di Bernardo Puleio
Nel mio intervento cercherò di abbozzare le connessioni esistenti tra la scrittura della ragione di uno scrittore dalla vasta e complessa formazione, nella quale spicca la matrice illuminista e francese, che vive nella anomalia di una realtà siciliana che spesso sconfina nella follia, e la pluralità delle ragioni di una scrittura che ha assunto molteplici forme, dal saggio al romanzo, dall’articolo al discorso parlamentare. E anche qui bisognerebbe fare un discorso più complesso che meriterebbe un approfondimento a parte: il maestro di Racalmuto sfugge a ogni catalogazione di genere.
Il saggio e il romanzo si contaminano e, spesso, il giallo una delle linee letterarie predilette, si capovolge in una aporia, in una negazione del giallo classico. Analogamente, la lucidità del ragionamento, anziché chiarire le problematiche, aggiunge complessità e impossibilità di sciogliere inequivocabilmente le matasse della oscurità della realtà. I discorsi parlamentari poi nella consolidata stringatezza e brevità dell’autore, contengono una pluralità semantica dal momento che afferiscono a varie sfere, dal discorso politico ad un ricco sostrato di intelaiature e di citazioni letterarie. Gli articoli di giornale, che non rientrano nello specifico di questo piccolo saggio, sovente diventano attività polemica che si iscrive nella connotazione del panflettista che adopera la penna come un colpo di spada senza mai rinunciare ad un discorso ordinato, elaborato nella biblioteca mentale dello scrittore, come frutto di una ragnatela fertile della dimensione letteraria basata sulla trasmissione degli auctores che costituiscono il dizionario, l’enciclopedia della scrittura.
Matteo Collura, in Alfabeto eretico, ha pubblicato un inedito del diciannovenne Sciascia, scritto nel giugno del 1940, dal titolo Fantasia agrigentina (a tutt’oggi questo è da considerarsi l’exordium letterario del giovane scrittore): attraverso una descrizione “romantica” profondamente partecipata dei paesaggi, della storia della cultura di Agrigento, emerge già nettamente delineato, il nume tutelare Pirandello. Attraverso le “lenti” inforcate dal grande drammaturgo, in un rapporto di “filiazione”, con precoce maturità, Sciascia osserva il “paesaggio” umano siciliano.
Il testo assolve ad una duplice funzione: la scrittura diventa saggio letterario, inglobando una citazione tratta dal pirandelliano Discorso su Verga (1931: un testo che colpì moltissimo, fin da giovane, lo scrittore al punto che lo volle rieditare nella silloge Delle cose di Sicilia, una raccolta di scritti rari o inediti, pubblicata con la casa editrice Sellerio a Palermo nel 1980), ma assume la connotazione di un’indagine “antropologica” sulla Sicilia e sulla sicilianità [1].
«[....] La Sicilia: un’isola.
I Siciliani Isolani.
Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole; e più si chiudono in sé, perché di questo aperto che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano…., Pirandello e Villaroel.
La “Richeri” di Pirandello: queste strade tortuose, grigie, quasi senza speranza: l’ironia di un cielo splendente, la vastità ieratica del mare. Qui è l’oscuro tormento di Uno nessuno e centomila, di Luigi Pirandello, “uno e due” dei Sei personaggi in cerca d’autore. Qui è la risata aperta de La giara.
Riso e dolore: pazzia.
Pirandello ha visto il suo Mattia Pascal per queste strade tetre Il suo Mattia Pascal: – Mattia Pascal-Pirandello. Un occhio strabico, un lungo cappello, la barbetta a punta e i pensieri, i dubbi, le delusioni, la solitudine, le angosce. Il tormento dei personaggi si insinua in queste viuzze, le impregna, le fa soffrire: come cosa viva. [....] ma lo spettro c’è sempre, c’è sempre. Chissà che a sera non ci si incontri con Pirandello vagante senza scopo nella sua Girgenti!».
In Una storia semplice, l’ultimo testo scritto, per meglio dire dettato alla figlia, nel 1989, l’anno della morte, il professore Franzò, sfogliando alcune lettere, resta impressionato: «A diciotto anni Pirandello pensava quel che avrebbe scritto fin oltre i sessanta» [2]. Allo stesso modo, si può asserire che Sciascia, a diciannove anni, ha già perfettamente delineato il percorso che seguirà fino alla piena maturità: Pirandello è l’interprete “realista” travagliato e lacerato della Sicilia.
Ne La Sicilia come metafora, così si esprime lo scrittore sulla sua formazione:
«Quando finalmente trovai e lessi Il fu Mattia Pascal, e poi qualche volume di novelle, ne ebbi una rivelazione. La rivelazione che dentro il mondo pirandelliano io ci vivevo che il dramma pirandelliano – l’identità, la relatività – era il mio di ogni giorno. Me ne venne una specie di mania, di follia. Chi sono -come sono- come mi vedono gli altri… domande che mi spingevano all’isolamento alla solitudine.
Per uscire da tale condizione che – che non era libresca, astratta, mentale ma di vita quotidiana, di pirandellismo in natura – mi aggrappai alla ragione, all’altra faccia delle cose e al modo di “ragionarle” di cui avevo esempio in Diderot, in Courier, in Manzoni» (S. M.: 11).
Il rovello pirandelliano è un tarlo corrosivo [3] che appare come un dato connaturato alla realtà siciliana, non astratto, non filosofico ma realistico e popolano, secondo una lettura di uno degli autori più cari a Sciascia: Antonio Gramsci [4]. In Pirandello, padre putativo del maestro di Racalmuto, è possibile riscontrare, secondo Gramsci, un autore contestualmente paesano, nazionale ed europeo: un giudizio nel quale, Sciascia, evidenziando una seconda filiazione nei confronti del piccolo grande sardo [5], si identifica pienamente [6], elaborando la teoria che il massimo della sicilianità coincida con la universalità [7].
A giudizio dello scrittore di Regalpetra, con mirabile intuizione, e fulminea chiarezza (III: 1029), Gramsci coglie nei personaggi pirandelliani la realtà di persone vive e non loici fantocci. È Gramsci a fornire la linea interpretativa di riferimento sul realismo di Pirandello, già intuito, come si evince da Fantasia agrigentina, nel 1940. E tuttavia il realismo pirandelliano designa un mondo che sconfina nella dolorosa follia. Da qui deriva una inestricabile affilatissima e irrisolta dialettica sciasciana che sarà incentrata sulla ricerca di una complessa indagine sulla ragione, abbracciando soprattutto i modelli francesi.
Il nome di Paul-Louis Courier, vignaiolo della Turenna, seguace delle spedizioni napoleoniche in Italia, insigne grecista, “colpevole” di avere versato inchiostro, nella Biblioteca Laurenziana, sul manoscritto di Dafni e Cloe, autore di alcuni ironici e taglienti pamphlets (La petizione alle due Camere, Il pamphlet dei pamphlets), è assai noto agli sciasciofili. Per il piccolo giudice di Porte aperte (1987), Courier è sinonimo di diritto e ragione.
«Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria: e così accadde al giudice sentendo quello di Courier, sul cui volume delle opere complete, trovate nel solaio di un parente che non sapeva che farsene, aveva cominciato a compitare francese e ragione, francese e diritto» (III: 366).
Come potesse essere finito in un solaio di Racalmuto, un testo raro, come quello di Courier, è la domanda che ha fatto scattare la dotta e documentata ricerca di Caronna [8], attento studioso dell’intellettuale francese. Nell’introduzione a Le parrocchie (1956), il nome di Courier è significativamente presente ed è associato a giustizia e ragione
«Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di avere dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione [...]. La povera gente di questo paese ha una grande fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse – di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso. Paolo Luigi Courier, vignaiolo della Turenna e membro della Legioni d’onore, sapeva dare colpi di penna che erano colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna: una “petizione alle due Camere” per i salinari di Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che vanno a servizio. Certo, un po’ di fede nelle cose scritte ce l’ho anch’io come la povera gente di Regalpetra: e questa è la sola giustificazione che avanzo per queste pagine» (I.: 9-10).
Affermazioni queste, da cui si evince che l’ingiustizia, l’arretratezza delle condizioni socio-economiche di Racalmuto, inducono Sciascia a “sguainare” la spada – la letteratura come buona azione dunque – contro i soprusi, nel nome di Courier, confidando nella scrittura- ragione, la più alta forma di letteratura intesa come forma di giustizia. È evidente uno scopo ideologico: la speranza che la penna-spada possa infliggere qualche buona stoccata e permettere a salinari e braccianti di migliorare, nel nome del diritto, la propria condizione. Il nome di Courier, dagli esordi, dal ‘56 fino all’87, è associato, insieme al francese, alla cultura francese[9], al diritto e alla ragione. Nelle Parrocchie, è presente un chiaro intento moralistico: la ragione per cui, alla maniera di Courier, Sciascia vuole assestare dei buoni colpi di penna, coincide con la ragione dei salinari, dei braccianti, dei vecchi senza pensione, dei bambini che vanno a servizio.
Durante un incontro organizzato a Palermo nel 1965, alla presenza del sociologo triestino Danilo Dolci, lo scrittore insisteva, citando Courier, sull’intento moralistico della letteratura, considerata (manzonianamente?) una buona azione, utile a cambiare il mondo, a far conseguire progressi (qui l’eco gramsciana è forte): prima dei risultati letterari conta la realtà, l’attualità della realtà.
«Io concepisco la letteratura – sarò anche di gusto sorpassato tutto quello che si vuole – come una buona azione. Il mio ideale letterario, la mia bibbia – e mi pare che l’abbia scritto molte volte – è Courier, l’autore dei libelli. Courier si occupava di piccole cose, delle disposizioni di un prefetto di polizia contro una festa da ballo, per esempio. E a un certo punto incappò in un processo. Il pubblico ministero definì un suo libello come un’opera pericolosa e velenosa… A me interessa dibattere cose di oggi; cose che interessano quante più persone possibile, tenendo come assolutamente secondari i risultati letterari. Se ci sono non mi interessano»[10].
Può essere interessante osservare che lo scrittore concludeva l’intervento, riponendo con umiltà, grande attenzione nel giudizio del pubblico dei lettori. Nella prefazione alla edizione del 1967 delle Parrocchie, Sciascia spiega
«Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono; ma pare che in Italia ci si affacci a parlare il linguaggio della ragione per essere accusati di mettere la bandiera rossa alla finestra»» (I: 9).
Tuttavia, qualche anno dopo, nel 1971, proprio dalla “bandiera rossa” cioè dal Partito Comunista, o per meglio dire da importanti dirigenti di quel partito [11], sarebbero stati lanciati acuminati strali contro Sciascia, autore ne Il contesto, di una ironica e raffinata analisi sul doppiogioco dei rivoluzionari (i comunisti), pronti a malgovernare col partito di maggioranza [12]. I colpi assestati dalla penna-spada tratteggiano la decadenza dell’Italia, un Paese contraddistinto da una desertificazione ideologica
«Un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava» (II: 95).
Il Contesto narra la vicenda di Cres, un farmacista ingiustamente condannato, che ordisce un folle disegno di vendetta: uccidere giudici innocenti, depistando gli inquirenti per potere assassinare Riches, il presidente della Corte Suprema. A Rogas, poliziotto colto, lettore attento di Voltaire, viene affidata la delicata indagine. Il centro del libro è costituito dal dialogo tra Riches e Rogas. Il giudice è convinto, in maniera del tutto fanatica, che l’errore giudiziario non possa esistere perché, quasi come in una sorta di religione trascendente, come nell’atto della Eucarestia, anche se il sacerdote è indegno, in ogni caso avrà luogo la transustanziazione, così, anche nel momento in cui verrà pronunciata una sentenza, anche se il giudice è una persona corrotta, la validità dell’atto non potrà mai essere messa in discussione. È una mentalità autoreferenziale che postula religiosamente, in maniera inquisitoriale, lo stato di colpa dei cittadini
«Quella religione è vera, quel potere legittimo, che rendono l’uomo a uno stato di colpa: nel corpo, nella mente. E dallo stato di colpa è facile estrarre gli elementi della convinzione di reato più che dalle prove oggettive che non esistono» (II: 75).
Riches e Rogas sono su posizioni diametralmente opposte: il giudice nega uno dei fondamenti della ideologia di Rogas-Sciascia: il Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Il testo, scritto nel 1763, traendo spunto da un grave errore giudiziario, nella Francia ancora insanguinata, all’interno delle stesse famiglie, da conflitti di natura religiosa, sviluppa alcuni concetti fondamentali: il perdono e la pietà, il rispetto verso le opinioni degli altri, il valore della solidarietà. In altri termini, diritto e ragione. Per esempio, nel Dizionario filosofico, Voltaire fornisce la seguente definizione della tolleranza [13]:
«Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini è la prima regola di natura».
Nella prima pagina del Trattato sulla tolleranza è presente uno dei fondamenti della ideologia dello scrittore di Racalmuto: la difesa del diritto e della ragione nel nome del garantismo. Scrive Voltaire [14]:
«Dove il pericolo e lo svantaggio sono uguali lo stupore cessa e la pietà stessa si attenua; ma se un padre di famiglia innocente è abbandonato nelle mani dell’errore, o della passione o del fanatismo; se l’accusato non ha altra difesa che la propria virtù; se gli arbitri della propria vita non rischiano facendolo sgozzare che di sbagliarsi: se possono uccidere impunemente con una sentenza, allora si leva la pubblica protesta, ciascuno teme per se stesso, ci si accorge che nessuno è sicuro della propria vita di fronte a un tribunale istituito per vegliare sulla vita dei cittadini».
È un passo di capitale importanza nella ideologia di Sciascia. In primo luogo perché attorno a questo passo viene costruito, ne Il Contesto, il punto di vista del personaggio vicario Rogas, che addirittura, uscendo dall’abitazione di Riches si imbatte in Cres, comprende di avere di fronte il potenziale serial killer e ne diventa complice consentendogli di uccidere il giudice, reo di avere attaccato fanaticamente il Trattato di Voltaire: Riches espia con la morte l’attacco contro la ragione di Voltaire. Va comunque osservato, in secondo luogo, che le riflessioni del filosofo illuminista costituiscono il faro delle battaglie e delle polemiche delle ragioni della scrittura, basata sulla difesa della ragione, cioè del diritto e del garantismo, contro ogni idea precostituita e pregiudizievole di un potere assoluto. Nel libro-intervista del 1979, La Sicilia come metafora, Sciascia, anche dopo la parodia contenuta nel finale di Candido [1977], ribadiva l’esemplarità di Voltaire, uno degli auctores più rilevanti nel sistema delle idee dello scrittore siciliano:
«[…] ritengo che Voltaire sia ben piazzato sulla linea d’arrivo – ammesso che essa esista – degli scrittori. Voltaire, quest’esempio di professionalità della scrittura, questo modello di scrittore, chiaro, svelto, conciso, intelligente, sintetico, ironico: ecco tutto ciò che per me rappresenta la chiave della scrittura e del vero mestiere» (S. M.: 57).
Ovviamente si potrebbero anche citare passi in cui l’autore si diverte a smentire la filiazione con Voltaire ma, alla luce di tanti importanti continui riferimenti, ai quali si può aggiungere il celebre saggio Il Secolo educatore che esalta il Settecento illuminista e la figura di Diderot, si può asserire che, anche al cospetto del pessimismo, la barra della navigazione è fermamente tenuta dal timone della ragione. Non falliscono gli ideali della ragione, semmai la società e le classi dirigenti si allontanano, per ignoranza, per cinismo per sete di potere, dalla ragione, creando condizioni di vita non ragionevoli, cioè ingiuste. Prende piede una concezione complessa, caratterizzata dall’eroismo tragico, dalla solitudine dell’eroe sciasciano:
«Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella ragione furono personalmente travolti, annientati» (Prefazione all’edizione del 1967 delle Parrocchie, I: 5).
Il pessimismo dello scrittore non scaturisce dalla negazione o dalla insufficienza della ragione, ma dal tradimento continuo, nella società e nella classe dirigente, delle istanze di diritto e giustizia, cioè delle ragioni della ragione, di cui si alimenta la sua scrittura. Da qui le ragioni di una scrittura che denuncia il potere, la degenerazione del potere.
Il 3 giugno 1973, Sciascia pubblica un’illuminante nota su La stampa, a proposito dell’anarchico Bertoli e della strage compiuta, davanti alla questura di Milano, in occasione della scopertura del busto del commissario Calabresi. Nell’articolo su La stampa, lo scrittore denuncia la criminalità insita nel potere, la presenza di un vero iperpotere occulto che, attraverso le stragi e la delegittimazione del potere ufficiale, serve a mantenere lo staus quo. Le considerazioni riportate in quell’articolo gli piacquero a tal punto che furono riproposte in Nero su nero (II: 730):
«Tutti gli avvenimenti delittuosi che si sono avuti in Italia negli ultimi anni e che appaiono rivolti contro lo Stato, il governo, lo status quo, l’autorità, le istituzioni, in realtà servono con l’inevitabile scompenso di una perdita di prestigio, a mantenere queste cose effettualmente in tutto, così come sono. Tutto è emanazione del potere e del potere e del modo di gestirlo: anche se coloro che sono al potere nulla ne sanno….Ciò vale a dire che in Italia c’è un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi».
Questo iperpotere, proseguiva lo scrittore, ha dato prova di sé a partire dalla strage di Portella della Ginestra (in provincia di Palermo, dove, il I maggio 1947, furono uccise 13 persone che si erano radunate per ascoltare il comizio di uno dei più grandi capi comunisti isolani: Girolamo Li Causi) con la morte di Giuliano e di Pisciotta
«Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere».
Lo scrittore elabora la teoria della contrapposizione dei poteri formulata nel dialogo tra due delle vittime sacrificali de Il cavaliere e la morte, il dottor Rieti, funzionario dei servizi segreti e il Vice:
«[…] C’è un potere visibile, nominabile, enumerabile; e ce ne è un altro, non enumerabile, senza nome. Senza nomi, che nuota sott’acqua. Quello visibile combatte quello sott’acqua, e specialmente nei momenti in cui si permette di affiorare gagliardamente, e cioè violentemente e sanguinosamente: ma il fatto è che ne ha bisogno… Spero che lei mi perdoni questa spicciola filosofia: ma non ne ho altra riguardo al potere […]. Si può sospettare dunque, che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: La sicurezza del potere si fonda sull’ insicurezza dei cittadini» (III: 442).
C’è un aspetto dell’attività di Sciascia che non è stato molto studiato e che invece andrebbe messo maggiormente in luce e riguarda la sua attività di parlamentare svolta a partire dal 1979 quando, a sorpresa, si candidò e fu eletto all’interno del Partito Radicale. Pannella volle che Sciascia diventasse capogruppo radicale a Montecitorio. Il 10 agosto 1979, lo scrittore, a nome del Partito Radicale, spiegò le ragioni del voto di sfiducia al costituendo governo Cossiga. Il discorso del cittadino Sciascia – sembra che riecheggi la precisione delle acuminate riflessioni di un Robespierre o di un Courier – è molto tagliente: Cossiga era stato Ministro degli Interni all’epoca del sequestro Moro, la sua Presidenza del Consiglio, nel momento in cui si sarebbe insediata la commissione Moro, di cui anche lo scrittore avrebbe fatto parte, con grande fastidio di comunisti e democristiani,
«[….] non può non suscitare legittima preoccupazione o suspicione […]. Tutto ciò che in questo paese è ingovernabile, eversione e criminalità principalmente incluse, risiede appunto nel modo di governare. Ed ho l’impressione, signor Presidente del Consiglio, che lei sappia bene, o che abbia a un certo punto saputo bene – e spero non l’abbia del tutto dimenticato – in che cosa consista l’ingovernabilità di cui parlo. Non si spiegherebbero altrimenti le sue dimissioni da ministro dell’interno, all’indomani del tragico scioglimento dell’affaire Moro… come cittadino ritengo che avrei avuto il diritto di conoscere le precise ragioni per cui lei si è dimesso, e ritengo di averne ancora il diritto, poiché lei non solo non si è ancora ritirato dalla vita politica, ma si affaccia oggi a presiedere il governo della Repubblica» [15].
Si tratta di un discorso stringato, privo di retorica, assolutamente letterario, del modo di intendere secondo ragione e diritto la letteratura, perfettamente in linea con quanto lo scrittore ha pensato ed elaborato nei suoi testi demistificatori: le ragioni della scrittura, di una scrittura di smascheramento dell’impostura, arrivano direttamente nella sede del potere politico della Nazione. Nella seduta del 26 febbraio 1980, l’autore del Giorno della civetta chiede che nella lotta alla mafia i controlli patrimoniali siano estesi
«[....] anche a noi che sediamo su questi banchi, a coloro che siedono sui banchi del Senato, a coloro che siedono nelle assemblee regionali o nei consigli municipali, non trascurando nemmeno certi funzionari e certi ufficiali che hanno il compito di prevenire e reprimere il fenomeno mafioso» [16].
Non rientra nell’oggetto di questo piccolo saggio l’analisi della scrittura del polemista, dei tanti colpi di spada assestati attraverso articoli che spesso hanno assunto la forma dell’affaire Sciascia [17]. Tuttavia non è forse fuori luogo soffermarsi sull’ultima polemica, non molto nota, sostenuta dallo scrittore nel marzo del 1989 sulle colonne del quotidiano La Stampa.
Sciascia polemizza con Luciano Canfora, autore del libro Togliatti e i dilemmi della politica, nel nome di Gramsci. L’oggetto del contenzioso riguarda una lettera scritta dal militante comunista Grieco, nel 1928, da Mosca e indirizzata a Gramsci, incarcerato dal tiranno fascista. Era chiaro che la lettera indirizzata ad un detenuto politico così illustre sarebbe stata sottoposta all’inquisizione giudiziaria del tribunale speciale fascista. Questa lettera, ritenuta autentica dal fondatore del PCI, quantomeno intempestiva, ne avrebbe potuto aggravare la già tribolata posizione giudiziaria. Canfora ritiene che la lettera sia stata una montatura organizzata dall’OVRA, la polizia politica fascista, per ordire un complotto ai danni di Gramsci. Sciascia con due interventi sulla Stampa del 17 e del 21 marzo, dopo aver puntigliosamente riletto alcune parti delle Lettere dal carcere, sottolineando che Gramsci riteneva autentica la lettera di un militante personalmente conosciuto – autenticità confermata dallo storico ufficiale del Partito Comunista, Paolo Spriano – smentisce la tesi di un complotto organizzato dall’OVRA: la lettera non è stata inclusa tra le prove a carico dell’onorevole Gramsci e il magistrato giudicante così allusivamente si è espresso [18]: «Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». Pertanto Sciascia arriva alla conclusione di una affinità tra il caso Gramsci e il caso Moro: ambedue abbandonati se non addirittura traditi dai propri partiti.
Fino all’ultimo, le ragioni della scrittura coincidono con la verità e con una visione eretica contraria ad ogni logica di potere. Sciascia si mostra attento e appassionato ammiratore gramsciano, anche se il suo primo intento è quello di stabilire una lettura anticonformista e veritiera dei fatti, anche se traspare tutta la sua ostilità nei confronti di una cinica e immorale real politik, anche se Moro e Gramsci vengono accomunati in uno stesso destino di martirio, appare evidente la diversità, la centralità del ruolo esercitato dall’intellettuale sardo.
«E non voglio fare un confronto tra le due figure in sé diversissime e di diverso ruolo nella nostra storia e nella nostra coscienza, ma tra l’affaire Gramsci e l’affaire Moro, nelle loro condizioni di prigionieri, c’è obiettiva rassomiglianza: in mano ai nemici, e abbandonati dagli amici. E peggio che abbandonati, anzi»[19].
La diversità a cui qui si allude non è frutto solo di una precisazione storica o di una distinzione ideologica, è il riconoscimento del peso morale e intellettuale svolto dal dirigente comunista: sulla figura di Moro, non si dimentichi il seguente giudizio molto caustico contenuto nell’Affaire Moro: «Né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il senso dello Stato» (II: 482).
Il 1989 è l’anno della morte e, significativamente, Sciascia conclude la sua esistenza, nel nome dei padri Pirandello, spesso citato in Una storia semplice, e Gramsci, ma rievocando anche le ragioni di una scrittura che parteggia per gli uomini soli e abbandonati, prigionieri della retorica di un potere spietato che obnubila l’intelligenza della ragione, omologando il sentire pubblico: e oggi, finita la dittatura fascista, finita l’egemonia culturale comunista, sono ben evidenti e tangibili le forme della tirannide più ipocrita e più asservita al potere, la tirannide dei nomi apparentemente inclusivi, degli intellettuali buonisti, una tirannide che lascia inalterata la condizione di disuguaglianza, il fascismo del politicamente corretto.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] M. COLLURA, Alfabeto eretico, Longanesi, Milano, 2002: 154-5
[2] Una breve legenda per quanto attiene alle abbreviazioni presenti nel testo: con l’indicazione I, seguita dal numero della pagina si fa riferimento a L. SCIASCIA, Opere (1956-71), vol. I, Milano 1987; l’indicazione II rimanda a L. SCIASCIA, Opere (1971-83), vol. II, Milano 1989; con l’indicazione III, si fa riferimento a L. SCIASCIA, Opere (1984-1989), vol. III, Milano 1991. Infine, l’abbreviazione S. M. rimanda a L. SCIASCIA, La Sicilia come metafora, intervista di M. PADOVANI, Milano 1979. La citazione presente nel testo si trova in III, 755.
[3] Cfr. la lettera indirizzata a Gian Carlo Prandstraller, inserita in, A. MOTTA, Leonardo Sciascia, La verità, l’aspra verità, Lacaita, Manduria (Le) 1985: 175: «[…] ho vissuto e vivo dentro una realtà pirandelliana: dentro un pirandellismo, per così dire di natura. Un giuoco di contrasti e di conflitti, di dilacerazioni, di crisi che anche nella mia famiglia ha avuto tragiche declinazioni. Mi sono sempre sentito come sospeso sul baratro dell’irrazionale, dell’assurdo: e da questa condizione ho tratto forza per tenermi alla ragione. Non senza disperazione in certi momenti della mia vita; e particolarmente nel momento del trapasso dall’adolescenza alla giovinezza, quando proprio attraverso Pirandello venivo scoprendo la realtà in cui vivevo».
[4] Cfr. A, GRAMSCI, Quaderni dal carcere, vol. III: 1670-2, a cura di V. GERRATANA, Einaudi, Torino, 2001 (Quaderno 14, Il teatro di Pirandello). «In realtà, non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia filosofico. È certo però che nel Pirandello ci sono punti di vista che possono genericamente riallacciarsi a una concezione del mondo, che all’ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica.. Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo filosofico, oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? Cioè la filosofia implicita è esplicitamente solo cultura ed eticità individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? E ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece la posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico?; 2) questi punti di vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?
Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, dialettale e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita super dialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale ed anche cosmopolita. Ora, pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare storicamente popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di intellettuali travestiti da popolani ma di reali, storicamente, regionalmente popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell’idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere dialettico e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare. […] Ma non mi pare che il problema culturale del teatro pirandelliano sia ancora esaurito in questi termini. In Pirandello abbiamo uno scrittore “siciliano”, che riesce a concepire la vita paesana in termini “dialettali”, folcloristici (se pure il suo folclorismo non è quello influenzato dal cattolicesimo, ma quello rimasto “pagano”, anticattolico sotto la buccia cattolica superstiziosa), che nello stesso tempo è uno scrittore «italiano» e uno scrittore “europeo”. E in Pirandello abbiamo di più; la coscienza critica di essere nello stesso tempo “siciliano”, “italiano”, ed “europeo”, ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello accanto al suo grande significato culturale».
[5] Per il rapporto di affiliazione di Sciascia verso il padre Gramsci, rapporto diuturno ben al di là degli anni 50-60. Cfr. B. PULEIO, I sentieri di Sciascia, Kalòs, Palermo, 2003: 121-34. Molti sono i punti di contatto tra i due isolani a partire dalla concezione del giallo come di una lavanderia delle paure ancestrali e metafisiche che Sciascia declina laicamente in una sorte di non giallo: si vedano gli Appunti sul giallo, pubblicati sulla rivista Nuova corrente nel 1954. Ma anche la raffinatissima Breve storia del romanzo poliziesco, inserita in Cruciverba (1983) contiene elementi riconducibili a Gramsci. Resta un punto di fondamentale divergenza: Sciascia fu sempre scrittore disorganico, anzi inorganico per usare una sua celebre definizione
[6] Il passo gramsciano viene integralmente citato da Sciascia in Pirandello e il pirandellismo (1953), III: 1028-9, e poi più sinteticamente in Pirandello e la Sicilia (1961), III: 1051.
[7] L. SCIASCIA, Un pirandellismo introvertito, introduzione a Gesualdo Bufalino, The Plague lower, ora in, Id. Per un ritratto dello scrittore da giovane, Adelphi, Milano 2000: 126. Pirandello dimostra «come il massimo di sicilianità coincida con il massimo della universalità».
[8] G. CARONNA, Paul Louis Courier, Pampblets, Edizioni della Battaglia, Palermo 2002. Molto dotta e curata la nota introduttiva, che ricostruisce la vita di Courier
[9] Diritto e ragione sono associate, nel nome di Rousseau, dall’avvocato palermitano Francesco Paolo Di Blasi, eroe vittima di ferocissima tortura ne Il Consiglio d’Egitto: «”Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu non resistessi… Alla domanda quid est quaestio? hai risposto in nome della ragione, della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa nei nervi” […]. Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla. Il suo corpo era un contorto tralcio di vite, una vite di dolore: grava di racimoli, incommensurabile. I racimoli di sangue, lo scuro dell’uomo. “Nella tortura l’uomo perde la nozione del proprio corpo: tu non lo riconosceresti più, il tuo corpo, nelle tavole del Vesalio, nella iatrapologia dell’Ingrassia; e tanto meno nella creazione d’Adamo che è in Monreale. Il tuo corpo non ha più niente d’umano: è un albero di sangue… Bisognerebbe farla provare ai teologi, ché finalmente capiscano che la tortura è contro Dio, che devasta l’immagine di Dio che è nell’uomo…» (I: 609).
[10] M. COLLURA, Il maestro di Regalpetra, Longanesi, Milano 1996: 181
[11] Cfr. A. MOTTA, Leonardo Sciascia. La verità l’aspra verità, Lacaita Mandria (Le), 1985: 394-416. Sul quotidiano socialista L’Avanti, Walter Pedullà imbastì una specie di processo a Sciascia “colpevole”, «bisognoso di un medico capace di guarirlo dai suoi malanni ideologici e linguistici». Su L’Unità, Napoleone Colajanni accusò lo scrittore di avere perso il senso dell’uomo e, dopo la difesa illuminata del comunista Guttuso che invitava, inutilmente, il partito a sentire la voce degli intellettuali, la pietra tombale su Sciascia fu posta da Emanuele Macaluso che accusava lo scrittore di aver screditato «la politica dei comunisti e della sinistra in chiave qualunquistica e antidemocratica».
[12] Il cinico ministro di polizia svela il suo progetto, condiviso anche da molti sedicenti rivoluzionari assettati di potere: «Il mio partito che malgoverna da trent’anni ha avuto la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale» (II: 59).
[13] VOLTAIRE, Dizionario Filosofico, Mondadori, Milano, 1974: 620
[14] VOLTAIRE, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli, Milano, 2014: 33
[15] Atti Parlamentari VIII legislatura, seduta del 10 agosto 1979: 1188-89
[16] Ivi: 10217
[17] Si potrebbe dire che tutta l’opera di Sciascia abbia un carattere scandaloso. Cfr. G. GIUDICE, Leonardo Sciascia, G. GIUDICE, Leonardo Sciascia, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 1999: 10: «Avviene spesso che una denuncia di un affaire divenga spesso un affaire Sciascia. Così fu per l’affaire Moro e così per le puntualizzazioni sull’“antimafia”. Lo stesso uso che fa della letteratura è scandaloso: un giallo in piscem, il mistero programmatico di certi suoi libri, come Il contesto e Todo modo, dove il testo si fa complice del mistero. Lo stesso successo dello scrittore è in ogni tempo un brillare di scandali. La militanza letteraria di Sciascia ha questa singolare natura».
[18] L. SCIASCIA, Gramsci e quella strana lettera da Mosca, in La Stampa, 17 marzo 1989.
[19] Ibidem
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Bernardo Puleio, insegna Lettere al Liceo Umberto di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: I sentieri di Sciascia (Palermo, Kalos, 2003); Il paradigma impossibile: nuovi saggi su Leonardo Sciascia (Palermo, Nuova Ipsa, 2005); Il linguaggio dei corpi straziati. Potere e semantica del potere nell’Italia del XVI secolo (Firenze, Clinamen, 2007). È redattore dei Nuovi Annali del Liceo Umberto I di Palermo.
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