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La “Volkskunde” tedesca postbellica e il pensiero di Gramsci sul folklore. In ricordo di Hermann Bausinger

Hermann Bausinger

Hermann Bausinger

di Luca Renzi 

Hermann Bausinger (1926-2021) è stato a lungo direttore del Ludwig-Uhland-Institut für empirische Kulturwissenschaft [1] dell’Università di Tübingen. La storia di questa istituzione, nata per precisione nel 1933, originariamente denominata “Seminar für deutsche Volkskunde” (divenne nel 1937 “Institut für deutsche Volkskunde”), rappresenta sintomaticamente la storia della Volkskunde durante e dopo il nazionalsocialismo. Questa disciplina, dagli aspetti ben poco scientifici e più che altro museali, era assurta nel 1933 a materia universitaria sull’onda dell’ideologia emergente: essa – che già prima aveva coltivato interessi rivolti alle differenti culture e a questioni legate alla loro evoluzione, anche in ambito europeo – era divenuta strumento per fini politici e propugnava la comunità del Volk. L’istituto resistette tuttavia anche alla caduta del regime e nel segno di una continuità  nel cambiamento esso divenne negli anni ’50 il “Ludwig-Uhland-Institut für deutsche Altertumswissenschaft, Volkskunde und Mundartforschung”.

Hermann Bausinger ne divenne direttore nel 1960. Con lui prese avvio quella che è stata definita la «riflessione critica sul passato nazionalsocialista e sulla sua preistoria, nonché sullo statuto tradizionale della disciplina» e la relativa apertura al nuovo carattere di scienza empirica del quotidiano, che si occupa non tanto di continuità storiche più o meno presunte, quanto di aspetti sociali e culturali del presente e con ciò rappresenta il superamento della concentrazione sulle culture superstiti e l’apertura alle culture plebee. In tal senso l’istituto di Tübingen, sotto la guida di Hermann Bausinger, diede impulsi notevoli allo sviluppo della disciplina della Volkskunde nel dopoguerra.

csm_innenaufnahme_001_d8efb372d4Lo studio del 1961 Volkskultur in der technischen Welt (Cultura popolare e mondo tecnologico) segnalava in tal senso il clima di rottura con l’eredità del passato e il lento spostamento in ambito sociologico della disciplina (testimoniato anche dalla sua collocazione universitaria nelle facoltà di sociologia e di scienze comportamentali): non era più dunque suo compito precipuo la rigida focalizzazione di tradizioni, quanto piuttosto la descrizione della loro trasformazione nel mondo moderno. Questo libro è quindi da considerare pietra miliare di questo processo di rottura: esso apriva nuovi orizzonti d’indagine, smitizzando antiche categorie, e al contempo polemizzava contro il carattere ideologico che attorno ad esse si era venuto a creare. Ciò che il libro, che avrebbe ben potuto intitolarsi anche in maniera invertita Mondo tecnologico nella cultura popolare, voleva dimostrare era il fatto che la cultura popolare è presente nella modernità non solo come relitto del passato o come scimmiottamento folkloristico, bensì coesistente con essa e spesso in un rapporto di osmosi.

L’allusione a Brecht all’inizio del presente libro, ove ci si chiede se la nozione di Bevölkerung non sia più congrua di quella di Volk alla realtà della società industriale, rappresenta il tentativo di Bausinger di ridefinizione di quel concetto e simboleggia già di per sé un approccio nuovo rispetto alle categorie passate, di tipo storico-dinamico e del tutto confacente a questo sviluppo, sebbene poi egli non accetti in modo definitivo questa trasformazione, preferendo modificare dall’interno il vetero-concetto statico di Volk.

Questa disciplina, che consistette per molto tempo di categorie statiche, o al massimo persistenti, dovette fare i conti con una revisione generale del suo approccio verso i fenomeni. Bausinger ha mostrato con questo libro aspetti tanto comuni quanto innovativi nella loro interpretazione: il fatto che al ‘popolo’ il modo di pensare tecnologico e innovativo non fosse poi così tanto ostico e che esso sviluppasse, in base a queste innovazioni, nuovi modi di percezione: ciò rappresenta infatti essenzialmente la dinamica di questo ‘mondo tecnologico’.

Anche attraverso il libro di Bausinger, avvenne dunque a Tübingen negli anni ’60 quella critica rielaborazione ideologica della storia della Volkskunde che condusse al superamento del suo precedente statuto. Il saggio di Bausinger intitolato Appunti sullo sviluppo della demologia nella Germania postbellica (uscito in Italia nella rivista “LARES” nel fascicolo 1, 2003) dava lucidamente conto di queste trasformazioni e del percorso seguito.

 

Biblioteca del Ludwig-Uhland-Institut für empirische Kulturwissenschaften

Biblioteca del Ludwig-Uhland-Institut für empirische Kulturwissenschaften

Esteriormente, a questa svolta corrispose l’apposizione di nuove etichette: nel 1970 l’istituto si congedò definitivamente dall’analisi della vita popolare con il volume che concludeva la lunga collana di studi dell’istituto ad essa dedicati, intitolato Abschied vom Volksleben. Si prese inoltre congedo da un concetto tanto pesante quanto pericoloso per la storia non solo della disciplina ma di tutta la cultura tedesca quale fu quello di Volk, concetto la cui definizione identificava le due ‘anime’ della tradizione della Volkskunde: quella illuminista e quella romantica. 

Se in epoca recente in Germania molti istituti intesero questo cambiamento d’attitudine con la pluralizzazione del termine in Völkerkunde (in ambito tedesco “etnologia europea”) e in altri casi in antropologia culturale, a Tübingen si scelse la definizione nuova e dirompente di Empirische Kulturwissenschaft. Bausinger ne fu per più d’un verso l’artefice e nel panorama degli studi demologici in Germania si parla oggi di EKW, cioé Empirische Kulturwissenschaften, intendendo innanzitutto la scuola di Tübingen.

Essa si concentra sullo studio di fenomeni storico-culturali del presente, non tanto scaturiti dalle classi alte, quanto facenti parte dei modi di vita delle masse. L’interesse è così rivolto all’ordine simbolico della vita quotidiana e ai suoi cambiamenti. I temi variano dallo studio etnografico a quello socioculturale ed ermeneutico. Nuovi temi si sono aggiunti, secondo le tendenze più recenti della disciplina: studi sui generi, ebraismo, corporeità, media, cultura della memoria, cultura pop, antropologia visuale. Quelli che oggi sono i temi più interessanti dei cosiddetti Cultural studies sono presenti per più d’un verso nello studio delle Empirische Kulturwissenschaften, la cui forza metodologica risiede nell’accesso etnografico, nella ricerca sul campo, nell’indagine sociale qualitativa, atto a produrre densi risultati descrittivi della cultura umana dalla prospettiva degli attori.

abschied-vom-volksleben-1986-coverBasti qui ricordare l’importanza delle Empirische Kulturwissenschaften nel panorama della tradizione e degli studi tedeschi da un lato e, dall’altro, il ruolo delle Kulturwissenschaften, nella loro particolare accezione tedesca, nel panorama del rinnovato interesse che gli studi culturali sembrano attualmente suscitare in Europa, Italia compresa. Di questo aspetto, soprattutto riguardo al recupero dello storicismo da parte della tradizione delle Kulturwissenschaften, si sono occupate recenti pubblicazioni, ove gli studi di matrice tedesca sono nominati in più occasioni, in particolar modo in riferimento ai loro padri più nobili: Cassirer e Warburg, anche – se non proprio contrastivamente – complementarmente al discorso sulla matrice anglosassone della tradizione degli studi culturali [2].

Un cenno va fatto in questo contesto all’importanza che, in questa tradizione di studi, ha il rapporto tutto tedesco fra Germanistik e Volkskunde che discende direttamente dalla tradizione grimmiana: basti qui ricordare il concetto di Volkspoesie, con particolare riferimento alle fiabe, e quello di Volksbuch e che aveva il suo progenitore già in Herder, nelle sue Stimmen der Völker in Liedern. Questo rapporto si evidenziava nelle radici filologiche degli studi letterari e nell’attenzione posta alla dimensione non testuale, vale a dire della memoria culturale, dei costumi, degli archetipi e a tutti i fenomeni di cultura materiale e mitologica. È stato giustamente posto in rilievo come questa tradizione abbia favorito le positive ricadute odierne, quale l’enorme successo della comparatistica, attraverso la combinazione di scienze del testo e etnografia. 

9789004457720Possibile inizio?

Qualcuno ha scorto nel rapporto fra Gramsci e l’antropologia in Italia un elemento costitutivo [3]. I Quaderni, la cui prima pubblicazione avvenne nel 1948 e dunque coincise quasi fatalmente – certo con grande coincidenza simbolica – con la promulgazione della Costituzione repubblicana, ebbero un ruolo non trascurabile nello sviluppo della nuova stagione dell’antropologia italiana, avvenuta ad opera di Ernesto De Martino. La Storia del mondo popolare subalterno di quest’ultimo, risalente al 1949, avviò un dibattito sui processi di mutamento a seguito dell’instaurarsi della democrazia in Italia, noto anche come dibattito su folklore. Così egli affermava: «È anzitutto evidente che nella misura in cui queste masse premono per entrare nella Storia, nella misura in cui vi entrano di fatto, nella misura in cui cessano di essere masse da padroneggiare, la cultura tradizionale non può più contentarsi di una semplice scienza naturale del mondo popolare e della sua cultura» [4].

Va detto che De Martino si fece promotore negli anni del dopoguerra degli studi demologici in senso stretto, anche se egli, come afferma Pietro Clemente, si collocò disciplinarmente negli studi etnologici, con distacco evidente dal folklore. Il nesso fra produzione culturale e processi di egemonia era individuabile nel concetto di ‘classe’, tuttavia ripensato come teoria dei rapporti di potere al di là della perdurante opposizione fra ‘tradizione’ e ‘modernità’. Similmente alla Volkskunde tedesca postbellica, il nuovo rapporto fra Volkskultur, o folklore, e mondo tecnicizzato è stato ripensato in funzione dell’evolversi socio-economico generale; la ripresa del concetto di classe appare funzionale ai nuovi studi sul quotidiano e ad un’analisi dei rapporti fra cultura e potere. In effetti per molti il nucleo dell’opera di Gramsci è costituito proprio dall’analisi intima del rapporto fra cultura e vita quotidiana e con esso il processo di ‘incorporazione’ che tende a ‘naturalizzare’ le culture nella vita quotidiana ai fini della creazione di consenso, su cui si fonda l’egemonia.

Il metodo di approccio di Gramsci alla cultura popolare ha prodotto per molti versi la diffusione negli anni ’80 dei Cultural Studies, con le annesse problematiche del ‘potere’ e dei rapporti fra cultura, società e politica. Il progetto di fondo dei Quaderni era di indagare l’unità organica di economia, politica, storia, politica economica nello specifico contesto italiano. Ciò era possibile frammentando l’ampiezza del progetto in unità minime, per cui Gramsci scelse di partire da alcuni temi specifici come la questione degli “intellettuali” e della “cultura popolare”. Il concetto di “senso comune” è il cuore della teoria gramsciana della coscienza popolare. Prodromici ad esso sono quelli di “egemonia” e “folklore”. L’egemonia è un concetto atto ad indagare i rapporti di potere; lo studio del folklore è un modo di scoprire le visioni del mondo dei subalterni, mentre in origine esso era stato studiato come elemento “pittoresco”. Da ciò ne discende quella nota definizione del senso comune come “filosofia”, anzi folklore ‘filosofico’ delle classi subalterne.

La categoria del folklore è emersa in Europa nell’800 ed è scaturita dalle medesime correnti politiche e intellettuali da cui è nata l’idea moderna di nazionalismo (colonialismo?). Chi nel secolo scorso e ancor più in quello precedente ha studiato e raccolto i dati del folklore lo ha celebrato come esperienza dello “spirito del popolo” secondo un retaggio romantico che ravvisava nel folklore un riflesso della “genuinità”, l’essenza dell’anima di una nazione, di credenze e usanze tradizionali diffuse tra la gente comune. L’unione dei concetti di “cultura subalterna” e di “folklore”, inteso secondo le sue parole come agglomerato ‘indigesto’, è fondamentale in Gramsci, passando per quello di egemonia. Gramsci non era incline ad alcuna sorta di romanticismo e anzi riteneva il folklore come qualcosa sostanzialmente da combattere. Per Gramsci il popolo è un insieme indistinto di classi, unite insieme dal dato della loro subalternità. Conoscere il folklore è dunque fondamentale per conoscere le restanti concezioni della vita e del mondo, eventualmente in un lungo processo storico da estirpare: in prospettiva si sarebbe dovuto giungere alla abolizione del distacco fra cultura popolare (o folklore) e cultura moderna, in un processo che Gramsci restrospettivamente arrivava a commisurare a ciò che era stata la Riforma protestante luterana.

image-6La concezione critica del folklore in Gramsci è per più di un verso da raffrontare con i presupposti metodologici della Volkskunde. La visione di folklore nello studioso sardo come elemento “pittoresco” in alcuni contesti è quella che induce al concetto negativo di “folklorismo”, mentre al contempo egli riteneva e concepiva la tradizione popolare come cosa “molto seria”, come giustamente ha rilevato Bausinger in occasione di una intervista data a chi scrive. Il rivolgersi di Gramsci, in ambito tedesco, alle fiabe grimmiane non sta in contraddizione con tutto ciò: egli ne ha in un certo modo ‘ricorretto’ la matrice, dedicandosi alle parti ‘oscure’ della tradizione e negandone il pittoresco. Gramsci si è misurato con affermazioni teoriche circa la “concezione del mondo e della vita” dei ceti subalterni che danno vita al folklore e caratterizzate da frammentarietà, disgregazione e disorganicità. Negli appunti folklorici troviamo riferimenti non solo teorici, ma esperienze pratiche di Gramsci come l’incontro con musiche popolari, fiabe, storie, processioni religiose e riti magici, canoni e proverbi: religione popolare, credenze, superstizioni, magia [5].

Fasi più recenti

In Germania nella disciplina della Volkskunde il periodo dal 1945 al 1960 si era caratterizzato più che per le innovazioni per un ritorno alle posizioni tradizionali, in particolare con un consistente riadattamento dei materiali raccolti nella lunga fase precedente. Se da un lato si poteva registrare sicuramente un senso di liberazione dall’avvenuta emancipazione dalla pesante sovrastruttura ideologica dell’era nazionalsocialista, dall’altro si poteva constatare l’ancora insufficiente consapevolezza del fatto che il pesante fardello nazionalista della Volkskunde, il senso della ‘tedeschità’ insito nella disciplina, proveniva da più lontano e la sua origine era da far risalire all’orientamento ideologico insito negli stessi materiali e originato dalla mitologia tedesca, dal romanticismo, dal senso di carattere e stirpe i cui modelli si desiderava rintracciare nei residui arcaici.

Dalle nuove ricerche storiche non ci si attendevano prove di una germanica continuità, né di pretese imperialistiche, ma semmai osservazioni particolareggiate sul mutamento culturale; le tradizioni venivamo individuate e raccolte come patrimonio ‘decaduto’. Tuttavia una nuova visione critica già si segnalava. Come si è detto, lo stesso bagaglio del Volk e le sue aggettivazioni e termini composti (Volkslied, Volksmärchen) facevano sì che parte dell’ideologia sopravvivesse seppure in maniera non consapevole in molte formulazioni e poneva l’intera disciplina in antitesi rispetto ad alcune più recenti constatazioni sulle dinamiche della società, che non agiscono secondo armonie sociali di una supposta tradizione popolare e tengono conto di evoluzioni sociali, per es. il dato eclatante, proveniente dall’ideologia marxista, ma non solo, secondo cui le manifestazioni culturali dei ceti sociali inferiori (subalterni) tendono a porsi in opposizione alla cultura dei ceti superiori (dominanti o egemonici).

Certamente la nuova presa di posizione critico-ideologica finì per dividere la demologia in settori stagni non comunicanti fra loro, interrompendo quegli studi tradizionali per settori demologici e rendendo la demologia una ‘cultura di protesta’ con il risultato di non vedere i fili e le interconnessioni fra cultura dominante e cultura subalterna; tale ignoranza fu manifesta per esempio nel campo delle credenze religiose.

Negli anni ’70 l’accento si sposta dalla critica ideologica alla sociologia, verso la quale un avvicinamento appare sempre più evidente nei metodi di rilevamento quantitativo; si temette che uno degli aspetti qualitativi di maggior peso della demologia, l’osservazione partecipante, andasse perduto a tutto vantaggio di metodologie nuove e non rispettose del campo di ricerca. Nuove terminologie nella definizione della disciplina testimoniano a sufficienza dell’inquietudine vissuta nel dopoguerra a proposito della vecchia nozione di Volkskunde, mentre d’altra parte proprio questa nozione garantiva una duttilità altrimenti impensabile nel definire associazioni, come nell’identificazione di stili architettonici tradizionali, colori, feste rurali o in costume. In alcune università si prese congedo dal vecchio concetto e si iniziarono a coniare nuove definizioni, quali Kulturforschung, Kulturanthropologie, Empirische Kulturwissenschaft, oppure – volgendo lo sguardo verso posizioni etnologiche – parlando di Europäische Ethnologie; tutto questo avveniva tuttavia senza mai recidere quel legame con i compiti e la tradizione della disciplina. Le problematiche disciplinari insieme a prospettive nuove del dopoguerra condussero a significativi cambiamenti nel solco di una tradizione ininterrotta.

md30887529249La ‘scoperta’ del presente attraverso lo studio dei fenomeni migratori coincise anche con una ricerca storica più accorta: non più temi orientati in senso positivistico, come singoli motivi, temi fiabistici, componenti tipiche della vita socioculturale come la tradizione dei ceti contadini, l’osservazione di villaggi, modi arcaici di pensare, bensì anche uno sguardo rivolto alla cultura borghese o proletaria e cittadina, alla incipiente razionalizzazione e meccanizzazione, a dispetto del fatto che molta parte della demologia diffidava dall’assumere come oggetto di studio le macchine e ogni altra ‘intrusione’ moderna. Ci vollero molti decenni, ancora nel ’900, per far comprendere l’importanza del rapporto della cultura popolare e dello studio folklorico con la tecnica.

Qui subentra una svolta importante che definisce il ruolo del folklore e dipana quella matassa spesso inestricabile che dà vita al concetto di folklorismo. L’entusiasmo dei ceti colti per l’arcaico e il selvaggio si è sovente riverberato su quella che si è creduta la conoscenza scientifica della cultura del popolo, intendendo con esso i ceti subalterni. L’affinamento della medesima cultura avrebbe costituito la civilizzazione. Al contempo ci si è spesso attardati a considerare in alcune epoche con una certa simpatia le manifestazioni grezze (grob) o naif delle forme espressive della popolazione contadina e così pure a considerare quelle della genuinità (Echtheit) come fattore importante della demologia. La discussione critica sulla genuinità e sulla continuità diede vita ad una svolta che segnò l’ingresso nella discussione della categoria del folklorismo (Folklorismus). Tale nozione conobbe rapida diffusione e divenne un metodo di demarcazione importante fra artificiale e genuino: il discrimine era complesso poiché era proprio la ricerca sentimentale del genuino e autentico a dar vita –   più o meno consapevolmente – all’invenzione e alla ricostruzione inautentica delle tradizioni.

In Germania svecchiare e epurare non fu l’unica operazione avvenuta nel dopoguerra riguardo alla Volkskunde rispetto allo scomodo passato nazionalsocialista, bensì si andò molto più indietro con un’operazione di revisione critica dello statuto e della tradizione di studi che affondava le sue radici negli inizi dell’800. Natura e funzione della Volkskunde subirono un riorientamento teso a sostituire l’idea di popolo quale idea collettiva vivente di nazione, definita nella quadruplice determinazione di Stamm, Sprache, Sitte, Siedlung. Ciò ebbe luogo con un evento fondante quale fu il congresso di Falkenstein del 1970 e, acor prima, negli approcci che lo stesso Bausinger ebbe con i primi sviluppi della sociologia in ambito tedesco del dopoguerra, che lo portarono a contatto con T. W. Adorno, Karl Popper e Ralph Dahrendorf. Nei “Falkensteiner Protokolle” che ne scaturirono la definizione finale così suonava: «La Volkskunde analizza la trasmissione dei valori culturali (inclusi le cause e i processi che li accompagnano) in modo soggettivo e oggettivo, al fine di contribuire alla risoluzione dei problemi socioculturali » [6].

La difficoltà nell’uso del metodo interpretativo derivante dal binomio popolare/genuino condusse alla trasformazione di maggior significato che si basa sulla dinamica folklore/folklorismo/critica al folklorismo. Da qui ne è disceso il carattere storico del concetto di tradizione, in contrapposizione a quello di modernità, opposizione tuttavia fittizia, come avrebbe dimostrato il testo di Bausinger del 1961 di forse maggior valore, Cultura popolare e mondo tecnologico. Qui egli polemizzò fortemente con molti dei preconcetti disciplinari, fra cui la radicale distinzione fra cultura popolare e mondo tecnologico. Si trattava di uno studio demistificante di alcune categorie aprioristiche della disciplina, di cui Bausinger rompeva la solidità e certezza: al contempo dimostrava al contrario il carattere adattivo delle tradizioni popolari rispetto ai processi di modernizzazione, soprattutto negli aspetti di applicazione della tecnologia al mondo e alla vita, sia nei modi di parlare, di socializzare che nei comportamenti. Cultura popolare e mondo tecnologico è considerato uno dei punti di svolta nella storia della Volkskunde in generale e non solo di Tubinga. Il libro, il cui primo capitolo è intitolato “Il mondo della tecnica come ambiente ‘naturale’”, sottraeva alla cultura popolare, come delineava Bausinger stesso, «quell’apparenza di ‘tradizione incontaminata’» [7] alla quale ci si riferisce attraverso l’uso di termini quali ‘originale’, ‘vero’ e ‘autentico’ [8]. Lo studio del 1961 suscitò un acceso dibattito. Nella introduzione alla seconda edizione del 1986 Bausinger andava ancora oltre nel definire il rapporto di osmosi fra mondo tecnico e cultura tradizionale, affermando che ogni costrutto del folklore deve la sua genesi alla forza di composizione del moderno: il tradizionale esiste solamente in funzione del moderno, da cui una forte attenzione alla categoria del folklorismo, ma definendo tale univoca reciprocità quasi alla stregua di quanto Said aveva affermato a proposito dell’Orientalismo, come Non-Occidente appunto.

L’anima del canone e quella della storia sociale hanno convissuto nella Volkskunde del dopoguerra, tenute entrambe in piedi da una doppia dedizione alla Altertumsforschung e alla Kulturanalyse, toccando estremi che vanno dalla Volkspoesie allo studio degli oggetti quotidiani, come gli abiti e i cibi, ove Bausinger è stato fortemente tentato di dar vita ad un folklore ‘sociale’. 

61fshx-n3lGramsci e la Volkskunde

Leggendo il saggio di Pietro Clemente posto come postfazione alla edizione italiana di Cultura popolare e mondo tecnologico [9], egli descrive con dovizia e riscontri chiari il panorama di studi demo-etnologici italiani del dopoguerra e come in Italia si sia avuto un forte movimento postbellico a favore dell’entrata nel campo culturale dei ceti popolari, il cui riflesso maggiore a livello mondiale fu senz’altro il cinema del Neorealismo e raccolte come quelle di Calvino e di Pasolini. Ciò fruttò da un lato il nuovo specialismo demo-etno-antropologico e un ruolo di riferimento lo ebbe il marxismo di Antonio Gramsci. Le pagine di questi sul folklore, oltre che le sue riflessioni sull’organizzazione e sulla trasformazione culturale dei gruppi sociali subalterni, sono state alla base degli studi degli anni ’60. Ma il salto qualitativo della demologia italiana avviene assai in ritardo: negli anni ’80 il quadro delle ricerche vedeva una netta prevalenza delle forme dell’alterità, quindi arte popolare, religione popolare, i culti, le fiabe, i canti, la musica, e di contrasto una scarsa attenzione ai contesti innovativi e urbani. In tal senso la riflessione gramsciana si può dire avesse agito solamente ad un primo stadio e aveva mancato di dar vita a quel modello di ‘sociologizzazione’ della demologia come era avvenuto in Germania. Alcuni studi tuttavia tesero a leggere il ‘magico’ entro la cultura urbana e industriale, sottraendosi a questo quadro di ritardo. Già De Martino aveva modificato criticamente l’atteggiamento degli studi romantico-positivisti sul folklore, rifiutando anche di affidare ad esso l’etichetta di un determinato filone di studi. Probabilmente fu Alberto Cirese ad elaborare attraverso le opere di Gramsci un concetto relazionale di cultura popolare [10] in cui vengono presi in esame il “folklore come studio dei dislivelli interni di cultura delle società superiori”, anche se poi egli costruisce una demologia centrata sul tradizionale, sull’arcaico, su un mondo contadino che resiste alla modernità. Il più chiaro tentativo di Cirese di analisi del presente è stato forse il suo Tradizioni popolari e società dei consumi del 1971.

Questa analisi storico-dinamica del folklore, il carattere relazionale, mobile e socialmente definito è ciò che accomuna gli studi italiani di De Martino e Cirese e probabilmente li rende fra i più vicini alla demologia tedesca, compreso il rifiuto di una linea arcaicizzante della tradizione, salvo il fatto che per un complesso reticolo di motivi storici e ideologici gli studi italiani accumularono su molti versanti un ritardo, rimanendo perlopiù concentrati sulle forme dell’alterità, rispetto a quel discrimine fondamentale che in Germania fu l’avvicinamento degli studi folklorici al tema della società tecnicizzata. In ciò nulla va tolto all’assoluta specificità degli studi italiani, partendo dai due grandi studiosi già nominati, per passare a nomi come Cocchiara, Carpitella, Gallini, Rossi, Buttitta, Di Nola, Lombardi Satriani fino a Bosio e a Clemente e con la messa in rilievo di un nucleo demartiniano di valorizzazione e superamento dell’arcaico dei riti magici, che può essere ripensato intorno alle tecnologie ma che, nel dato oggettivo, ha rappresentato e definito sacche di resistenza del popolare rispetto al moderno.

Pietro Clemente ha lamentato, con grande acume autocritico, il ‘blocco ideologico’ di stampo marxista negli studi folklorici dell’Italia degli anni ’50 e poi in seguito, che non permise di attingere pienamente all’analisi del presente in virtù di quel preconcetto che voleva la classe operaia patrimonio esclusivo del Partito comunista e della annessa storiografia e sociologia. Tale dato portò ad un eccesso di studi sulle classi ‘residuali’ e su temi come quelli dell’alimentazione tradizionale, sugli amuleti, le fiabe e gli oggetti di culto piuttosto che sui beni di consumo e sull’impatto dell’industrializzazione sulle classi lavoratrici.

frammenti-indigesti-temi-folclorici-negli-scritti-antonio-b627a84b-ea62-4722-a40a-bfe89ae14ddaIstituendo un ponte ideale

Come si dispiega e si giustifica in questo panorama il pensiero gramsciano rispetto alla Volkskunde? Premesso che dal punto di vista teorico non sono registrate interazioni significative fra la Volkskunde e il pensiero gramsciano, o perlomeno non in termini presi in esame attraverso studi, vi è da considerare da un lato l’importanza sempre maggiore attribuita in sede di studi italiani (ma anche nordamericani) a quelle annotazioni sul folklore di Gramsci contenute nei Quaderni, dall’altro le forti analogie riscontrabili nelle premesse della riflessione gramsciana sui temi della cultura popolare, in parte senz’altro da far discendere da una forte – per quanto non sospetta propensione di Gramsci ad alcune tematiche tedesche (traduzione dei fratelli Grimm), fino anche ad un’intervista fatta da chi scrive a Hermann Bausinger di alcuni anni fa, secondo il quale «la valutazione che la sua [di Gramsci] concezione critica del folklore è da paragonare alle nostre [del Ludwig-Uhland-Institut] premesse» sarebbe da condividere. In quell’intervista Bausinger così continuava:

«il folklore viene concepito come elemento pittoresco. Questa è la prospettiva che ha condotto al concetto negativo di folklorismo, mentre al contrario per Gramsci la Volkstradition è cosa molto seria. La sua dedizione alle fiabe grimmiane non è in contraddizione con quanto sopra detto; egli ha in parte ‘depurato’ e modificato le storie, si è soprattutto dedicato agli aspetti oscuri della tradizione, e perciò anche qui ha rinnegato l’elemento pittoresco»[11].

In Gramsci, come commenta Giovanni Boninelli [12], il pensiero antropologico era usato quasi esclusivamente in senso naturalistico (il termine “antropologia culturale” si svilupperà solo negli anni ’60) e la sua terminologia appariva ancora varia e mobile: fra i vari termini si trovano quelli di ‘cultura popolare’, ‘esperienza popolare’, ‘tradizione’ e ‘spirito popolare’. Proprio due di questi termini lasciano intuire un risvolto semantico che lega i suoi studi anche come ispirazione ‘inconscia’ o indiretta ad una matrice tedesca, Volkskultur appunto o anche l’herderiano Volksgeist la cui estrazione romantica doveva indubbiamente essere nota al Gramsci traduttore delle fiabe grimmiane. Già negli anni ’20 in Gramsci è centrale l’interesse per la cultura materiale e le scarne paginette delle Osservazioni sul folclore degli anni 1929-1935 hanno rappresentato ‘a posteriori’ la base di una rifondazione delle discipline folkloriche al pari di come la Empirische Kulturwissenschaft (EKW) di Bausinger ha rappresentato il perno di svolta della Volkskunde tedesca del dopoguerra.

Il pensiero di Gramsci volle considerare la cultura popolare non come ‘ristretta’ in generi o forme, bensì in maniera fluida e secondo gli usi in contesti pratici: modernità non è intesa come un “tritatutto” [13], ma va di pari passo alla memoria e nei Quaderni Gramsci ha talora accostato il concetto di folklore a quello di senso comune (nota è la proposizione: «Il senso comune è il folclore della filosofia»). Nelle Osservazioni egli parla di “frammenti indigesti” ove il concetto di folklore assume una doppia valenza: retaggio del passato da un lato e radicamento locale della cultura dall’altro. Da questa doppia valenza si dipanano due ‘letture’ gramsciane, quasi contrapposte e che in tempi diversi e sotto luci storiche e ideologiche di diversa natura hanno dato vita ad interpretazioni divergenti. In effetti Gramsci evitò di utilizzare il termine ‘folklore’ per non inficiarlo attraverso la colorazione di ‘idilliaco’ e di ‘pittoresco’ rendendolo astratto dai contesti reali e dalla determinazione sociale. Ad un certo livello si può pensare che quando Gramsci parla di folklore intenda proprio tale aspetto d’analisi, fossilizzato e museale, come praticato dalla Volkskunde tedesca fino agli anni ’40, mentre in contrappunto si può parlare di “cultura popolare” come concetto vivo e storico.

Se il folklore dunque è sottratto alla storia, la cultura popolare è di contro in continuo sviluppo e movimento (e qui è doveroso il richiamo al libro di Bausinger). Proprio nella prima stesura delle Osservazioni si parlava a tal riguardo non a caso di “agglomerato indigesto”, al pari di rappresentazioni fossilizzate e agiografiche. Ma per Gramsci il folklore fu anche funzionale a stabilire e accertare lo ‘scarto’ fra classi dominanti e subalterne: è la cosiddetta tesi, coltivata da Cirese, dei dislivelli. Talvolta Gramsci fa uso del termine ‘folkloristico’ per indicare ciò che è ‘provinciale’, cioè il processo di folklorizzazione in ambito locale, vale a dire del bieco anacronismo, sovente in ambito italiano caratterizzato da pose melodrammatiche. Non a caso, in carcere Gramsci suggerì un modo innovativo di studiare e interpretare il folklore ed esso viene definito come «concezione del mondo e della vita di determinati strati sociali» [14]. Per Cirese, appunto, che accolse questa tesi, gli studi gramsciani sono stati di una tale radicale rifondazione della tradizione di studi folklorici, ribattezzata come demologia, che noi possiamo concepirli al pari della Volkskunde della scuola di Bausinger ribattezzata Empirische Kulturwissenschaft: entrambi lasciarono alle loro spalle l’idea romantica di popolo, la visione museale, statica, arcaica. Certo con la differenza che Cirese poneva al centro delle nuove discipline le categorie di egemonia e subalternità, ignorate dalla Volkskunde.

Si può affermare a proposito della Volkskunde come a partire dal 1970 l’accento venisse posto sull’aggettivazione culturale nelle «dimensioni della vita quotidiana, del traffico sociale e del mutamento degli stili di vita, quindi l’opposto di una concezione grimmiana e herderiana»  [15]. Parimenti in Germania la Volkskunde tradizionale non aveva avuto un approccio alla cultura di massa sorta in seguito alla industrializzazione [16]: in tal senso essa fallì nel suo proposito di comprendere la cultura popolare nel suo significato più ampio e moderno, ovvero la cultura di massa oggettivata dalla nuova analisi sociologica già a partire da Adorno e Horkheimer e definita anche come ‘industria culturale’. Ciò fu invece l’atteggiamento della EKW di Tubinga che pose come oggetto di studio tale cultura di massa a scapito di una cultura puramente d’élite. L’interpretazione e la lettura del quotidiano, dello Alltag, diviene scopo precipuo di una Volkskunde illuministica e illuminata, che richiede complessità ermeneutica e un apparato sociologico complesso: si tratta di una realtà quotidiana non idealizzata, completamente scevra da aspetti folkloristici e tuttavia, nonostante l’apparente banalità, del tutto rispondente alla nascente strutturazione e complessità delle possibilità della vita moderna.

Pietro Clemente ha criticato come neppure in Italia tale processo ebbe luogo: «l’idea di cultura popolare aderì a quella di folklore e non a quella di cultura di massa, lasciando in genere alla sociologia l’analisi della trasformazione» [17], e forse qui si può porre come discrimine fra il prima e il dopo un ampliamento delle teorie gramsciane sulla cultura popolare. La teoria dell’arcaico, che in Germania aveva ritardato prima lo sviluppo della Volkskunde e aveva causato una sua degenerazione verso le teorie del nazionalsocialismo, in Italia per fronti opposti aveva ugualmente ritardato – seppur molto dopo – lo sviluppo della demologia verso interessi sociologici. Se nel 1929 Gramsci aveva considerato il folklore semplicemente come “concezione del mondo” di determinati strati sociali, esclusi dalle moderne correnti di pensiero, in lui vi è già il dato molto innovativo della concezione del mondo. L’innovazione decisiva, nel testo del 1935, è quella che Gramsci chiama la ‘connotazione’, ossia la connessione fra condizione socio-economica e socio-culturale. Se nel 1929 il folklore è un comportamento retrivo, nel ’35 esso diviene il corrispettivo culturale di una condizione sociale.

Nelle note sul folklore Gramsci parla di questo – come si è detto – nei termini fino allora acquisiti di elemento ‘pittoresco’, mentre evidenzia la necessità di approcciarsi ad esso come ‘concezione del mondo e della vita’, ove la concezione del mondo risulta nello stadio di sviluppo attuale considerato da Gramsci ancora come un “agglomerato ‘indigesto’ di frammenti” (qui si dipana la materia che sarà poi affrontata in maniera più o meno sistematica da Gramsci del rapporto fra folklore e concezioni ‘ufficiali’ del mondo). Ma cosa sono questi frammenti ‘indigesti’? In essi perlopiù possiamo ravvisare proprio il mondo e la cultura popolare, la religione popolare, le credenze, le superstizioni e la magia, cui vanno aggiunti altri fenomeni limitrofi quali i proverbi, i modi di dire, le narrazioni, i canti popolari, il teatro popolare e quello dialettale, verso i quali Gramsci si misura soprattutto in rapporto alla sua Sardegna [18]. La definizione che Gramsci dà del “folklore” nelle Osservazioni è la seguente:

«Concezione del mondo, non solo non elaborata e sistematica, perché il popolo (…) non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, (…) se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia».

9788815265609_0_464_0_75La definizione di ‘canti popolari’ di Gramsci [19] è sintomaticamente non solo analoga, ma fitta di parallelismi con quelle definizioni provenienti dal Romanticismo tedesco (Volkslied…) che poi matureranno in sede teorica sia nella Volkskunde tedesca postbellica, sia nella riflessione gramsciana, per es. nelle successive classificazioni di canti popolari: a) composti per il popolo, b) per il popolo ma non dal popolo, c) né dal popolo né per il popolo.

Sebbene sembri qui di ritrovare in tali classificazioni le categorie di uno Joseph Görres a proposito dei Teutsche Volksbücher, tipiche di un nazionalismo romantico, ciò deriva da una questione lessicale e non deve trarre in inganno, poiché infatti Gramsci tendeva a ridurre tutti i canti alla terza categoria proprio in virtù di quella incapacità di riflessione del popolo, quindi rapportandone la produzione ad un dato non più folklorico, ma prettamente folkloristico.

Nelle Osservazioni del 1935 [20] Gramsci si spinse addirittura nelle ultime righe ad affermare un parallelismo fra insegnamento del folklore e la Riforma dei Paesi protestanti, promuovendo e facendo anticipare il folklore, che null’altro sarebbe agli occhi di Gramsci che la cultura popolare, rispetto alla cultura moderna, con una presa di consapevolezza del proprio ruolo. Nel 1932 egli ancora annotava: «Raffaele Corso [21] chiama il complesso dei fatti folclori(stic)i una ‘preistoria contemporanea» [22] e metteva nel medesimo rapporto esistente fra arti maggiori e arti minori quello fra folklore e cultura dominante. Alla fine Gramsci tuttavia tendeva ad affermare che nulla vi è di più contraddittorio e frammentario del folklore e relativizzando il concetto di ‘preistoria’ relativamente al folklore egli affermava che esso è per lui più ‘mobile’ e ‘fluttuante’ della lingua e dei dialetti, instaurando così un ulteriore presupposto, di ordine linguistico, nella sua analisi.

Vorremmo qui infine far presenti alcuni elementi di riflessione in ordine ad aspetti terminologici e concettuali. Il caso più esemplificativo è il termine folklore, di cui andrebbe limitato al minimo l’uso, proprio per via di quel portato semantico che ne devia il senso e vi appone un giudizio di valore: senza tale portato si sarebbe stati tentati di tradurre lo stesso concetto di Volkskultur come folklore, come d’altronde avviene in inglese con il termine Folk Culture. A titolo esemplificativo un esempio indicativo di una falsa (o deviante) ricezione è il termine tedesco Heimat.

Il termine Heimat è notoriamente di precaria e impervia traduzione per cui la sua aggettivazione potrebbe facilmente essere resa con nazionale (e per conseguenza patriottico o patrio) altrettanto che con regionale, locale essendo la collocazione semantica di Heimat fortemente legata, e storicamente condizionata, al localismo e al federalismo tedesco, per cui patria è sempre il campanile, il Land, ovvero Staat, a differenza del Vaterland, che rappresenta la ‘patria’ tutta, Deutsches Vaterland, appunto (ecco perché in un suo recente libro divulgativo di grande diffusione, Typisch Deutsch, Bausinger parla di Nationalgerichte, intendendo le culture culinarie delle diverse regioni tedesche. Come viene colà spiegato in una nota del traduttore, nazionale in quanto luogo ‘natio’, da unire a patriottico, benché termini pressoché ridondanti, è sembrata per motivi di chiarezza la soluzione più opportuna).

Altri esempi si potrebbero addurre: si pensi ai concetti di Sitte e di Brauch. Essi vengono spesso – anche nella nostra lingua – nominati in un sol fiato: usi e costumi. Ma esiste la distinzione, molto sottile, fra sfera dei comportamenti etici e dei comportamenti di routine, da cui anche il tedesco sittlich. Su questa linea si potrebbe continuare e disquisire sulle sfumature delle varie aggettivazioni di Volk e di Volkskunde: volkstümlich, volkhaft, völkisch, volkskundlich e delle rispettive rese in italiano.

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
 Note
[1] Un’ottima introduzione alla tematica delle Empirische Kulturwissenschaften è offerta dal saggio di N. Squicciarino, Hermann Bausinger e la ‘scienza empirica della cultura’. Cenni su un innovativo percorso scientifico a Tubinga, in: LARES, Anno LXXVII – n. 2 – 2011. A questa pubblicazione e a quella di F. Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Bologna 2018 mi richiamo per parte del contenuto del presente saggio. La parola tedesca Volkskunde viene di solito tradotta con ‘demologia’, qui si è tuttavia preferito lasciare il termine tedesco. Vedi a tal riguardo N. Squicciarino, op. cit., nota 1: 219 e quanto riportato da P. Clemente in Oltre l’orizzonte, in: H. Bausinger, Cultura popolare e mondo tecnologico (Volkskultur in der technischen Welt, Campus, Frankfurt a. M. 20053), a cura di L. Renzi, ETS, Pisa 20202: 250, nota 1. 
[2] Cfr. C. Lutter e M. Reisenleitner, Cultural Studies. Milano 2004, in part. Introduzione all’edizione italiana di M. Cometa, ivi: XI seg.
[3] Cfr. G. Pizza, pref. a K. Crehan, Gramsci, cultura e antropologia, Lecce 2010: 8.
[4] Cfr. E. De Martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in: “Società”, a. V, 1949, n. 3: 411-435.
[5] Il “fatto religioso”, come Gramsci ebbe a dire, è stato un elemento importante nella sua elaborazione intellettuale. Ancor prima di ogni altra elaborazione sistematica, vi è l’osservazione empirica che individua il momento religioso come fatto sociale. Gramsci considera aspetti disparati relativamente alla religione, come la credenza popolare nel fenomeno dei miracoli (vedi gli articoli su S. Antonio e Santa Settembrina). Attraverso la nozione di ‘senso comune’ Gramsci instaurò un rapporto fra strati sociali, distinti fra egemonia e subalternità, e le categorie di folklore, filosofia e religione. Gli estremi di questa ideologia sarebbero da un lato il folklore, come concezione del mondo delle classi subalterne, e la filosofia come ordine intellettuale delle classi egemoni, in tale quadro la religione è apparentata al folklore. Nel corso del 1916 Gramsci aveva composto tre articoli che mettevano in luce aspetti legati a pregiudizi e forme di superstizione presenti a Torino. I fenomeni miracolosi e magici, le superstizioni, sono rapportati ad un determinato, drammatico, periodo storico quale fu la guerra mondiale ed essi si sono disvelati come meccanismo di difesa e rassicurazione.
[6] W. Brückner (a c. di), Falkensteiner Protokolle. Frankfurt/M. 1971.
[7] Cfr. H. Bausinger, Premessa alla nuova edizione, in Cultura popolare e mondo tecnologico, cit.: 32.
[8] Cfr. N. Squicciarino, op. cit.: 237.
[9] P. Clemente, Oltre l’orizzonte, cit.
[10] Cfr. A. Cirese, Culture egemoniche e culture subalterne del 1972 e Dislivelli di cultura, del 1965, apparsa in forme diverse come dispensa dal 1961-62 e ristampata in diverse edizioni.
[11] Cfr. Lettera di H. Bausinger del 2.11.2013 [TdA].
[12] Cfr. G.M. Boninelli, Osservazioni e descrizioni: Gramsci e l’antropologia, in: LARES, Anno LXXIV – n. 2, 2008: 429.
[13] Cfr. G. Baratta, Gramsci ci ha insegnato a ragionare sul mondo, in «Liberazione», 27 aprile 2007. Cit. da F. Dei, Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli studi folklorici, in: Lares, Anno LXXIV – n. 2, 2008: 453. Su Gramsci e il folklore e in generale sulla nozione di cultura popolare negli studi antropologici italiani si veda lo studio di F. Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, cit., ed in particolare il terzo capitolo dello stesso che riprende e amplia il suddetto saggio.
[14] Cfr. A. Gramsci, Quaderno 11 (XVIII) § (12).
[15] Cfr. A. Simonicca, in Lares LXIX, 1, 2003: 147.
[16] Cfr. N. Squicciarino, op. cit.: 254.
[17] Cfr. Oltre l’orizzonte, cit.: 258.
[18] Cfr. G.M. Boninelli, Frammenti indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci. Roma 2007.
[19] QEC, 679-680.
[20] QEC, 2315.
[21] Etnografo e ‘demopsicologo’ all’università di Palermo e poi di Napoli durante il fascismo. L’opera più importante del Corso è il volume del 1923 Folklore-Storia-Obietto-Metodo (Napoli 1923). Da: Dizionario Biografico degli Italiani. Volume 29 – 1983.
[22] QEC, 1105. 

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Luca Renzilaureatosi nel 1990, dal 1991 al 1994 è stato lettore di lingua italiana presso l’università di Tübingen. Ha conseguito nel 1998 il dottorato in germanistica presso l’università di Pavia. Dopo soggiorni presso le università di Tübingen e di Basilea, ha conseguito nel 1999 una borsa post-doc presso l’École normale supérieure di Parigi, Institut des Textes et Manuscrits Modernes. Dal 2001 è stato prima professore incaricato presso l’università dell’Aquila, in seguito ricercatore universitario di Letteratura tedesca presso l’Università di Urbino. A partire dal 2005 ha tradotto e curato l’edizione italiana di diversi volumi dell’antropologo e studioso della cultura materiale Hermann Bausinger. Dal 2016 è professore associato. Ha tenuto corsi come visiting professor nelle seguenti università: Tübingen, Freiburg, Strasburgo, Bruxelles, Glasgow, Galway, Stettino, Budapest, Valenciennes. È membro della Associazione Italiana di Germanistica (AIG), della Internationale Alfred-Döblin-Gesellschaft e della Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wissenschaft e fa parte del comitato di redazione di Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne.

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