per la cittadinanza
di Maria Rosaria Di Giacinto
Cambiare tutto per non cambiare nulla?
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in Italia, la maggioranza dei votanti si esprime in favore della Repubblica. La volontà collettiva sembra essere il superamento degli orrori della guerra, non ultima delle leggi razziali. L’Assemblea Costituente inizia i lavori per dare alla luce la nuova Costituzione democratica su cui fondare un futuro di tolleranza al di là delle appartenenze (Viola, 2000). L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica recita, infatti, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Alla base di questo principio sta il riconoscimento di eguale dignità, qualunque siano le scelte personali o le condizioni predeterminate: non un desiderio di omologazione, ma al contrario di libera espressione. Nonostante le buone intenzioni, però, all’uguaglianza formale non sempre corrispondono condizioni effettive di parità e godimento dei diritti sanciti dalla neo Repubblica, specialmente per coloro i quali non paiono possedere caratteristiche proprie dell’italianità (Patriarca, 2021).
Un ulteriore elemento di disparità è rappresentato dalle norme inerenti alla cittadinanza. Il dibattito su quali prerogative risultino essenziali per includere o escludere i soggetti all’interno della condizione di “italiana/italiano” è tuttora vivo e coinvolge circa 5 milioni di residenti nel Paese, ovvero più dell’8% dei suoi abitanti [1]. Sebbene siano passati più di settant’anni dall’abrogazione delle leggi del 1937 e del 1938, il fantasma del razzismo aleggia silente e potente in anacronistiche norme che prediligono lo ius sanguinis allo ius soli. Se si tiene in considerazione che oggi nulla o poco è cambiato dalla legge del 1912, ovvero che le successive rivisitazioni del 1992 e del 2006 lasciano immutato il privilegio della discendenza, si comprende l’arretratezza di un sistema che fatica a stare al passo coi tempi. A guardar bene, dietro queste normative sembra celarsi la paura di contaminazione razziale. Indubbiamente, le condizioni politiche, sociali e culturali di più di un secolo fa non sono quelle dell’odierno panorama nazionale e internazionale, eppure si continua a procedere secondo schemi culturali e indirizzi politici che limitano la coesione sociale. A fronte di una pluralità di elementi mutati, ovvero di una società che non è la stessa dei primi del Novecento, si riscontra una forte resistenza all’aggiornamento giuridico in materia di cittadinanza, cui corrisponde una egualmente forte resistenza all’avanzamento del pensiero. Com’è possibile?
L’idea che l’essere italiano/italiana sia una questione di sangue, che riguardi la discendenza prima di ogni altra cosa, ha precise ragioni politiche e culturali. Come spesso accade, determinati sconvolgimenti degli assetti locali e globali, ad esempio un nuovo ordinamento statale o la guerra, risultano dirompenti al punto da ipotizzare che il periodo successivo sia di netta contrapposizione al precedente. Senz’altro, l’Unità, il Fascismo e le due guerre mondiali sono fratture nella continuità della storia, ma ciò non toglie che si possano riconoscere sopravvivenze sul lungo periodo. I cambi di regime, infatti, non per forza comportano una cesura strutturale e un totale allontanamento dall’ideologia dominante precedente. Per pervenire a un pieno e sincero rinnovamento, è necessario affiancare ai propositi di miglioramento, oltre che interventi pratici, anche una profonda e critica autoanalisi.
La coerenza interna è qualcosa di cui le società possono fare a meno. La complessità del vivere collettivo richiede un’elasticità tale da non escludere la coesistenza di elementi contrastanti, apparentemente incompatibili. L’inevitabile scarto tra la norma e la sua applicazione, inoltre, secondano questa elasticità, tanto che godere o meno formalmente di un diritto non significa necessariamente poterne usufruire nella pratica. Il diritto di cittadinanza e la pari dignità degli abitanti, dunque, non sono un mero esercizio teorico e formale finalizzato al raggiungimento di una perfetta – quanto effimera – congruenza. Il punto, piuttosto, tocca – e concretamente – la quotidianità e la qualità della vita di milioni di persone.
I corpi del corpo della Nazione
Che tipologia di corpi appartiene alla nazione? Per rispondere a questa domanda, è utile indagare quali rappresentazioni sociali facciano di un gruppo una nazione e specularmente quali connotazioni singolari assicurino all’individuo l’appartenenza al concetto più ampio di nazione.
Il riconoscimento della cittadinanza è intimamente e incestuosamente legato all’idea di nazione e, di conseguenza, alle circostanze e ai meccanismi in cui questa idea performativamente plasma e identifica la nazione. Si tratta di una questione prima di tutto biopolitica che raggiunge, tanto astrattamente quanto concretamente, il simbolismo del corpo femminile, del colore della pelle, le pratiche coloniali e neocoloniali.
Sebbene oggi si dia per scontato che esista lo Stato, quale detentore dell’ordine costituito, la sua formazione è piuttosto recente e ha come fulcro la possibilità dei suoi componenti di immaginarsi affini e, dunque, di costruirsi tali (Anderson, 2018). Nel caso italiano, l’Unità avviene nella seconda metà dell’Ottocento, un periodo caratterizzato dalle correnti romantiche e dai primi nazionalismi che predicano una perfetta corrispondenza tra lingua, cultura, popolo e territorio. Lo sforzo perlopiù intellettuale di formazione dell’Italia unita trae linfa dalla tradizione, dall’idea di una storia e delle radici comuni, a discapito delle evidenti diversità. Così come accade in altre parti del mondo, si fa perno su una presunta italianità, un concetto che da allora risulta essere duro a morire. Spiega bene Silvana Patriarca ne Il colore della Repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista (Einaudi 2021):
«Ancora oggi è presente in Italia una concezione dell’italianità che non viene in genere discussa pubblicamente, e cioè l’idea che gli italiani sono europei e bianchi. Benché la popolazione che abita la penisola sia il risultato di costanti mescolamenti etnici realizzatisi nel corso dei secoli e che continuano tuttora, il popolo italiano è stato storicamente costruito come bianco, anche se di una bianchezza un po’ meno bianca di quella che viene considerata la norma europea».
Sulla base del falso mito degli “italiani brava gente”, il razzismo è un tema ancora sostanzialmente poco dibattuto nel Paese, ragione per cui persiste insinuandosi tra le istituzioni e la società civile. Secondo la memoria collettiva, ad esempio, nelle colonie d’Africa a cavallo tra Ottocento e Novecento, gli italiani si muovono con minore pregiudizio e maggiore umanità rispetto alle altre potenze europee (D’Agostino, 2008). Contrariamente a questa prospettiva pacificata, ponendo attenzione al contesto storico delle scelte legislative in materia di cittadinanza, si evince quanto esse si lascino influenzare dalla paura di mischiarsi con individui dalla pelle scura. Nel 1912, in pieno periodo coloniale e di emigrazione verso le Americhe, si cerca contemporaneamente di inibire le unioni tra individui di colore diverso e mantenere i rapporti con gli italiani emigrati. Nel 1937, si proibisce esplicitamente e definitivamente la mescolanza interrazziale nelle colonie di Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia e l’anno successivo vengono promulgate le leggi fasciste contro gli ebrei. Nel 1947, la Costituzione italiana prende le distanze dal passato, ma mantiene immutato lo ius sanguinis: in quella significativa occasione, «il rifiuto del razzismo non comportò il rifiuto delle idee di razza» (Patriarca, 2021). In continuità, sta la conferma della preminenza del sangue sia nelle norme del 1992 che in quelle del 2006, anni caratterizzati dalla preoccupazione per i flussi migratori di stranieri in Italia. Paradossalmente, mentre figlie e figli di non italiani nati e cresciuti in Italia devono aspettare il diciottesimo anno di età per richiedere la cittadinanza – non automaticamente concessa – i discendenti di italiani emigrati oltreoceano che non sono mai stati in Italia possono ottenerla più facilmente.
La nazione legittimando i suoi membri attraverso il sangue ne fa delle membra. In questa prospettiva biopolitica, i dati biometrici hanno la capacità simbolica di rendere la nazione pura e viva. Il corpo della nazione è il corpo dei cittadini e viceversa.
Monocolore del tricolore
Le rappresentazioni dei corpi hanno delle ripercussioni forti sulla loro esistenza. Nonostante l’infondatezza della razza dal punto di vista biologico – le differenze genetiche tra i singoli individui superano e annullano quelle tra le presunte razze – la razza esiste socialmente nella misura in cui è performativamente fabbricata tramite l’immaginario collettivo. In altre parole, che vi siano o meno riscontri sulle differenze di etnia, credere che esistano le rende concrete a discapito dell’esistenza pratica di tante persone: la razza detiene, dunque, un significativo ruolo socio-biologico.
Il libro di Silvana Patriarca fornisce esempi tangibili della persistenza del razzismo nel secondo dopoguerra, facendo luce sulle condizioni dei meticci in Italia, bambine e bambini che non dispongono della bianchezza necessaria a far parte del corpo della nazione. Le storie dei nati da unioni miste, aiutano a capire quale sia l’autorappresentazione che la società ritiene più consona. Le esperienze coloniali e belliche mettono in contatto popoli differenti tra loro: in Africa, i soldati italiani iniziano relazioni amorose con le donne locali (D’Agostino, 2008) e lo stesso avviene tra i soldati statunitensi e le italiane durante l’occupazione degli alleati (Patriarca, 2021). Già nei semplici termini ascritti ai frutti di queste unioni si riconosce lo stigma sociale a cui sono sottoposti. Plurime e univoche nominazioni quali “mulattini”, “marocchini” “neretti”, “negretti”, “cioccolatini” “pezzi di carbone”, “Alí Babà”, “figli della guerra”, “figli della vergogna”, “figli del nemico” posseggono un’accezione esplicitamente negativa, profondamente depotenziante e drammaticamente stigmatizzante.
L’illegittimità è motivo di vergogna: la pelle scura sembra essere un’ulteriore aggravante, la prova inconfutabile di una colpa, di un indelebile peccato originale. Le condizioni in cui termina la Seconda Guerra Mondiale, inoltre, fanno degli Stati Uniti un nemico e un alleato al tempo stesso. Il tradimento, dunque, pare essere perpetuato non soltanto nei confronti dei mariti-soldati, ma dell’intera madre patria. In un’ottica nazionalista, infatti, il corpo della donna rappresenta simbolicamente il corpo della nazione e una sua presunta contaminazione rende ancora più bruciante il disonore della sconfitta: «la presenza dei bambini» è in grado di «far percepire la sconfitta militare come un’umiliazione nazional-sessuale».
Nell’Italia postfascista, il trattamento riservato ai meticci e alle loro madri è fortemente influenzato dalla percezione dei loro corpi. Nonostante le dichiarazioni formali di una società che dice se stessa egalitaria, gli scambi di potere ineguale persistono sul lungo periodo. La birazzialità ha un’azione disgregante verso le tautologie nazionaliste che postulano e predicano perfetta corrispondenza tra razza, territorio e nazione. L’impossibilità di una definizione suona come una minaccia al controllo, cosicché la presenza dei meticci sul suolo nazionale viene frequentemente affiancata al termine “problema”. Tra le soluzioni più auspicate sta l’espatrio dei bambini e delle bambine verso i Paesi di origine del genitore straniero, quasi tendessero per natura a un contesto culturale altro, sebbene mai conosciuto. A discapito delle circostanze spazio-temporali che li contraddistinguono, la loro felicità è da ricercarsi lontano, altrove. Nel caso delle colonie africane, l’imbarazzo è facilmente superabile: oltre che attraverso le leggi che razzializzano degli spazi, la marginalizzazione si ottiene ostacolando la concessione della cittadinanza e l’eventuale arrivo in terra italiana (D’Agostino, 2008). L’indesiderabilità di questi incroci è meno sentita rispetto a quella tra italiane e stranieri: in questo ultimo caso, si conferma che il tipo di simbolismo ascritto al corpo delle donne rimanda al corpo della madre patria.
Per sfuggire al giudizio collettivo legato allo stigma della “nerezza”, molte donne italiane sono state costrette ad abbandonare figlie e figli negli orfanotrofi. La mancata naturalizzazione delle identità di questi bambini e bambine ne fa dei veri e propri “indesiderabili”. Per quanto nati in Italia, l’appartenenza dei meticci alla comunità pare dubbia, motivo per cui si ricorre a stereotipi essenzializzanti per descriverli e giustificarne la segregazione. Ne è testimone la produzione di film, articoli, inchieste e studi sui meticci, intrisa di un pregiudizio razziale, che spazia dall’ingenuo paternalismo, all’esplicita condanna. Quasi fossero un tutt’uno uniforme, queste vite vengono tratteggiate secondo una narrazione che va dal mito del buon selvaggio al criminale incallito: «inferiori tanto sul piano fisiologico come su quello psicologico», precisa Silvana Patriarca. Si rafforza l’idea che la non appartenenza a un unico universo culturale sia necessariamente sinonimo di instabilità psicologica e degenerazione fisica.
Più per desiderio di controllo che per pietà, alcuni orfani e orfane vengono destinati a istituti dove sono sottoposti a studi pseudoscientifici disumanizzanti. In continuità coi metodi fascisti, sui meticci vengono praticate indagini biometriche. Tali misurazioni di poco o nulla si distaccano dal determinismo genetico ottocentesco di Samuel Morton che introietta nella singolarità del corpo la generalità sommaria della propria postura razzista. In questo universo di pensiero, gli anni ’50 sembrano rivivere la logica inconscia del colonizzatore, che mosso da pietas, dispiega la propria azione civilizzatrice sul colonizzato. In tal senso, neanche le iniziative in buonafede riescono a mettere a fuoco la presenza del substrato razzista nella società italiana e ad affrontare la questione al di fuori dei luoghi comuni. Col passare dei decenni, la Guerra Fredda delinea e stabilizza tanto gli assetti nazionali che internazionali e mentre le forze di destra guardano ai meticci come a un problema di ordine sociale, quelle di sinistra vi riconoscono un razzismo a stelle e strisce del tutto estraneo al contesto tricolore.
Che dietro alla definizione di meticci – come dietro a qualsiasi altra definizione – stiano delle persone in carne e ossa è un concetto tanto banale, quanto poco presente nella retorica sul tema. È parimenti sensato supporre, però, che esperienze comuni ad individui differenti possano generare tra di essi delle analogie culturali che attraversano le generazioni (Gilroy, 2003). Nel caso italiano a differenza di quelli degli altri Paesi, una volta adulti, i nati da relazioni miste, non maturano questa consapevolezza e non si organizzano in virtù delle loro affinità. I tentativi di inversione delle credenze collettive sul colore della pelle vedono come protagonisti singole persone e non seguono movimenti di emancipazione e lotta politica. Sembra quasi che lo scandalo della nerezza abbia perlopiù generato nei protagonisti e nelle protagoniste desiderio di rimozione e silenzio. I meticci vengono presentati come stranieri, sebbene poco o nulla sappiano della cultura da cui ereditano tale definizione, eppure faticano ad opporre una contronarrazione. Il sentire personale si trova invischiato entro un contesto culturale che non lo riconosce, generando una dissonanza tra l’autoidentificazione e la (non)identificazione collettiva.
Per tentare di sciogliere questa aporia del passato che permane nel presente è necessario un cambio di punto di vista. Partendo dal presupposto che ogni singolarità non rappresenti genericamente un’intera cultura, bisogna compiere uno sforzo decostruttivo tale da svelare la precarietà delle classificazioni. Il concetto stesso di identità è un costrutto sociale reificante che cerca di cristallizzare ciò che, invece, è in continuo mutamento. Liberi dal falso mito della coerenza delle e della identità, è possibile approdare a nuove prospettive secondo cui la casa di ciascuno è lì dove questi si trova (Scego, 2010).
Dice che era un bell’uomo e veniva dal mare
Il libro di Patriarca può considerarsi un interessante spunto di riflessione da cui muovere per dibattere sull’emancipazione razziale. Restituendo alla contemporaneità storie sepolte nel passato rimosso, offre l’occasione di una nuova consapevolezza politica. Oltre a fornire una descrizione accurata del ruolo sociale destinato ai meticci nel secondo dopoguerra, chiarisce la condizione delle loro madri, donne che nell’esperienza della guerra trovano condanna sociale ma anche spazi di azione e protagonismo individuale.
Dallo sguardo generico e generale verso le donne che durante la guerra intessono relazioni con gli stranieri – soprattutto se dalla pelle scura – affiora il potente legame tra genere e politica (Scott, 2013). Esiste una sorta di nesso indissolubile tra la rappresentazione dei costumi sessuali femminili e quella dell’igiene morale della collettività, come se dalle relazioni erotiche delle donne dipendesse la rettitudine dell’intera nazione. In questa logica, dalla supposta corruzione sessuale del corpo femminile si deduce una altrettanto grave corruzione politica. Una rovinosa e immaginaria simmetria. La donna ideale del mito patriottico è candida e indifesa; instabile psicologicamente e debole fisicamente. L’unica dimensione in cui le è concesso operare è quella che la vede limitata nel movimento. La posizione legittima è di madre, moglie ed educatrice a guida dei futuri cittadini-soldati. La certezza della sua virtù è la certezza della paternità, la certezza dell’intero ordine sociale: la sua fedeltà assicura alla nazione continuità biologica tra avi e discendenti, sigillando un solido legame tra politica e affetti (Banti, 2011). Il corpo della donna è oggetto di torsione strumentale al dovere patriottico e, dunque, soggetto a severo disciplinamento: da qui compito del capofamiglia è quello di controllarne la condotta sessuale. Il Fascismo esacerba questi tratti nazionalistici, collocando la maternità su un piedistallo simbolico, al prezzo della rinuncia alla soggettività (Pescarolo, 2011).
La società italiana del secondo dopoguerra, profondamente cattolica e non ancora defascistizzata (come ancora per molti aspetti continua ad essere), non si emancipa da tali rappresentazioni, cosicché le unioni al di fuori del matrimonio tra italiane e soldati suscitano scandalo tra i più. L’ipotesi più accreditate sulle motivazioni delle relazioni richiamano alla prostituzione, allo stupro e alla deviazione sessuale, come ha documentato Silvana Patriarca. L‘idea che si possa trattare di rapporti amorosi consenzienti metterebbe in crisi la mascolinità patriottica. Queste immagini risultano altamente piatte e polarizzanti per tutti i componenti della società, qualsiasi genere cui appartengano. Destinando alle donne il ruolo di mogli traditrici, vittime o prostitute e agli uomini di mariti traditi, protettori o violentatori si recidono le mille sfaccettature che animano l’esistenza umana, dando vita a profonde ingiustizie ed ineguaglianze di potere.
Lo stereotipo della donna passivamente vittima o attivamente ammaliante, dell’uomo passivamente disonorato o attivamente impavido riproducono, sul piano del genere, la logica dei dominatori-dominanti, la stessa utilizzata sul piano etnico. Su questo terreno, dominano le immagini orientalizzanti dell’altro, del diverso per definizione. Non a caso, la stampa italiana descrive i luoghi degli incontri amorosi come spazi esotici oscuri, pericolosi e disordinati. Tra questi il Tombolo, tra Pisa e Livorno, una foresta, definita dai quotidiani un letamaio privo di vergogna, crogiuolo di signorine brutte, frivole, spudorate e immorali. Le donne che frequentano l’estraneo – immaginato o concreto – sono, dunque, delle vere e proprie straniere in patria: costoro si discostano irrimediabilmente dai dettami della moralità tricolore.
Paradossalmente, però, in questo tipo di immaginario collettivo sono racchiusi quegli elementi interni alla società che si faticano ad accettare e che, in senso rassicurante, si preferiscono idealmente collocare al di fuori di essa. Si tratta di una geografia della sessualità, di un esotismo sessualizzato, di un altrove eccitante e spaventoso più volte ripetuti nelle retoriche coloniali, al fine di mantenere inalterate le asimmetrie di potere (Antosa, 2012).
Il fatto che il problema del razzismo oggi sia poco presente, quando non implicitamente ignorato, nei dibattiti pubblici sul diritto alla cittadinanza e l’uguaglianza di genere può essere una lama a doppio taglio. L’assenza di riferimenti espliciti ha permesso alle ingiustizie di sopravvivere, perpetuandosi nel buio di quei luoghi meno visibili, ma non per questo inesistenti. Specularmente, però, ragionare per opposti può rafforzare l’idea che esistano differenze incolmabili. In questo senso, i paradigmi di etnia o di genere sono utili fintantoché usati per svelare l’iniquità dietro la falsa ingenuità. Il libro di Silvana Patriarca, indagando il sentire collettivo tramite le rappresentazioni cinematografiche, la stampa e le dichiarazioni ufficiali delle istituzioni assolve bene a questo compito.
Contestualmente, per elaborare una riflessione più profonda sulle credenze e sui costumi, è ragionevole dare spazio alle voci singolari dietro le macrocategorie. Le storie di vita vissuta forniscono elementi essenziali al superamento della logica oppositiva. Se si comprende che ogni grande classificazione cela un’esistenza individuale, si possono sorpassare non soltanto le opposizioni bianco-nero, donna-uomo, colonizzatore-colonizzato, ma anche dominatore-dominato, vittima-carnefice. Immaginare singolarità e collettività al di fuori dei meccanismi oppositivi traccia la via per costruire una società più equa: un’uguaglianza di diritti che non mortifichi la diversità in ragione dell’omologazione né confonda diversità con diseguaglianza ma percepisca finalmente le differenze come ricchezza piuttosto che come minaccia.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] https://www.istat.it consultato il 14.12.2021.
Riferimenti bibliografici
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Antosa S. (2012), (Omo)erotismo e contagio orientalista nella traduzione di The Book of o Thousand Nights and a Night (1885-1886) di Richard Francis Burton, in de Spuches (a cura di), “La citta cosmopolita. Altre narrazioni”, Palumbo, Palermo
Banti A. M. (2011), Discorso nazional-patriottico e ruoli di genere (Europa, secc. XVIII-XIX), in Calvi G. (a cura di), “Donne e genere nella storia sociale”, Viella, Roma
D’Agostino G. (2008), Atre storie. Memorie dell’Italia in Eritrea, officine tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria
Dalla L. (1971), 4 marzo 1943, in “Storie di casa mia”, RCA italiana (#RCA PSL 10506), Formentini
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Tomasi di Lampedusa G. (1969), Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano
Viola P. (2000), Storia moderna e contemporanea. IV. Il Novecento, Einaudi, Torino
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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata nel 2020 in Studi Storici, Antropologici e Geografici presso l’Università degli Studi di Palermo. Nel 2019 ha partecipato come relatrice al convegno Dai Vespri Siciliani a Strade Sicure e ne ha curato gli atti per la pubblicazione comprensiva del suo contributo: Ricerca sul campo e cambiamenti di prospettiva. Nel 2017 ha partecipato al convegno internazionale Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto, da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è autrice del saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Ha, inoltre, svolto le funzioni di ricercatrice e curatrice presso il Museo Eoliano dell’Emigrazione di Salina e preso parte a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti finanziati dall’Unione Europea.
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