e vengono posti su di un setaccio galleggiante, ’u tilàru e collocati a pochi centimetri sotto il pelo dell’acqua. Nel tilàru le cozze si attaccano l’una all’altra finendo col costituire una sorta di pasta compatta. Tale impasto viene quindi diviso in tocchetti che si inseriscono in una pruvulara, rete cubiforme vegetale o di nylon, con un procedimento simile a quello adottato per il riempimento dei budelli di salsiccia. I bastoni cubiformi così ottenuti, costituiti da ammassi di piccole cozze, vengono appesi nel vivaio naturale del lago, nei libàni stesi tra un palo e l’altro.

Lago Grande, anni 70

Lago Ganzirri, anni 70

Dopo circa venti giorni le cozze si proiettano all’esterno, finendo col coprire la pruvulara che rimane all’interno, a mò di corona circolare. Esse hanno ormai assunto il noto aspetto grappoliforme, quello dei cosiddetti stralli. Nel mese di giugno gli stralli vengono ricondotti nel lago piccolo, più profondo e fresco e pertanto in grado di fornire maggiore ossigeno, perché essi vengano tenuti lontani dall’attacco dei balàni. Qui devono trascorrere l’intera estate. In settembre gli stralli vengono “ristrallati”, vengono cioè “spennati” e si procede alla raccolta delle “mezze cozze”, giunte a un certo grado di maturazione, risistemando le più piccole sull’intelaiatura. I nuovi stralli vengono quindi riportati al “Pantanello”, dove trascorreranno l’inverno a basse profondità.

In aprile o maggio le cozze hanno ormai un anno e mezzo di vita e sono quasi giunte alla fine del loro ciclo di crescita. Vengono pertanto ricondotte per l’ultima volta al Pantano grande per acquistare polpa e grossezza. In giugno esse saranno pronte per la vendita. Alcuni stralli di cozze vengono lasciati sospesi nel lago del Faro, dove giungono a maturazione più tardi e vengono quindi messi in commercio in autunno. Le cozze non hanno la polpa di quelle trasportate in primavera al Lago grande, ma sono in compenso rimaste più protette dai rischi di morìa determinati dall’affiorare di idrogeno solforoso, fenomeno cui spesso il lago di Ganzirri va soggetto. In settembre esse vengono salite dal fondo e poste a circa tre metri sotto la superficie, dove raggiungono un notevole grado di sviluppo.

Fino agli anni ’60-’70 l’attività della molluschicultura dava da vivere a parecchie decine di famiglie che a essa si dedicavano a tempo pieno; per alcune centinaia di persone la molluschicultura aveva dunque costituito attività economica primaria. Le annate buone, dato che i cicli biennali si accavallavano consentendo una produzione annua, rendevano fino a mille kg. di vongole per montagnola e ottanta cantari di cozze per “quadrato” o appezzamento. È facile misurare la distanza che ci divide dal periodo aureo della molluschicultura: i mitili oggi raggiungono dimensioni commerciabili in un periodo di circa due anni, laddove in passato erano sufficienti 12-14 mesi, dato che essi trovavano nel lago un plancton più abbondante. L’impoverimento planctonico si spiega facilmente ove si consideri che da almeno quarant’anni i due laghi sono stati usati come bacini di incontrollato deposito di mitili importati da La Spezia, Savona, Venezia, Chioggia, Taranto per soddisfare le richieste del mercato. Questi mitili, spesso spacciati per prodotti locali, hanno finito col depauperare i laghi delle risorse planctoniche che un tempo erano a esclusivo beneficio dei mitili d.o.c.

Il Lago Grande con libani e stralli, anni 70

Il Lago Ganzirri con libani e stralli, anni 70

Questo è in effetti solo uno degli elementi di crisi della molluschicultura che tutt’oggi si pratica nei due laghi di Messina. Un pericolo ben più grave, che rischiava di cancellare completamente tale attività, con tutto il bagaglio di tecniche e di saperi tradizionali cumulatisi lungo l’arco di molte generazioni, era costituito – al tempo dell’intervento di tutela – dalla possibilità che i due laghi, peraltro riconosciuti preziosissimi biotòpi per l’enorme varietà di microrganismi e di specie animali e vegetali, alcune uniche, in essi presenti, come tali fatti oggetto di specifica tutela ambientale attraverso un’apposita Riserva Naturale Orientata (“Laguna di Capo Peloro”) e soprattutto inseriti tra le aree umide mondiali protette dalla Convenzione Internazionale di Ramsar (1971), venissero investiti da progetti in grado di determinare uno sconvolgimento della fisionomia naturale, biologica, biochimica e, per gli aspetti qui trattati, antropica del sito. In particolare, si profilava addirittura il rischio che sul Lago grande si concretizzasse un devastante progetto, elaborato quale appendice del sacco edilizio perpetrato nelle colline antistanti, mirante a trasformare l’intero specchio d’acqua in porticciolo turistico.

Da qui l’intervento tutorio del 1988, che pur non potendo condizionare le scelte di piano degli Enti a ciò competenti, ha comunque potuto assicurare la prosecuzione dell’attività lavorativa che in questi due laghi ancora oggi si esercita. Se la zona di Capo Peloro e dell’intero stretto di Messina costituisce una sorta di Genius Loci di questo angolo di mondo le cui sponde hanno visto lungo i millenni la confluenza dei popoli e delle civiltà che hanno scritto la storia del Mediterraneo, è indubbio che di tale identità i laghi di Faro e Ganzirri continuino ancora oggi a rappresentare una parte non trascurabile.

La tutela dei laghi, come mi auguro possa in futuro attuarsi sull’intera area dello stretto di Messina per impedire installazioni devastanti (il riferimento al fantomatico Ponte è volontario…), è parsa dunque l’unico modo per scongiurare la definitiva trasformazione di questa porzione di territorio in un non-luogo, anòdino e immemore della propria storia, come tale non più in grado di assicurare e garantire identità alcuna a chi da sempre lo abita e a quanti da sempre lo attraversano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022 
[*] In memoria di Nicolino Mangraviti, prezioso informatore 
Riferimenti bibliografici
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Caio Domenico Gallo, Annali della città di Messina capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua fondazione sino a tempi presentij, Messina, Tipografia dell’Operajo, 1875. Continuazione di Gaetano Oliva (1892). 
Giuseppe La Farina, Messina ed i suoi monumenti, Messina, Stamperia di G. Fiumara, 1840.
Giuseppe Aristotele Malatino, Diritti di pesca e mitilicoltura nei laghi di Ganzirri, in “Archivio Storico Messinese”, III Serie – XLIV, Volume 53° dalla fondazione, Messina, 1989: 69-235.
Francesco Maurolico, Cosmographia… in tres dialogos distincta, Venetiis, Haered. Lucantonio Giunta, 1543.
Domenico Puzzolo Sigillo, Tre opportuni chiarimenti di toponomastica messinese. 1: Etimologia e valore del nome Faro o Faro di Messina; 2: Da chi, quando e perché fu costruita la fortezza di Matagrifone ovvero Riccardo Cuor di Leone benemerito di Messina; 3: Un’opera di Pietà Francescana dimenticata: La lanterna di San Ranieri, Messina, Tip. Ditta D’Amico, 1927. 
Gaio Giulio Solino, Collectanea rerum memorabilium: iterum recensuit Th. Mommsen, Berolini, apud Weidmannos, 1895.

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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincidi Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).

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