“I love Sciascia”, squillò con un sorriso di simpatia la studiosa libanese di Oxford quando comprese che ero un italiano di Sicilia. Ci trovavamo, in quel gennaio 2016, con un bel gruppo pensante attorno al braciere nel meraviglioso giardino dell’hotel Jobner Bagh 47 dell’amico Shiva Gujar, a Jaipur, nel Rajasthan dei maraja, assieme ai compagni di viaggio Oscar Guarnaccia e Rita Mazzarino. Un giardino che nel dopo cena attirava una serie di artisti e intellettuali d’Occidente, richiamati dall’accoglienza e non solo dalla buona cucina. Nada Chaldecott, storica dell’arte indiana e dell’Islam, annunziò che avrebbe allestito di lì a poco una mostra sull’editoria italiana al British Museum, con uno spazio riservato proprio allo scrittore di Racalmuto.
Vorrei con questa immagine indiana aggiungere una conferma personale: pochi dubbi che Leonardo Sciascia sia autore del Novecento tra i più tradotti e apprezzati in Europa. Il curatore dell’opera omnia per Adelphi, Paolo Squillacioti, spiega che “la vera fortuna estera di Sciascia cominciò… con l’uscita del suo romanzo più fortunato, Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), tradotto in Francia nel 1962, l’anno successivo negli USA (col titolo infelice di Mafia vendetta), e quindi in Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Svezia”.
È stato un fiorire di appuntamenti, iniziative, di ristampe e nuovi saggi nel centenario della nascita appena trascorso, a riprova che il “maestro di Regalpietra” si è salvato dalla quasi scomparsa del ‘900, il secolo breve, dall’odierno orizzonte letterario. Tra i libri editi, segnaliamo per cominciare Il tenace concetto, Rogas edizioni, del nipote regista Fabrizio Catalano (coordinatore degli appuntamenti dell’anno), in collaborazione con i sociologi Alfonso Amendola ed Ercole Giap. Zolfo, dell’editore di Racalmuto Lillo Garlisi, ha dato alle stampe Dalle parti di Leonardo Sciascia, di Salvatore Picone e Gigi Restivo, un volume che descrive la vita dello scrittore attraverso i suoi luoghi d’elezione. In Sicilia con Leonardo Sciascia (Perrone editore) è il lavoro di Antonio Di Grado, direttore letterario della Fondazione, a quattro mani con Barbaro Distefano. Sciascia l’eretico (Solferino Libri), libro uscito un anno prima, è firmato dal giornalista Felice Cavallaro, l’inventore della “Strada degli scrittori”. Ricordiamo infine, che è di questa opera che vogliamo occuparci, Taccuino del centenario (Istituto Poligrafico Europeo), del saggista e critico letterario di Repubblica Palermo, Marcello Benfante.
Eretico e soprattutto profeta, perché le sue previsioni si sono tutte avverate nel corso del tempo, Leonardo Sciascia ritorna con gentile prepotenza sotto i riflettori della critica letteraria e dei suoi esegeti, ma non sappiamo se e quanto sia ancora patrimonio delle nuove generazioni di lettori. C’è infatti una cesura, una distanza antropologica siderale tra il nuovo secolo e l’altro – proprio quello concluso da poco più di vent’anni – che forse non trovano paragoni nella storia recente dell’umanità. Il secolo delle nevrosi e delle due guerre mondiali, il secolo delle rivoluzioni proletarie, delle dittature e dei fascismi al potere (Italia, Spagna, Portogallo), il Secolo breve che ha incubato la più grande delle trasformazioni del vivere umano – il digitale – è stato, più di altri, un grandioso laboratorio di mutamenti sociali e di invenzione e sperimentazione in tutte le arti, nessuna esclusa, dalla musica all’architettura, verso ogni punto cardinale e oltre, in ogni segmento del pensiero, un secolo affollato di maestri supremi che hanno toccato il cielo e non solo con un dito. La genialità verticale e solitaria ha ceduto oggi il posto al lavoro corale, alla ricerca in équipe. Il deus ex machina si è estinto a favore del collettivo. Nel cinema come nel giornalismo, nelle arti figurative, in letteratura come nella filosofia. Cosa resta dunque del Novecento?
Restano, per dirla in breve, esemplari modelli di completa e lucente maestrìa di scrittura e di etica collettiva, resta il ricordo di un clima culturale dove i talenti nazionali si riconoscevano a prima vista e alle prime parole – e bastava anche il dettaglio calligrafico in una lettera per riconoscere il vero scrittore – si sostenevano a vicenda con incoraggiamenti, offerte di prefazioni e persino con aiuti economici, si aprivano l’un l’altro la strada verso la pubblicazione.
C’è una famosa serie di foto autoriali, scattate da Giuseppe Leone alla Noce, la casa di campagna di Leonardo – che Benfante traduce in una partitura letteraria – e tra queste il grande ritrattista ragusano, che oggi ha 85 anni, raffigura prima il sorriso, poi la risata irrefrenabile del trio degli ultimi grandi scrittori siciliani, tre paesani di Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso, tre paesani di respiro europeo, Sciascia, Consolo e Bufalino, accomunati dal pessimismo storico e dalle invenzioni letterarie. Leone spiega in un’intervista recente a Concetto Prestifilippo, altro paesano piazzese ma anch’egli intellettuale curioso e scopritore di primizie, che quelle foto rappresentano non solo la fine di uno speciale sodalizio, da lì a qualche anno con la morte di Sciascia, ma soprattutto, e con il medesimo allegro pessimismo degli scrittori ritratti, la fine del Novecento letterario. È dunque senza eredi il lascito di questa irripetibile stagione culturale? I nuovi scrittori sono tutti impegnati a intrattenere o divertire i lettori?
Vediamo la questione più da presso. Nel suo Taccuino, Marcello Benfante confessa subito di aver vissuto a “pane e Sciascia”. «Come giornalista, come critico e credo, in una certa misura, anche come uomo». Atto di autocoscienza pubblica e impegnativa, di una discepolanza morale e intellettuale che segna una vita intera. Già nel 2009, in occasione del ventennale della scomparsa del maestro, Benfante aveva dato alle stampe i suoi Appunti su uno scrittore eretico, oggi meglio precisati in questa nuova pubblicazione che, sotto un’apparente frammentazione dichiarata, assume i contorni di un’esegesi filiale priva di qualunque piaggeria.
È un libro “breve” e completo, come uno specchio del formato e delle intensità dei volumi del maestro, e non tralascia nessun prisma del multiforme ingegno dello scrittore. A partire dalla retorica dell’anniversario che quasi coincide con i dieci anni dalla morte di Consolo e il mese a lui dedicato ancora in corso, e con i cento da Giovanni Verga. Benfante nota che nel Paese si sia affermata la tendenza a omologare lo scrittore più irriducibile a qualsiasi etichetta, una «strategia di neutralizzazione dell’alterità di Sciascia», come un Sansone spedito dal barbiere, a «bonificare il suo campo minato», a descrivere un ambiente culturale contemporaneo che non consente mosche bianche e una nuova generazione di autori che di Sciascia e della sua lezione sembrano poterne fare a meno. Eppure l’assenza del maestro da trent’anni provoca un vuoto non ancora colmato. «Ci manca tutto… il respiro internazionale… la sua radicalità… l’onestà e il coraggio della sua intelligenza tagliente… le sue solitarie e temerarie polemiche… il pessimismo della ragione… la sua ironia, così sottile ed elegante… il suo moralismo, il senso altissimo dunremattiano della Giustizia».
Quindi, a seguire, il suo personale romanzo familiare e intellettuale, gli esordi editoriali, già a cavallo tra saggismo e narrativa, l’amore precoce per il cinema e per Pirandello, il giornalismo al quotidiano L’Ora, del quale presto diventerà pilastro portante, il debutto delle “Parrocchie, d’ispirazione neorealista, i racconti ne Gli zii di Sicilia. Con Il giorno della civetta la risonanza internazionale. D’ora in poi, la produzione sarà instancabile, in direzione diversa e contraria, libri brevi e perfetti nello stile e nell’introspezione dell’animo umano, l’incontro e la collaborazione con Enzo ed Elvira Sellerio, il Corriere della Sera, i trasferimenti a Palermo e (breve) a Parigi, l’indagine politico-letteraria tra Moro e Majorana, l’impegno politico, consigliere comunale del Pci con Guttuso a Palermo, deputato radicale, le atmosfere del racconto giallo, le figure di perdenti, le profezie, le eresie, la clemenza sull’umanità, perché, spiega Benfante, «per Sciascia lo scrivere bene è tutt’uno con il pensare bene, col fare della lingua il tramite cristallino di un ragionamento impeccabile».
Il cinema sarà parte centrale della sua vita. Non ci sarà un autore italiano tanto ridotto sullo schermo, grande e piccolo della tv, come lui. Lunga la lista dei registi che ne fa Benfante, da Elio Petri a Damiano Damiani, da Memé Perlini a Gianni Amelio, sino ai palermitani Davide Camarrone e Salvo Cuccia nel 2000. Ma si tratterà, per lo più, sottolinea, di “operazioni sbrigative”, come scrisse Farassino, di un appuntamento mancato.
Nell’ottobre 1991, io intervistai il più sciasciano degli attori, il miglior interprete del nostro cinema civile. Gian Maria Volonté era ospite alla Festa dell’Unità ai Giardini Inglesi di Palermo e, incredibile a dirsi, mi aspettava al bar. Il dibattito su Sciascia si era concluso in anticipo. Volonté proveniva dalla Mostra di Venezia, dove aveva ricevuto il Leone alla carriera e presentato il suo quinto film tratto dall’autore di Racalmuto, Una storia semplice per la regìa di Emidio Greco. Di Sciascia disse: «Ho incontrato poche volte lo scrittore, lui mi disse che i suoi personaggi erano in buone mani e l’ho ringraziato per questo». Poche parole, molto riserbo, il medesimo aplomb.
Il Taccuino di Marcello Benfante, abbiamo già rilevato, è un libro breve, a modello del suo maestro, che pratica il “piacere del testo”, e talmente fitto e completo che ogni rigo comprende una rivelazione, un’apertura di orizzonte, un’avventura stilistica. Anche i titoli dei numerosi capitoletti sono perle, un mondo a parte. Prendiamo quello dedicato al lessico sciasciano de Il giorno della civetta divenuto vocabolario comune. S’intitola “La linea del carciofo”. E fa la crasi su due concetti, su due modi di definire e spiegare l’evoluzione mafiosa. Il primo riguarda i confini geografici. Sciascia predisse sessant’anni fa che il fenomeno tipicamente siciliano si sarebbe ben presto allargato in Italia e persino in Europa e utilizzò la celebre metafora della linea della palma che s’inoltrava verso nord. Il secondo attiene alla parola “rusticana” cosca, oggi entrata nel lessico internazionale e che proviene, con “rimando botanico”, da «quel tipo di piante che sono provviste di spine…la fitta corona di foglie del carciofo…suggerendo l’aguzza intangibilità e impenetrabilità delle relazioni fra i membri della mafia», come verrà spiegato al capitano Bellodi.
Si può essere, poi, d’accordo o meno, con l’antica questione non ancora chiusa de “I professionisti dell’antimafia”, lo storico articolo sul Corriere della Sera, che divise il Paese. Una ferita ancora aperta, nella società e nel mondo del pensiero. E sarebbe il caso oggi suturarla con semplici parole: Sciascia ebbe ragione e fu profetico nel prevedere che con l’Antimafia si potesse far carriera, come realmente accade anche con impostori, ma indicò l’esempio di “professionista antimafia” sbagliato in Paolo Borsellino, prescelto dal Csm procuratore a Marsala per competenze in criminalità organizzata a scapito di un collega con maggiore anzianità e nessuna esperienza nel campo. Per nulla sottrarre al magistero stilistico e “politico” di Leonardo Sciascia, così ben descritto da Benfante. «La lezione antiretorica di Sciascia sta sempre nel suo mostrarsi piccolo essendo grande, farsi da parte mantenendo la sua centralità, prendere le distanze cogliendo il cuore del problema».
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.
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