di Francesco Virga
Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare (Leonardo Sciascia, Nero su nero, Einaudi 1979:175-6).
Con un titolo simile, qualche mese fa, sono stati pubblicati gli Atti del Convegno svoltosi nel novembre del 2019, nella sede del Centro Studi P. P. Pasolini di Casarsa della Delizia, dedicato all’analisi dei rapporti tra il poeta corsaro e Leonardo Sciascia [1] . Nel riservarmi di fare una puntuale recensione di questo libro, che raccoglie contributi di diverso valore, in un’altra occasione, oggi voglio dire la mia sulla controversa questione riprendendo un discorso avviato sommariamente dieci anni fa in un articolo pubblicato sulla rivista dell’Università di Barcelona, Quaderns d’Italià [2]
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Leonardo Sciascia (1921-1989) sono stati due tra i maggiori scrittori italiani del 900 che hanno apertamente rotto la tradizione curiale e cortigiana della storia letteraria nazionale. Si addice ad entrambi la celebre espressione paolina, tanto cara a Pasolini, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili» [3]. Entrambi, ben conoscendo la potenza delle parole, le hanno saputo usare per denunciare menzogne e imposture nella loro indefessa ricerca della verità e dell’intelligenza delle cose. Pasolini avrebbe sicuramente sottoscritto quanto un giorno, dopo la sua scomparsa, scrisse Leonardo Sciascia:
«L’eresia è di per sé una grande cosa e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare sempre di essere eretici, se no è finita. È stato anche il Partito Comunista dell’URSS ad avere avuto paura dell’eresia e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere eretico» [4]
«Esercitare […] un esame critico dei fatti» [5], per dirla con Pasolini, è stato sempre un loro comune impegno, essendo per loro questo il primo dovere di ogni autentico intellettuale. I due autori, malgrado il loro diverso stile di vita e di scrittura, si sono ritrovati, quasi sempre, sulla stessa lunghezza d’onda ed hanno più volte collaborato nei loro impegni letterari e civili.
I due scrittori, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, hanno avuto una fitta corrispondenza tra loro, hanno seguito con reciproca simpatia i loro primi lavori e collaborato alla messa a punto di tanti loro progetti. Anche se il loro rapporto si è indebolito successivamente, su fronti diversi, hanno combattuto entrambi contro ogni forma di ipocrisia e di prepotenza. Sono stati sempre ostili ad ogni potere costituito e insofferenti verso ogni forma di inquisizione. Hanno amato entrambi contraddire e contraddirsi al punto che molti critici hanno individuato proprio nella contraddizione uno dei loro tratti distintivi. [6]
Storia di un’amicizia
È’ stato soprattutto il loro comune interesse ed amore per la cultura popolare e i dialetti, che durerà fino all’ultimo dei loro giorni, a farli incontrare nei primi anni 50 del secolo scorso. È stato Mario dell’Arco a propiziare l’incontro tra Pasolini e Sciascia, essendo amico e collaboratore di entrambi [7]. Pasolini e Sciascia si sono subito riconosciuti e stimati. Infatti è proprio Pasolini a recensire il primo libretto dello scrittore siciliano, Favole della dittatura, pubblicato, a spese dell’autore, nel 1950 dall’editore romano Bardi [8]. Pasolini coglie immediatamente il valore di questa prima opera dello scrittore siciliano:
«Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a mandare al confine il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso con un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza» [9]
Sciascia mostrerà gratitudine all’autore di questa recensione per tutta la durata della sua vita. L’altro elemento che colpisce, in questo esordio di Sciascia, è una citazione, posta ad epigrafe dello stesso libretto, che tocca un tema di fondo di tutta la sua opera:
«Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta ma nessuno saprà capire quel che ci è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?» (L. Longanesi).
Si sente in queste parole l’eco dell’idea manzoniana, tanto cara a Sciascia, secondo la quale soltanto la letteratura può colmare i vuoti di ogni storiografia. Insieme all’amicizia comincia così la collaborazione tra i due scrittori. Sciascia fornisce alcuni consigli per la ricerca, avviata nello stesso periodo da Pasolini e dell’Arco, sulla poesia e la cultura popolare italiana che sfocerà nella pubblicazione della famosa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma 1952. Consigli e suggerimenti che dell’Arco e Pasolini ricambiano nel corso della preparazione dell’antologia sciasciana, Il fiore della poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco) che viene pubblicata dall’editore nisseno Salvatore Sciascia nello stesso 1952, con una Premessa dello scrittore bolognese. [10]
Due anni dopo Leonardo Sciascia cura la pubblicazione, in un Quaderno collegato alla rivista Galleria, da lui diretta, di alcuni versi inediti in lingua italiana di Pasolini, intitolate Dal diario (1945-47). Lo stesso Sciascia, nell’introduzione alla ristampa del libretto avvenuta nel 1979, ricorda come la sua iniziativa fosse collegata all’idea di invitare altri amici di Pasolini – Roberto Roversi, Angelo Romanò e Alfonso Leonetti – a collaborare con la sua rivista. Risultano oggi particolarmente significative le parole con cui Sciascia chiude la sua Introduzione:
«nel gennaio del ‘54, dovendo preparare una nuova terna di poeti, Pasolini mi scriveva: “Quanto al poeta su cui mi chiedi consiglio, per me non ci sono dubbi: Leonetti”. Si prefigurava così, nei primi “quaderni di Galleria”, il gruppo da cui doveva venir fuori la rivista Officina: la sola, a conti fatti, che abbia avuto un senso e un ruolo nell’Italia soffocata dal grigiore democristiano post 18 aprile 1948.
Questo libretto ha dunque una storia […]. Me ne ero quasi scordato, come forse se ne era scordato Pasolini. Rileggendo ora le sue lettere, e dopo aver riletto queste sue poesie, mi pare di aver vissuto una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici?» [11].
Quindi, come si evince chiaramente da questo importante documento, Leonardo Sciascia, oltre ad essere stato amico di Pier Paolo Pasolini, è stato anche uno dei suoi primi editor quando Pasolini era ancora poco conosciuto.
Stefano Vilardo, l’amico del cuore di Sciascia, un giorno mi ha raccontato di aver visto piangere Sciascia solo una volta in tutta la sua vita, ed esattamente il giorno in cui appresero la notizia della morte di Pasolini. La cosa non può sorprendere visto che lo stesso Sciascia, in una pagina del suo diario Nero su Nero (1979), nel cercare di spiegare a se stesso le ragioni per cui, dopo l’entusiasmo dei loro primi incontri e la promettente reciproca collaborazione degli anni Cinquanta, i loro rapporti si fossero allentati, scrive:
«io mi sentivo sempre un suo amico; e credo anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. […] La sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso [...] – io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del “Mondo”, una lettera a Italo Calvino» [12].
D’altra parte i due, sia pure a distanza, hanno continuato ad occuparsi di problemi e temi simili anche negli anni Sessanta, scrivendo persino sugli stessi giornali e periodici. Basti qui ricordare, per tutti, la stretta collaborazione di Pasolini con il settimanale comunista Vie Nuove e quella di Sciascia con il giornale L’Ora.
L’ influenza di Gramsci nelle opere di Pasolini e Sciascia
Pasolini e Sciascia hanno la stessa idea di cultura di Antonio Gramsci. Per quanto tanti critici continuino ad ignorarlo e tanti ex comunisti abbiano dissipato la grande eredità gramsciana, il pensatore sardo è stato uno dei principali punti di riferimento di entrambi. Se ci si attiene ai testi, senza sollecitarli [13], ciò risulta inoppugnabile.
È stato lo stesso Pasolini a dichiarare più volte: «Le idee di Gramsci coincidevano con le mie, mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me» [14] Pasolini afferma di aver letto Gramsci, per la prima volta, nel biennio 1948-1949, anni in cui cominciano a vedere la luce, seppure in modo incompleto, i suoi scritti [15]. Ma l’assimilazione critica del pensiero gramsciano è successiva al periodo indicato. Ciò è dimostrato, tra l’altro, da un testo inedito del marzo 1949 [16], che affronta il tema classico dei rapporti tra cultura e politica, senza alcun riferimento al lessico e alla filosofia gramsciana, e da una lettera a Carlo Betocchi dell’ottobre 1954, dove l’Autore svela con candore le proprie incertezze ideologiche.[17]
È probabile che, in un primo momento, Pasolini sia rimasto colpito dalla statura morale dell’uomo imprigionato dal regime fascista: «tanto più libero – come scriverà – quanto più segregato dal mondo, fuori del mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero» [18]. E colpisce la somiglianza che hanno queste parole con quelle scritte, negli stessi anni, da Leonardo Sciascia:
«Bisogna tener conto che egli scrive in carcere, non ha a soccorrerlo che pochi libri e la sua limpida e certa memoria: e in quel silenzio fisico che lo circonda, che porterebbe altri alla fiacchezza e alla disperazione, egli miracolosamente diviene accanto a Benedetto Croce, l’uomo più libero che sia possibile trovare nell’Italia del fascismo». [19]
L’immagine di un Gramsci leopardiano torna in un passaggio centrale dell’intervista rilasciata ad Arbasino nel 1963, dove si afferma: «l’unico antenato spirituale che conta è Marx e il suo dolce, irto, leopardiano figlio, Gramsci» [20] . Solo a partire dai primi anni ‘60 è possibile trovare, negli scritti di Pasolini, tracce significative del pensiero gramsciano. Soprattutto se si considera l’aspetto più problematico di esso, ch’egli è stato tra i primi a cogliere. Occorre, infatti, tenere costantemente presente che il Gramsci di Pasolini non è il Gramsci ufficiale del PCI, ma il Gramsci studioso del linguaggio e del senso comune che riesce a vedere, anche nelle più elementari espressioni del linguaggio umano, una particolare visione del mondo. [21]
Da questo punto di vista, l’intera rubrica che curerà, dal 1960 al 1965, sul settimanale comunista Vie Nuove, diretto da Maria Antonietta Macciocchi, ha un’inconfondibile impronta gramsciana. Non è un caso che, in questo periodico popolare, intrattenendo uno straordinario dialogo con lettori spesso incolti, a proposito di questioni linguistiche, elogi il filologo Isaia Graziadio Ascoli e, una volta asserito che «Gramsci non è mai normativo», citi a memoria un passo dei Quaderni: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi».[22]
Quello praticato da Pasolini in Vie Nuove è un esempio di giornalismo rivoluzionario, assai vicino al modello gramsciano [23]. Forse, persino superiore allo stile corsaro degli anni ‘70 che rimane legato al modello tradizionale dell’intellettuale vate o profeta, dei cui limiti Pasolini mostra di essere ben consapevole fin dal 1962. Infatti, ad un lettore che gli chiede se ritiene possibile che un grande scrittore, denunciando le ingiustizie, possa mettere in crisi la società, replica:
«No, non credo possibile che l’opera di uno solo, per quanto grande, possa porre in crisi uno stato di cose. […]. La democrazia ha abituato, bene o male, alla discussione e alla partecipazione: lo scrittore-oracolo non è concepibile in tempi di produzione in serie. È una figura del passato (se mai ce ne sono stati): tipica di una civiltà agricolo-artigianale. Ma anche ammesso che ci fosse uno scrittore di tale levatura […] da poter mettere in crisi una società, egli verrebbe inesorabilmente sconfitto, oggi, dalla potenza industriale, dalle catene dei giornali e dei mezzi di diffusione conservatori e reazionari».[24]
Un critico severo ed esigente, come Franco Fortini, ha giustamente individuato proprio nelle pagine di Vie Nuove il Pasolini migliore [25]. Lo stesso Pasolini, nel dicembre 1962, poco prima di partire per quel viaggio in Africa che lascerà un segno indelebile nella sua vita [26], nel congedarsi dai lettori della sua rubrica, la definirà «uno dei punti fermi di questi ultimi anni: addirittura, in certi momenti neri, un’ancora di salvezza» [27]. Rileggendo queste pagine – scritte, peraltro, in una delle fasi più convulse e creative dell’autore che aveva trovato nel cinema una nuova via per esprimersi – colpisce la straordinaria capacità di ascolto insieme alla volontà di capire e di essere capito. Nei dialoghi coi lettori Pasolini parlerà di tutto; ma due costanti, fra loro congiunte, predomineranno: la riflessione sui rapporti tra comunismo e cristianesimo e l’analisi dei rapporti tra le diverse forme del linguaggio umano e le cose.
Va precisato, comunque, che il Pasolini di quegli anni è talmente lontano dalla vulgata marxista-leninista, allora in voga, da essere considerato eretico, non solo dai lettori più sprovveduti, ma persino dagli intellettuali marxisti più aperti [28]. A tutti replica, con grande mitezza ed efficacia, lasciandoci pagine esemplari. Così, a chi gli chiede di rompere con il proprio passato piccolo-borghese, risponde:
«La sua è una richiesta mistica. Lei pensa l’ideologia come un’ascesi. Questi ‘distacchi’ dal proprio io, dal proprio passato (che è poi la storia), sono tipici delle conversioni ‘nevrotiche’ che hanno caratterizzato tante santità. I marxisti non sono dei santi: sono degli uomini. La loro vita, la loro opera, la loro lotta si svolge nella storia: e la storia è una mescolanza inscindibile di passato, presente e futuro». [29]
Lo stesso concetto verrà ripreso più concisamente nell’articolo del 3 maggio 1962 intitolato Cultura contro nevrosi:
«Essere marxisti, oggi, in un paese borghese, significa essere ancora in parte borghesi. Finché i marxisti non si renderanno conto di questo, non potranno mai essere del tutto sinceri con se stessi. La loro infanzia, la loro formazione, le loro condizioni di vita, il loro rapporti con la società, sono ancora oggettivamente borghesi. La loro ‘esistenza’ è borghese, anche se la loro coscienza è marxista» [30]
Pasolini è sempre più convinto che il marxismo non va chiuso in un sistema fisso e dogmatico, altrimenti diventa la copia capovolta del dogmatismo clericale. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, la replica a Lucio Lombardo Radice che, nel luglio 1962, gli attribuisce le sommarie equazioni Cristo = Marx e DC = fascismo:
«Io non scrivo solo questa rubrica “parlata”, del resto… Mi integri con gli altri miei scritti, e non mi faccia dire quello che non voglio dire! Non ho mai inteso inglobare Gesù in Marx! […]. Ho sostenuto poi, anche, che nulla di ciò che è stato sperimentato storicamente dall’uomo, può andare perduto: e che quindi non possono andare perdute neanche le parole di Cristo. Esse sono in noi, nostra storia. E io sono ancora (e ancora ingenuamente) convinto che per un borghese una buona lettura del Vangelo è sempre un fertilizzante per una buona prassi marxista. Quanto alla “DC come nuovo fascismo”, io ho solo citato il mio corrispondente con una certa simpatizzante ironia. Non volevo dire che la DC è, alla lettera, un nuovo fascismo. Le faccio notare, ad ogni modo, che la borghesia italiana che ha espresso il fascismo è la stessa che esprime la DC: la sfido a elencare sostanziali differenze nel campo della scuola, della magistratura, della polizia, della pubblica amministrazione, dei rapporti con la potenza clericale del Vaticano. E la sfido a dimostrarmi anche le ragioni vere, culturali nel senso gramsciano della parola, per cui la DC può essere definita, come lei fa, un “grande partito cattolico”. Quale cultura ha mai espresso?». [31]
Sul valore rivoluzionario del Cristianesimo Pasolini tornerà più volte, soprattutto, nel 1964, dopo l’uscita del suo Il Vangelo secondo Matteo, dedicato alla memoria di Papa Giovanni XXIII. Il film, nonostante i riconoscimenti della critica, verrà accolto con freddezza e diffidenza dai settori più retrivi del mondo cattolico e comunista. E il poeta sarà costretto a dare spiegazioni anche su Vie nuove:
«Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomini meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana […]. Ho amato, alla fine degli anni ‘40, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vespri. Ma cosa c’entrava lì il cattolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei braccianti friulani. […]. Forse appunto perché sono così poco cattolico ho potuto amare il Vangelo e farne un film […]. Ho potuto farlo così come l’ho fatto, perché mi sento libero, e non ho paura di scandalizzare nessuno; e, infine, perché sento che la parola d’amore (incapacità di concepire discriminazioni manichee, istinto di gettarsi aldilà delle abitudini, sempre, sfidando ogni contraddizione), parola d’amore di cui è stato campione Giovanni XXIII, va considerata un impegno nella nostra lotta» [32].
Papa Giovanni, insieme a Kennedy e Kruscev, costituirà nei primi anni ‘60 la principale fonte di speranza di un mondo nuovo; e Pasolini condividerà con milioni di uomini questa speranza. In una deliziosa pagina, scritta sullo stesso periodico nell’ottobre del 1964, il poeta non manca di notare, tra le altre cose, l’influenza dell’amata filologia nella formazione del “papa buono”:
«Non c’è nulla di più follemente aberrante del razzismo. Ora, da parte dei comunisti verso i preti, e da parte dei preti verso i comunisti, c’è una specie di atteggiamento razzistico: essi, volendolo o no, cedono a una specie di tentazione discriminatoria, che svaluta l’interezza umana e storia dell’altro, lo destituisce di realtà, lo dissocia.[…] Come comunista anch’io non sono immune da questa malattia inconscia, e l’anticlericalismo serpeggia come un verme dentro di me, a succhiare il sangue dell’altro fino a renderlo ombra, simbolo, schema di un insieme di cose che mi sembrano ingiuste, di un mondo che rifiuto […]. Papa Giovanni era incapace di discriminare, di vedere nell’uomo l’altro, il nemico per definizione […]. Questo voleva significare il suo sorriso […]. Ho saputo in questi giorni che quando era a Istanbul, egli frequentava le lezioni di filologia e di critica stilistica di Auerbach; e questo mi spiega molte cose, non solo il suo particolare modo di fare “lo spirito” (che è tipico della persona raffinatamente specializzata), ma del “distacco” luminoso che egli aveva dalle cose della vita, dello sguardo globale che egli gettava sul mondo, al di là delle sue folli discriminazioni» .[33]
L’articolo si conclude con due affermazioni che diventeranno pietre angolari nella storia del dialogo tra marxisti e cristiani in Italia: 1. «Una filosofia atea non è la sola filosofia possibile del marxismo»; 2. «Il grande nemico di Cristo non è il materialismo comunista, ma il materialismo borghese» [34]. Pasolini è rimasto talmente colpito dalla lettura del Vangelo da trarne spunto, oltre che per uno dei suoi film più belli, per una Preghiera su commissione, raccolta in Trasumanar e organizzar, dove riprende il discorso evangelico sulle beatitudini:
Caro Dio,
liberaci dal pensiero del domani. […]
l’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani […]
Caro Dio,
facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. [35]
La figura del Cristo rimarrà sempre un punto di riferimento per Pasolini; in alcuni momenti persino il principale modello, accanto a Gramsci, della necessaria unità tra teoria e prassi. In particolare il binomio scandalo-follia – tratto dalla paolina lettera ai Corinti, 1-23: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i Gentili» – ricorre frequentemente nelle sue pagine, applicata alle proprie o altrui esperienze come criterio di misura della validità autentica di gesti, parole, fatti artistici che si pongono spesso come “scandalo e follia”, rispetto al sistema socio-politico e ai codici linguistici dominanti. Su questo ultimo punto, tuttavia, dato che finora è stata sempre evidenziata la fondamentale presenza di Gramsci nella vita e nell’opera di Pasolini, occorre precisare che il poeta friulano è andato certamente oltre il pensatore sardo.
Altrettanto grande è stata l’influenza di Gramsci nell’opera di Leonardo Sciascia. Lo ha riconosciuto apertamente uno dei maggiori critici dello scrittore siciliano, Massimo Onofri, che, oltre a rilevare l’impronta gramsciana nei primi studi pirandelliani di Sciascia, non ha avuto dubbi nell’ammettere che tutti i saggi degli anni Sessanta, raccolti nel volume La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (Einaudi 1970), rientrano perfettamente nell’orizzonte gramsciano-lukacsiano. Ma è stato soprattutto un giovane studioso palermitano, Bernardo Puleio, a ricordare, in una sua documentata monografia sullo scrittore di Racalmuto (I sentieri di Sciascia, Kalos Palermo 2003), la decisiva influenza di Gramsci nell’“intricato e labirintico” processo di formazione di Sciascia.
Il Puleio dimostra che la stessa visione della letteratura come “buona azione” è di origine gramsciana e che questa influenza – pur riconosciuta da altri critici, limitatamente agli anni Cinquanta e parte dei Sessanta – persiste, sia pure con qualche contraddizione, anche negli anni successivi. Ciò è dimostrato da uno dei testi più autobiografici di Sciascia, il Candido. Ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977), scritto all’indomani della sua rottura col PCI.
Ne trascriviamo di seguito per intero il passo su cui si sofferma il critico, anche per mostrare come gli stessi testi, talvolta, si prestino ad essere letti in maniera diversa. D’altra parte, nell’opera di Sciascia, la verità scaturisce sempre dal dialogo e dal confronto dialettico delle diverse posizioni, la verità non è mai espressa da un unico personaggio:
«Candido dunque leggeva Marx. Aveva letto prima Gramsci, poi Lenin; ora leggeva Marx. Su Marx si annoiava ma si ostinava. I libri di Gramsci li aveva invece letti con grande interesse ed anche con la commozione che gli veniva dall’immaginare quel piccolo uomo gracile e malato che divorava libri e annotava riflessioni: e così aveva vinto il carcere e il Fascismo che ve lo teneva. Gli pareva proprio di vederlo, di vedere la cella, il tavolo, il quaderno, la mano che scriveva, e di sentire il lieve raschio del pennino sulla carta. Ne aveva parlato spesso con don Antonio (…); ma don Antonio non amava molto Gramsci, vedeva nelle pagine dei Quaderni serpeggiare un errore, un’incrinatura. I cattolici italiani: e dove li aveva visti Gramsci? La domenica alla messa di mezzogiorno: poiché non altrimenti esistevano. Erano una debolezza, e Gramsci aveva cominciato a farne una forza (…). Ma a Candido pareva che su questo argomento don Antonio non avesse sufficiente serenità. Del suo essere stato prete restava in lui troppa delusione, troppo risentimento; e che un po’ troppo, quindi, quel che era stato agisse su quel che voleva essere».[36]
Appare, infine, significativo che l’ultima polemica giornalistica di Sciascia, pochi mesi prima di morire, avvenga proprio nel nome di Gramsci. L’occasione è data dalla pubblicazione del libro di Luciano Canfora, Togliatti e i dilemmi della politica, pubblicato da Laterza qualche settimana prima della recensione che lo scrittore siciliano ne fa il 17 marzo1989 [37]. Nel libro Canfora sostiene la necessità di tenere costantemente presente il contesto storico in cui il Migliore fu costretto a muoversi per comprenderlo bene: così, a suo dire, comportamenti che presi per sè e trasferiti in un regime di normalità, non sarebbero che indifendibili prevaricazioni o meglio veri e propri crimini; se si svolgono all’interno di eventi di “epocale rilievo” quali la Rivoluzione francese o la Rivoluzione d’ottobre, quelle “prevaricazioni” e quei “crimini” cessano di essere tali ed assumono diversa natura. Questo poté leggere Sciascia alle pagg. 6-7 del libro di Canfora: E ce ne sarebbe già abbastanza per comprenderne l’intervento, dato che si trattava di temi sui quali la sua sensibilità era diventata particolarmente acuta.
Sciascia nella recensione, invece di prendere di petto l’interlocutore, lo affronta lateralmente spostando l’attenzione su un testo riportato nel libro in appendice: si tratta della “strana lettera” – così la definirà lo stesso Gramsci – che quest’ultimo ricevette in carcere nel 1928. La lettera del 10.2.28 porta la firma di Ruggero Grieco e risulta spedita da Mosca. Il documento, ritenuto autentico dal sardo ed ulteriore prova del sospetto d’essere stato abbandonato dal Partito, secondo Canfora è un falso costruito ad arte dalla polizia fascista. Sciascia non ritiene fondata l’ipotesi di Canfora e, sapendo che la stessa filologia può essere usata come uno strumento di mistificazione, vede nell’operazione l’ultimo tentativo di falsificare la storia del PCI. Per questa via Sciascia arriva a cogliere un’affinità tra il caso Gramsci e il caso Moro: ambedue abbandonati se non addirittura traditi dai propri partiti. [38]
Bisogna però riconoscere che Sciascia, in tutta la sua opera, si mostra meno ideologo di Pasolini. Lo scrittore siciliano non perde tempo a discutere dei massimi sistemi e non è mai stato attratto dalla storia delle idee. Egli ha sempre preferito prestare attenzione alle cose concrete, alle piccole storie e alla stessa cronaca. Da questo punto di vista Sciascia è stato, oltre che eretico, ancor più empirista sia di Pasolini che di Gramsci.
Secondo me, il suo maggiore debito nei confronti del pensatore sardo va ricercato nel suo empirico storicismo che lo condurrà a respingere qualsiasi forma di idealismo e di naturalismo. Basti qui ricordare il suo metodo di approccio al fenomeno mafioso, che deriva tutto dallo storicismo gramsciano: «non è partendo dalla razza che si può gettare luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa» [39].
Non meno gramsciana risulta la sua radicale critica a Giovanni Gentile che affronta di petto discutendo Il tramonto della cultura siciliana:
«dello scritto di Gentile diamo un giudizio simile a quello che Lukàcs dà del libro di Croce su Hegel: dove, sembra dire il Lukàcs, ciò che il Croce in Hegel trova di morto è appunto ciò che è vivo, e morto è ciò che trova di vivo. Così il tramonto della cultura siciliana è per noi un’alba [corsivo mio]: la cultura siciliana perde quei caratteri di naturale isolamento e volontario secessionismo, entra nel circuito nazionale ed europeo senza per questo alienarsi dalle sue profonde e particolari ragioni; ed è anzi nazionale ed europea in forza di quegli “strati infimi” che secondo Gentile ‘non hanno grande importanza storica’. Gli ‘strati infimi’, ai quali non sappiamo se il Gentile si riferisce in quanto ‘oggetti’ o ‘soggetti’ di cultura, sono la forza e il limite della narrativa siciliana: e si può anzi dire che ne sono la forza in quanto ‘soggetti’ (Verga, Pirandello: dove i personaggi sono soggetti che esprimono una visione del mondo, una cultura) e il limite in quanto ‘oggetti’ (Capuana, appunto): cioè nella misura in cui il verismo si fa realismo, lo studio rappresentazione, la poetica poesia» [40].
Appare evidente qui la personale assimilazione, da parte di Sciascia, della critica gramsciana al pensiero gentiliano e la sua particolare attenzione alle sorti degli “strati infimi” della società che, nel linguaggio dello scrittore di Racalmuto, diventano «i carusi delle zolfare, i picconieri, i braccianti delle campagne»[41]. Sciascia è stato sempre legato, anche per ragioni di sangue oltre che di classe, a quelle che chiamava classi subalterne. La cosa appare particolarmente evidente in opere come Le parrocchie di Regalpetra (1956) e in Occhio di capra (1984). Ma occorre anche riconoscere che questa sua costante attenzione non si trasforma mai in lui in una bandiera ideologica.
Insomma Sciascia, a differenza di Gramsci e di Pasolini, ha guardato alla storia del mondo con maggiore disincanto e, consapevole delle dure repliche della Storia, non ha mai creduto nella rivoluzione comunista. E sta qui, secondo me, la principale differenza di Sciascia rispetto a Gramsci e Pasolini.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Aa. Vv. (a cura di Filippo La Porta), Pasolini e Sciascia. Ultimi eretici, Marsilio Editori, Venezia 2021.
[2] Francesco Virga, Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, Quaderns d’Italià, n.16, 2011: 175-196.
[3] Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979: 443.
[4] Leonardo Sciascia, Elogio dell’eresia, L’Ora 9 maggio 1979.
[5] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975: 31
[6] Fin troppa nota l’affermazione di Sciascia che avrebbe voluto che sulla sua tomba venissero scolpite queste parole: Contraddì e si contraddisse. Per quanto riguarda Pasolini, invece, tra i tanti critici che hanno evidenziato la «contraddizione costitutiva» della sua opera, si segnala il saggio di Vittorio Spinazzola, La modernità letteraria, Milano: Il Saggiatore, 2001, ripreso da Roberto Carnero Morire per le idee, Bompiani, Milano 2010: 9.
[7] Uno dei primi accurati studi sul ruolo giocato da Mario dell’Arco in quegli anni si deve a Franco Onorati, La stagione romanesca di Leonardo Sciascia. Fra Pasolini e dell’Arco, Edizioni La Vita Felice, Milano 2003
[8] Paolo Squillacioti, nell’appendice critica con cui conclude il primo volume della nuova edizione delle Opere di Sciascia, fornisce una ricca e dettagliata informazione sul suo libro d’esordio (L. Sciascia, Opere. Narrativa – Teatro – Poesia, Adelphi, Milano 2012: 1703-1715)
[9] P. P. Pasolini, Dittatura in fiabe in La libertà d’Italia, 9 marzo 1950. Ora in Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Tomo I, Meridiani, Mondadori, Milano 1999: 339.
[10] Leonardo Sciascia, Il fiore della poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, dell’Arco), Premessa di Pier Paolo Pasolini, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta 1952.
[11] Pier Paolo Pasolini, Dal diario (1945-47) Introduzione di Leonardo Sciascia, Salvatore Sciascia editore, 1979: 8.
[12] Leonardo Sciascia, Nero su nero, Torino, Einaudi, 1979: 175-176
[13] Espressione di Antonio Gramsci, che tanto contribuì alla formazione di Pasolini. Sarebbe tradire entrambi dimenticarsi del giudizio severo espresso dal sardo contro la diffusa tendenza a: «“sollecitare i testi”, cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità di quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?. Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Torino: Einaudi, 1975, II: 838.
[14]J. Halliday (a cura di), Pasolini su Pasolini, Parma: Guanda, 1992, pp. 37-38; ora in Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani, Mondadori 1999: 1295. D’ora in poi questo libro sarà citato con l’abbreviazione SPS. Com’è noto, l’opera di Antonio Gramsci (1891-1937) ha avuto la sua prima parziale pubblicazione, presso Einaudi, con la supervisione di Palmiro Togliatti, soltanto a partire dal 1947, con la prima edizione delle Lettere dal carcere. Seguiranno i volumi tratti dai Quaderni del carcere, tematicamente raccolti, nel seguente ordine: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948), Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949), Il Risorgimento (1949), Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno (1949), Letteratura e vita nazionale (1950), Passato e presente (1951). In più volumi saranno poi raccolti gli scritti giornalistici del periodo pre-carcerario. L’edizione critica dei Quaderni, a cura di Valentino Gerratana, verrà pubblicata sempre da Einaudi solo nel 1975.
[15] Il testo, preparato per il Congresso provinciale del PCI di Pordenone, sarà pubblicato, per la prima volta, il 4 novembre 1977 su Rinascita. Ora, insieme ad altri inediti, si trova raccolto in SPS: 81-84.
[17] P. P. Pasolini, Vita attraverso le lettere (a cura di G. Naldini), Einaudi, Torino 1994: 163-165.
[18] P. P. Pasolini, Passione e ideologia, cit.: 487.
[19] L. Sciascia, Opere (1984-1989) , vol. III, Bompiani, Milano 1991: 1028.
[20] A. Arbasino, Sessanta posizioni, Milano: Feltrinelli, 1971. Ora in SPS: 1573. In questa stessa intervista Pasolini, dopo aver ricordato anche i debiti contratti con Longhi e Contini, assicura di non aver dimenticato nessuno di loro, «perché la mia caratteristica principe è la fedeltà». Non manca però di dare una stoccata a quanti «hanno fatto di tutto per rendere intollerabile l’uso dei padri». Cfr. ibid.: 1573-1574.
[21] T. De Mauro, Prefazione a P. P. Pasolini, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1991 (I ed. 1977): 8, ha giustamente osservato che il PCI «non ha mai saputo attuare la lezione di Gramsci». Colgo ‘occasione per ricordare che il giovane Pasolini, quando nel 1949 viene espulso per indegnità morale dal PCI, scriverà: «Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola». L’intera triste vicenda, che lascerà un segno indelebile nel cuore di Pasolini, è ben ricostruita da Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli Editore, 1978: 140-144.
[22] Pasolini, proprio per il suo tipico “empirismo eretico”, non ha mai seguito con ortodossia alcuna scuola di pensiero. Per questo, fin dagli anni ‘60, riesce a conciliare Gramsci e Contini, e il suo marxismo eterodosso con la psicoanalisi e lo strutturalismo. E, non a caso Contini, ai suoi occhi apparirà fino all’ultimo, «il solo critico italiano i cui problemi siano stati i problemi letterari di Gramsci […] scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili». Cfr. P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Torino: Einaudi, 1979 p. 443.
[23] Sono frequenti nel lessico pasoliniano di quegli anni espressioni simili a quelle gramsciane. Così, ad es., il brano seguente: «So quanto l’operazione giornalistica sia falsa: prende, della realtà, brani isolati, appariscenti […]. Non pensa il giornalista borghese, nemmeno per un istante, a servire la verità» (Le belle bandiere, cit.: 53), riecheggia in modo impressionante un passo dell’epistolario gramsciano:
«Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli» (Lettera del 12 ottobre 1931, ora in A. Gramsci – T. Schucht, Lettere 1926-1935, Torino: Einaudi 1997: 833-834).
[24] P. P. Pasolini, «Il cinema e la poesia», Vie Nuove, 6 dicembre 1962, ora in Le belle bandiere, cit.: 209-210.
[25] F. Fortini, Pasolini e le ultime illusioni (1977), ora in Attraverso Pasolini, Torino: Einaudi, 1993. Quanto Pasolini tenesse in conto il giudizio di Fortini è stato recentemente evidenziato da Enzo Golino, Tra lucciole e Palazzo. Il mito Pasolini dentro la realtà, Palermo: Sellerio, 1995: 91-113.
[26] È stato giustamente osservato che l’Africa, negli anni ‘60, prende il posto del Friuli nell’immaginario pasoliniano: «Dal Friuli alle borgate romane, al meridione d’Italia, all’Africa, all’India si susseguono in Pasolini le tappe di un’interrotta ricerca di nuove incarnazioni del mito di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati». G. Santato, «L’abisso tra corpo e storia. Pasolini fra mito, storia e dopostoria», Studi pasoliniani, 1, 2007.
[27] P. P. Pasolini, Le belle bandiere, cit.: 210-211.
[28] Intervenendo nel dibattito in corso su Vie Nuove, sul tema dei rapporti tra marxismo e cristianesimo, un intellettuale non codino come Lucio Lombardo Radice accuserà Pasolini di eresia e dilettantismo. Cfr. ibid., pp. 179-183. Critiche analoghe riceverà, negli anni successivi, da Asor Rosa, Salinari, Sanguineti, Calvino ed altri. Questi ed altri critici verranno più tardi bollati dal poeta come «nuovi chierici».
[29] P. P. Pasolini, «Mistica e storia», Vie Nuove, 27 maggio 1961, ora in Le belle bandiere, cit.: 102.
[30] Ibid.: 171
[31] Ibid.: 181-183; e cfr. anche: 76-78 e 136-140.
[32] Ibid.: 222-224.
[33] Ibid.: 225-226.
[34] Ibid.: 226. Pasolini è stato senz’altro uno dei più convinti sostenitori del dialogo tra cristiani e marxisti. In merito, particolarmente interessante appare il testo della conferenza «Marxismo e cristianesimo» tenuta nel dicembre del 1964 a Brescia, ora in SPS: 786-824. In uno dei passi centrali di questa conferenza Pasolini afferma: «nel fondo dell’azione di Marx c’è un profondo spiritualismo» (ibid: 801).
[35] P. P. Pasolini, Trasumanar e organizzar (1971), Milano, Garzanti, 1976. 44-45, corsivo nel testo.[36]
[36] L. Sciascia, Candido cit. da Puleio in op. cit.: 129
[37] L. Sciascia, Gramsci e quella strana lettera da Mosca, in La Stampa, 17 marzo 1989.
[38] B. Puleio, op. cit.: 133-134
[39] L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta, S. Sciascia Editore 1961: 167
[40] Ibidem: 45
[41 ] L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Opere (a cura di C. Ambroise), vol. I, op.cit.: 112-113
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018).
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