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Luigi Meneghello e la Resistenza: il rovescio della medaglia di tutta una classe di scrittori

2560020461321_0_0_536_0_75di Rabeb Ben Abdennebi

L’importanza data a Luigi Meneghello (Malo il 16 febbraio 1922 – Thiene il 26 giugno 2007) nel panorama della letteratura italiana contemporanea è sempre più ampia e documentata. Meneghello è un accademico famoso, un letterato pregevole, uno scrittore che attrae l’attenzione e il riguardo della critica, stimola tanti studiosi, affascina un pubblico sempre più largo di lettori.      

Meneghello ha sempre desiderato prendere parte al dibattito culturale e simultaneamente capire ciò che nella sua patria stava capitando. Lo scrittore è stato attento osservatore e appassionato e severo studioso degli avvenimenti del suo Paese come realmente sono e sono stati. Per lui l’Italia e i fatti italiani hanno rappresentato un interesse e un’occupazione di primo grado. Perciò il nucleo dei suoi scritti ha sempre posto al centro l’Italia e la scrittura del suo secondo libro I piccoli maestri [1] è da lui considerata una prova di grande responsabilità.    

Nell’immediato dopoguerra, Meneghello sentì una urgente esigenza di raccontare la propria esperienza partigiana e quella di una squadretta di universitari vicentini con cui prese parte nella Guerra di liberazione che insanguinò il Paese tra il 1943 e il ’45. La Resistenza agita decisamente la storia e la vita del popolo italiano e incide profondamente sull’attività letteraria e culturale e Meneghello intese ridare a quella vicenda storica il suo volto più realistico anche se la traduzione in scrittura di questa pagina di storia non costituì un compito facile per lui. 

Per liberarsi di quella remora sia sul piano della vita personale sia su quello del giudizio storico, Meneghello passò molti anni nel tentativo di scrivere qualche episodio della guerra civile ma ogni volta trovò se stesso costretto a rinunciare perché aveva paura che qualcosa lo travolgesse.

«[..] In tutti questi assaggi, scrivevo a fatica e con l’animo contratto. Sentivo che c’era un territorio in cui non potevo ancora addentrarmi senza ribrezzo. Ogni tanto avevo il senso di toccare un punto più pericoloso, quasi una breccia in un argine; e mi pareva che smuovendo sarebbe venuto giù un fiotto di caotiche affezioni personali, civili e letterarie che mi avrebbe portato via»[2].

Un fattore scatenante determinò la nascita dei Piccoli maestri: è un ritorno all’Altopiano di Asiago, teatro di “azione” un giorno e adesso di memoria, nell’inverno del 1962-63. La presenza in questo luogo «con uno di quei magnifici salti nel profondo di sé che sa fare l’uomo»[3] e il contatto col paesaggio portano alla rievocazione di immagini conservate nella memoria di persone (giovani studenti vicentini) che fanno con lui la guerra, di «episodi più tipici e significativi che si erano depositati, magari a sua insaputa, nelle strutture profonde dell’io»[4], di ricordi personali, di avvenimenti e vicende del passato.

Meneghello sente che questo luogo contiene tutte le circostanze vissute e gli viene l’idea di scrivere un libro che tratta la vicenda partigiana della piccola squadra nata intorno alla figura di Antonio Giuriolo [5]: «[...] e mi accorsi che finalmente ci vedevo abbastanza chiaro, era nato il distacco, l’intera faccenda di quei nostri dolori di gioventù si schiariva, potevo scriverla» [6].

Ma l’opera nasce dopo un lungo e assai difficile compito di scavo che si manifesta particolarmente penoso per la sostanza adulta dei veleni mescolati all’esperienza vissuta.

«È risultato che anche questa materia, come quella della mia infanzia a Malo, aveva radici profonde: estrarle ed esporle alla luce è stato ugualmente lungo e difficile, ma più doloroso: i veleni non erano quelli di un bambino, ma di un giovane uomo, veleni più adulti, e le cose da esorcizzare più inquietanti» [7].

Meneghello comincia la scrittura del suo racconto sulla Resistenza già negli anni Cinquanta, per darlo alla stampa soltanto a distanza di una ventina d’anni, nel 1964, in una prima stesura, cambiata in seguito per riemergenti necessità di documentazioni oltre che di forma.

«Sono circa trent’anni – con abbandoni e riprese – di corpo a corpo con la memoria di eventi vissuti di persona, che intanto attorno hanno trovato nella memoria altrui e in quella pubblica diverse forme di sedimentazione e di espressione»[8].

Nella produzione letteraria meneghelliana ciò che affascina è la posizione centrale della lingua e per essere più precisi il plurilinguismo. Chi si dedica alla lettura dei Piccoli maestri ha la sensazione di essere dinanzi a una scrittura che scorre limpida e dolce, quasi nata istintivamente, «laddove si può dire di Meneghello, come di Fenoglio e di altri notevoli scrittori, che ogni pagina è passata per un purgatorio di rifacimenti»[9].

Un incantevole ritmo intellettuale e una nitida lungimiranza reggono questa opera misteriosa dell’esperienza partigiana vicentina. «Ce n’è abbastanza per immaginarci uno scrittore che ha un rapporto di permanente lotta con la parola scritta, non ha fretta di renderla pubblica e, quando lo fa, alla prima occasione ci rimette le mani. Come accade con I piccoli maestri, vistosamente sottoposto a sforbiciate e limature per l’edizione del 1976»[10].

9788876674846_0_536_0_75Meneghello compie la sua attività artistica badando alla forma e alle rifiniture. Il letterato tenta e ritenta con pazienza artigiana di cambiare l’«esperienza in scrittura». La materia del libro «non venne fuori torrentiziamente in pochi mesi, dopo la pubblicazione e il successo del primo» [11],  però essa è l’effetto di prove di stesura iniziate tra la fine degli anni Quaranta e il principio degli anni Cinquanta. Già nella Nota del resoconto si legge: «Per anni ho continuato a tentare di dar forma a singoli pezzi di questa materia»[12].

Nella redazione dei Piccoli maestri prevale un Meneghello surreale e inventore di una prosa fitta e difficile da dipanare. Nel tempo in cui la corrente neorealistica vuole rappresentare la realtà come annotazione di avvenimenti che raccontano da sé, ragione per cui tante opere appaiono adesso sublimi,

«Meneghello guardando la realtà un po’ strabicamente, come ogni vero scrittore, sovraimprimendole la propria visione mentale, cioè interpretandola con propri pensieri e proprio stile, la rende di necessità meno datata, meno contingente, più condita di sapori e perciò fornita di un messaggio artistico ancora attuale»[13].  

Meneghello «era capace di combinare la goffaggine degli incolti con il sublime della più fulgida poesia, con la pietà dovuta ai deboli»[14]. Lui impiega sapientemente «il triangolo magico» della sua prosa: l’italiano, l’inglese e il dialetto vicentino. Sono queste in sequenza le lingue sperimentate dal letterato per stendere l’opera: «da alcuni assaggi attraverso le “alterità” della lingua poetica o dell’inglese, alla prossimità dell’italiano, all’intimità del dialetto». Nel racconto ci sono anche «delle emergenze linguistiche che vanno dall’italiano parlato, magari con influssi regionali, al dialetto vicentino, “la lingua di quella nostra guerra”»[15].

La lingua impiegata nel libro «non è il dialetto e non è nemmeno un italiano infarcito di letterarietà, sarà innanzitutto un italiano dell’uso, vivo e antiretorico, con tratti regionali ma che non intaccano l’indiscussa italianità della lingua [...]»[16] .

Il processo di riproduzione di una scrittura che fa i conti con il parlato, non tanto quello dialettale ma quell’italiano popolare, parlato, famigliare, regionale, porta alla nascita di una mescolanza che si propone come lingua “franca” semplice, flessibile e vicinissima a un parlante mediocre, staccata dagli estremi del vernacolo maladense e dell’italiano sapiente e ricercato [17]. Si tratta principalmente di una scelta stilistica, che nel caso dei Piccoli maestri diventa perfino «una delle ragioni di essere del libro», una parte dell’argomento della Resistenza che viene rievocato in modo antieroico impiegando un tono mediocre, un aspetto importante della polemica contro la retorica, la pomposità, la convenzionalità della cultura ufficiale.

antieroiL’esperienza della Resistenza è molto breve ma non è di scarso valore per nessuno di questi combattenti per la libertà. La vicenda rappresenta una sconvolgente educazione morale e politica di giovani ex fascisti divenuti partigiani e avvicinati al socialismo liberale, l’epilogo ideale della formazione intellettuale fascista di un’intera generazione. «Sia l’umanesimo che il fascismo sono veduti come degenerazioni della lingua e il rimedio è una lingua parlata, ironica, che funziona come strumento di autocoscienza e come critica della cultura e della società italiana» [18].

Inoltre l’esigenza di Meneghello di introdursi in un cerchio culturale più esteso lo porta ad impiegare il russo, il tedesco e anche il latino. La lingua di questo libro non è infatti meno eterogenea di quella del libro d’esordio, anche se infrequenti sono le comparse del dialetto e del latino. Essa è composta in maniera differente. «Per dirla con Bachtin vi domina la pluridiscorsività sociale; come dire che entro la sua personale lingua, così viva e nei dialoghi lucidamente colloquiale, Meneghello inserisce linguaggi di vari livelli della testualità sociale»: il linguaggio delle canzoni popolari alpine e dei testi lirici letterari celebrati; i ritmi delle filastrocche; gli ordini marziali dell’apparato statale italiano e di persone colte.

Questa pluridiscorsività sociale «si trasforma, direbbe Bachtin, in plurivocità dello scrittore: ne nasce un bel chiaroscuro stilistico con effetti vari di comicità, in quanto il disordine della vita e le sue incoerenze ben si specchiano nei linguaggi sociali così accostati»[19].  

Non si deve dimenticare di avere davanti una specie molto particolare di artista: quella dello scrittore-professore. La persona di Meneghello e la sua scrittura si sviluppano in un universo ormai lontano nel tempo, ed è questo che continua ad attrarre e attirare la critica: «il senso di comunità, la facilità di rapporti, l’equilibrio interiore, le figure quasi arcaiche che animavano le sue pagine e che lui ha così magicamente ricreato per noi, assegnando un valore mitico a ogni frammento di quella vigorosissima umanità»[20].

Sicuramente scrittori come Fenoglio e Calvino, per menzionare due nomi e due scritture ben contraddistinti ma uniti nella meditazione meneghelliana sullo stile, provocano riguardo e interesse nello scrittore di Malo. La stesura di Fenoglio è un modello di quella «virtù senza nome» che contraddistingue le compilazioni più riuscite. Tra i tratti distinti dell’opera più importante del letterato piemontese, Il partigiano Johnny, Meneghello indica «primo fra tutti la capacità di darci insieme il senso dello straordinario e quello del vero. C’è un effetto di sorpresa e insieme di assoluta attendibilità»[21]. Gian Luigi Beccaria osserva la medesima «virtù» nel resoconto meneghelliano: «Questo effetto di sorpresa e insieme di assoluta attendibilità è esattamente l’impressione che ha sempre suscitato in noi la scrittura di Luigi Meneghello». Arduo in ogni modo stabilire «influenze stilistiche puntuali, interferenze significative sul piano linguistico delle forme lessicali, delle architetture sintattiche»[22].

tremaio-note-sull-interpretazione-lingua-dialetto-ecf69c03-9e94-4ed6-afa3-0ec74b108b17Campo del tutto inesplorato è il modo con cui la vicenda partigiana si è calata nella scrittura di Meneghello. L’intellettuale non segue il passo della tradizione neorealistica che domina la letteratura partigiana nel dopoguerra in Italia ma fa un notevole passo fuori di essa sviluppando una forte polemica contro la retorica celebrativa con cui viene trattato l’argomento di solito, contro la storiografia che non riesce a trattare oggettivamente la questione della Resistenza e insomma contro tutto ciò che non è vero.  

La narrazione meneghelliana della Resistenza si stacca cronologicamente dagli anni della scrittura neorealista e resistenziale e guarda a quegli eventi con distacco temporale che dà modo al letterato di mettere in risalto la visione da lui maturata di essi.

Il merito dell’autore vicentino e del suo libro sta nella rappresentazione, in un modo che si differenzia completamente da quello dominante, antiretorica e antieroica di una situazione complessa e nell’aver sciolto numerosi punti cruciali (emozionali, ideologici, politici ed esistenziali) di un’esperienza che si svolse quarant’anni fa sulle montagne e nelle città del Veneto. 

Meneghello, come cronista e autentico interprete, esclude l’ansia di tradurre la vicenda vissuta in termini etici e esemplari, cerca di aderire il più possibile alla realtà degli avvenimenti e – in questo vicino allo stile di Fenoglio – allo studio attendibile e affidabile dell’esperienza propria e altrui.   

Nell’opera da una parte «vi sono le ‘storie di giovani’, le tragiche esperienze o meglio destini personali che hanno diviso su fronti opposti un’intera generazione che poteva condividere pur in modo confuso una comune ricerca ideale e volontà di sacrificio, offerta di sé»; d’altra parte «non si negano nei partigiani eroismi e idealità altissimi, ma mescolati a fragilità, errori, ingenuità, violenze non sempre giustificate (trattate sempre con estremo pudore nella rappresentazione)»[23]

Infatti Meneghello sa rivelare realtà anche scomode e indicare la dimensione drammatica della guerra civile. Lo scrittore nel ricercare «il senso» della vicenda partigiana sembra voler farne un bilancio e ciò che resta in mano è una realtà stanca e anche pericolosa: esercito come «giocattolo» e qualcosa di inutile, partigiani incerti, affamati e in fuga, le imprese compiute sono più «fughe» che «atti di valore», tremendi rastrellamenti finiti con la rovina delle case e l’esilio degli uomini, drammatico destino umano incontrastabile, tormenti micidiali subiti senza reagire e senza dire nulla, uccisioni senza motivo, popolo rassegnato alla sconfitta della vita e ad una assurda e incredibile povertà. Interamente, ma senza dissacrazione, il racconto offre una rappresentazione di tutto questo.

I piccoli maestri diventa così «antidoto ai veleni di una nuova retorica, reattiva alla precedente ma nutrita degli stessi succhi»[24]. Ma Meneghello non ha esitazioni a mostrarsi anticonformista e inconsueto, «come il rovescio della medaglia di tutta una classe»[25] di letterati e prosatori che per lunghi tempi hanno animato e traviato un pubblico di lettori influenzandone le opinioni e anche i comportamenti.

9788868571368_0_536_0_75Non è senza significato che la pubblicazione del libro provocò grande confusione, incomprensioni, contrasti e reazioni avverse e sfavorevoli come quelle di Giorgio Barbieri Squarotti, di Giuliano Manacorda, di Carlo Bo, di Anna Banti e di altri prestigiosi recensori. Questi importanti critici dell’universo letterario italiano mostrano il loro disorientamento di fronte a quel racconto che espone la tematica della Resistenza in chiave anti-celebrativa e antieroica. Loro vedono nella rappresentazione esatta, precisa, vera, senza schema ideologicamente prestabilito, una riduzione della portata politica e antifascista del mito nazionale.

«Particolare, fuori dagli schemi e dalle attese di quegli anni, Luigi Meneghello [...]»[26]. Per questo motivo alla sua produzione letteraria, ai Piccoli maestri è toccata un’attenzione trascurabile. In sostanza, per un certo tempo, questa opera venne disapprovata ed attaccata. Si aggiunga che si è registrato uno spontaneo rigetto di una percentuale di italiani verso qualsiasi opera esprimesse un’aspra critica nei confronti di ciò che era stimato sacro, “tabù”, mito, ritenuto degno di riverenza o rispetto [27]. Il malinteso dei Piccoli maestri da parte di grandi nomi dell’italianistica non è alieno a un sentimento di sdegno nei confronti di qualche ambiente letterario italiano.

Alcune produzioni letterarie che rievocano l’evento resistenziale come i testi di Piovene, Quasimodo, Blasetti, Ungaretti provocano in Meneghello un certo disorientamento perché tentano di rendere questa vicenda storica quasi un’epopea, falsificando ciò che era successo realmente. Secondo lui, questi letterati mostrano «[...] una evidente incapacità di “scrittura” e quindi di comprensione di vicende attraverso le quali pur si era passati» [28].

Meneghello esprime anche il suo disagio individuale nei confronti di un libro conforme alla tradizione resistenziale come Uomini e no di Elio Vittorini (1908-1966). Di fronte le acerbe deviazioni di questo romanzo si tiene in esercizio la penna del narratore maladense subito dopo la guerra. Uomini e no è pubblicato nel 1945 e «ha avuto una certa importanza, in via polemica, per la composizione dei Piccoli maestri» [29]. Meneghello critica l’opera come una narrazione falsificata e mal riuscita o anche peggio, come una raffigurazione strettamente ingannatrice in cui vengono accentuate fino al grottesco alcune caratteristiche della Resistenza.  Per il letterato di Malo, Vittorini non parla in modo autentico e leale della Resistenza, anzi ne fa la caricatura. «È in parte per questo che a suo tempo il mio libro è stato scritto come è stato scritto» [30].

Meneghello parlando a distanza di anni di I piccoli maestri come lo vede oggi, tentò di dare una risposta alla domanda sui motivi del circoscritto equivoco e malinteso del suo libro da parte della critica italiana:

«Certo, il libro è stato ricevuto con meno piena cordialità di Libera nos, ma nel complesso io non ho da lamentarmi. Naturalmente mi era dispiaciuto che tra gli ex-partigiani (e anche tra gli “storici” della Resistenza) qualcuno desse segno di un certo disappunto: questo però l’avevo già messo sul conto, è ovvio che la gente preferirebbe essere considerata eroica, specie quando non lo è molto… Come del mio primo libro si era detto che offendeva la sana religiosità delle genti venete, così di quest’altro a una prima impressione si poteva pensare che svalutasse la Resistenza. Ma di queste impressioni non mi pare che sia rimasta traccia» [31].

41uzqscshhl-_sx307_bo1204203200_La riflessione desidera puntualizzare chiaramente la stima moderna dei Piccoli maestri. Fino al 1965, Meneghello non sembra neppure nella rosa di autori da analizzare. Ma con la stesura di questo suo magnifico libro, che rappresenta l’elemento «cardine di un canone romanzesco fondato sull’innovazione» [32], l’autore si sposta dalla periferia al centro dell’attenzione.

I piccoli maestri è tradotto in francese da Cristal de Lignac e Helena de Mariassy e pubblicato con il titolo Les petits maîtres da Calmann-Lévy a Parigi nel 1965. Non solo. Nel 1967 il libro è stampato in inglese con il titolo The Outlaws da Michael Joseph a Londra e da Harcourt, Brace and Word, a New York. La traduzione è realizzata da Raleigh Trevelyan [33]. L’anno seguente Trevelyan si aggiudica il premio Florio per l’ottima traduzione inglese di un libro italiano [34] .Il resoconto è tradotto anche in tedesco da Marianne Schneider e pubblicato a Berlin da Wagenbach nel 1990 e da Fisher Verlag nel 1993 con il titolo Die kleinen Meister [35]. Il racconto è tradotto successivamente in spagnolo da Elena de Gran Aznar e pubblicato con il titolo Los pequeños maestros a Sevilla da Barataria nel 2008 [36] .

Nel 1998 I piccoli maestri diventa un film grazie al regista Daniele Luchetti che realizza una trasposizione cinematografica dell’opera (sceneggiatura di Daniele Luchetti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Domenico Starnone, regia di Daniele Luchetti, con Stefano Accorsi nella parte di “Gigi”). Il film è presentato al Festival di Venezia [37]. Le opinioni di oggi a proposito dell’opera di Meneghello non sono quelle di ieri, anzi sono quasi totalmente mutate. Decisamente più eleganti e illuminanti sono gli studi critici, particolarmente a partire dalla metà degli anni Ottanta, che evidenziano «lo splendente ritmo intellettuale, la lucida perspicacia che regge il racconto meneghelliano della Resistenza vicentina» [38].

71vaks4tul-_sl1024_Non mancano difatti determinati giudizi favorevoli a cominciare con quello pubblicato da Ghirotti su «Comunità»: «L’opera di Luigi Meneghello, in realtà, è il diario di una coscienza folgorata dalla scoperta dell’errore e fa della guerra civile il purgatorio per il proprio riscatto»[39], di Enzo Golino che lo definisce un «libro salveminiano», per finire con quello di Galante Garrone che osserva in quel «libro scanzonato una visione volutamente spoglia di retorica»[40].

I piccoli maestri raggiunge, da ultimo, un’aperta approvazione come “piccolo gioiello” della memorialistica partigiana italiana. Ancora due membri del gruppo partigiano, Gigi Ghirotti e Licisco Magagnato, ribattono e rinforzano la fermezza e l’attendibilità del racconto. Il 5 maggio 1964 Ghirotti scrive:

«Ora vengono i critici a dirci che «la storia non sta in piedi»; che il libro di Meneghello è uscito troppo di fretta, quasi rincorrendo la scia del primo successo, e che le sue analisi sono «superficiali». Frettoloso e superficiale un “perfezionista” congenito come Meneghello? Non sta in piedi una storia che è tutta vera, da cima a fondo, esplorata senza misericordia anche nelle pieghe meno eroiche dei suoi personaggi? [...] Il fatto è che intorno alla Resistenza s’era andata formando in questi anni un’atmosfera da monumento nazionale, e Meneghello distrugge quest’alone con la forza dell’ironia, e ci restituisce quei mesi, quelle passioni, quei ragazzi sbandati che fummo, anche quelle debolezze con scrupolo di storico e, sovente, con linguaggio di poesia» [41].

Licisco Magagnato parla del libro in questo modo: «La storia è un documento fotografico e interamente esatto dei fatti; sono le vicende ripescate nella memoria con prodigiosa precisione [...] senza alcuna concessione al romanzesco» [42]. Per questo storico dell’arte I piccoli maestri volgarizza in scrittura quello che è «l’acquisto più profondo» della vicenda partigiana: «ogni atto è calato giù dal piedistallo dell’eroico, perché l’acquisto più profondo di quell’esperienza era destinato ad essere, per lo scrittore come per ciascuno degli attori, la vaccinazione perpetua contro la retorica» [43].

Per concludere, secondo Meneghello il mondo, per esistere e acquisire un senso, deve passare attraverso la scrittura e pure la scrittura, per avere senso, deve muovere dal mondo. Ciò fa sì che nella sua prosa ci sia un rapporto tra etica (la sincerità dei contenuti) e estetica (la bellezza della stesura) e lo scrittore riesce a riportare con autenticità le sue diverse esperienze impiegando uno stile insolitamente attento alle più piccole e intime verità della storia e della  vita.

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] Il titolo è ispirato da un’espressione francese «petits-maîtres», che lo scrittore vicentino lesse in un saggio inglese di Horace Walpole, «usata per designare schersozamente i beneducati banditi da strada del tempo» (Luigi Meneghello, Quanto sale?, in Anti-eroi, Prospettive e retrospettive sui “Piccoli maestri” di Luigi Meneghello,  («Biblioteca di Lingue e Culture Locali, 3»), Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1987: 26). La suggestione basilare è collegata all’avventura della piccola squadra partigiana di cui Meneghello parla nel suo libro.
[2] LUIGI MENEGHELLO, I piccoli maestri, 4a edizione, («Piccola Biblioteca La Scala»), Milano, Rizzoli, 1999: 230.
[3] Maria Corti, Introduzione, a LUIGI MENEGHELLO, I piccoli maestri,  1a edizione, («Scrittori del Novecento»), Milano, Mondadori, 1986: VI.
[4] Ivi : VII.
[5] Antonio Giuriolo nasce ad Arzignano (Vicenza) nel 1912. Suo padre è un avvocato socialista. Lui è un giovane professore abile e affidabile, onesto e serio. Si laurea in Lettere a Padova nel 1935. Dopo aver finito i propri studi, non può più svolgere la sua attività come insegnante in una scuola pubblica poiché non possiede la tessera fascista, respinge di prenderla. Questa opposizione è osservata come forma di stramberia in una città, come in tutte le altre città italiane, in cui in effetti chi vuole un lavoro deve avere la tessera. Lui sa dire di no e rifiuta di iscriversi al Fascio. Vive dando lezioni e facendo supplenze in istituti privati. Muore sul fronte della Resistenza, all’età di 32 anni, nel 1944 (Renzo Zorzi, Meneghello prima di Meneghello, in Tra le parole della «virtù senza nome», La ricerca di Luigi Meneghello, Atti del convegno internazionale di studi Malo, Museo Casabianca 26-28 giugno 2008, a cura di Francesca Caputo, Premessa di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo, («Biblioteca di « Autografo », 12»), fondata da Maria Corti, Novara, Interlinea, 2013: 16).
[6] LUIGI MENEGHELLO, I piccoli maestri, Quarta edizione, («Piccola Biblioteca La Scala»), Milano, Rizzoli, 1999: 231.
[7] Ivi: 230
[8] Mario Isnenghi, L’ala troskista dei badogliani, in Anti-eroi, Prospettive e retrospettive sui “Piccoli maestri » di Luigi Meneghello, («Biblioteca di Lingue e Culture Locali, 3»), Collana diretta da Gabrio Vitali e Giulio Orazio Bravi, Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1987: 93.
[9] Maria Corti, Sullo stile dei «Piccoli maestri», in Anti-eroi: 97.
[10] Domenico Starnone, Il nocciolo solare dell’esperienza, in LUIGI MENEGHELLO, Opere scelte, Progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo con uno scritto di Domenico Starnone, Quarta edizione, («I Meridiani»), Milano, Mondadori, 2010: XIX.
[11] Ivi: XVIII.
[12] LUIGI MENEGHELLO, I piccoli maestri, Quarta edizione, («Piccola Biblioteca La Scala»), Milano, Rizzoli, 1999: 230.
[13] Maria Corti, Sullo stile dei «Piccoli maestri», in Anti-eroi: 103.
[14] Franco Marenco, Quello scrittore internazional-popolare, in Volta la carta la ze finia, Luigi Meneghello, Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi, Prima edizione, («Visioni»), Pavia, Effigie, 2008: 188.
[15] Luciano Zampese, Ritmi del parlato e voci dialettali nei Piccoli maestri, in Maestria e apprendistato, Per i cinquant’anni dei Piccoli maestri di Luigi Meneghello, Atti del convegno di studi, Università degli Studi di Milano (8 maggio 2014), Università degli Studi di Milano Bicocca (9 maggio 2014), Comune di Malo (28 giugno 2014), a cura di Francesca Caputo, Introduzione di Bruno Falcetto, («Biblioteca di “Autografo”, 14»), fondata da Maria Corti, Novara, Interlinea, 2017, cit.: 137.
[16] Ivi: 143-144.
[17] LUIGI MENEGHELLO, «Vorrei far splendere quella sgrammaticata grammatica», in Il tremaio, Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie, con interventi di Cesare Segre, Ernestina Pellegrini e Giulio Lepschy, («Biblioteca di Lingue e Culture Locali, 2»), Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1986: 33.
[18] Ivi: 34
[19] Maria Corti, Sullo stile dei «Piccoli maestri», in Anti-eroi: 34.
[20] Franco Marenco, Quale ruolo ha Meneghello nella cultura italiana oggi?, in Tra le parole della «virtù senza nome»: 47.
[21] LUIGI MENEGHELLO, Il vento delle pallottole, Quaggiù nella biosfera, in Opere scelte: 1615.
[22] Luciano Zampese, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, («Strumenti di Letteratura Italiana, 43»), Firenze, Franco Cesati, 2014: 165.
[23] Ivi: 129.
[24] Ivi: 133
[25] Emilio Franzina, Storia di giovani, in Anti-eroi, cit.: 62. 
[26] Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Prima edizione, Milano, Principato, 1998: 454.
[27] Maria Corti, Sullo stile dei “Piccoli maestri”, in Anti-eroi: 97.
[28] Emilio Franzina, Storia di giovani, in Anti-eroi, cit.: 64.
[29] Ernestina Pellegrini, Luigi Meneghello, («Scritture in corso, 7»), Collana diretta da Giuseppe Nicoletti, Firenze (Fiesole), Cadmo, 2002: 60.
[30] Luigi Meneghello, Quanto sale?, in Anti-eroi, cit.: 22.
[31] Ivi: 42. 
[32] Pietro De Marchi, Dalle vecchie carte alle nuove. Travasi o ricavi, in Maestria e apprendistato, cit.: 183.
[33] Giulio Lepschy, Nota bibliografica, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy, («Saggi di cultura contemporanea, 144»), Milano, Comunità, 1983: 5.
[34] Francesca Caputo, Cronologia, in LUIGI MENEGHELLO, Opere scelte, Progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo con uno scritto di Domenico Starnone, 4a edizione, («I Meridiani»), Milano, Mondadori, 2010: 183
[35] Ferdinando Bandini, Introduzione, a LUIGI MENEGHELLO, Pomo pero, Paralipomeni d’un libro di famiglia, Prima edizione, («Oscar Scrittori del Novecento»), Milano, Mondadori, 1987: IX.
[36] Luciano Zampese, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, («Strumenti di Letteratura Italiana, 43»), Firenze, Franco Cesati, 2014: 195.
[37] Francesca Caputo, Nota biografica, in LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, 8a edizione, Milano, Rizzoli, 2007: XII.     
[38] Francesca Caputo, I piccoli maestri, Notizie sui testi, in LUIGI MENEGHELLO, Opere scelte, cit.: 1672.
[39] Ernestina Pellegrini, Luigi Meneghello, cit.: 59.
[40] Ivi: 26.
[41] Francesca Caputo, I piccoli maestri, Notizie sui testi, in LUIGI MENEGHELLO, Opere scelte, cit.: 1671.
[42] Luciano Zampese, La forma dei pensieri. Per leggere Luigi Meneghello, cit.: 132.
[43] Ivi: 133.

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Rabeb Ben Abdennebi, nata in Tunisia, dottoressa in letteratura italiana contemporanea. Ha seguito un corso magistrale e ha ottenuto il master nel 2015 presso la Facoltà delle lettere e delle umanistiche de La Manouba. Presso lo stesso Ateneo ha discusso nel 2021 la sua tesi di dottorato “Impianto autobiografico e sperimentazione linguistica nell’opera di Luigi Meneghello”. Attualmente è docente a contratto presso l’Istituto delle Lingue Applicate di Moknine dell’Università di Monastir.

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