per la scuola
di Linda Armano
Un tema caro all’antropologia sono certamente i meccanismi di inculturazione attraverso i quali un individuo acquisisce cultura dal gruppo sociale a cui appartiene (famiglia, gruppo religioso, sistemi di istruzione ecc.). Com’è noto i mezzi di trasmissione culturale sono eterogenei. Ciononostante gli antropologi hanno classificato due principali stili di comunicazione attraverso i quali avvengono forme di inculturazione. Da un lato abbiamo quindi una trasmissione orale e all’altro abbiamo una trasmissione scritta. È risaputo però che non esiste ormai alcuna società che non sia venuta a contatto con una tradizione basata sulla scrittura. Per contro, anche laddove la scrittura è estremamente diffusa, la comunicazione ordinaria si svolge per lo più in forma orale. Ovviamente, affermare che la scrittura condiziona il nostro modo di comunicare oralmente non significa dire che noi parliamo sempre di cose che abbiamo letto da qualche parte. La scrittura ci influenza nel senso che il modo con il quale ci esprimiamo è guidato da un pensiero che si fonda sulla interiorizzazione della scrittura medesima.
Spesso, non siamo del tutto consapevoli di quanto peso abbia, sul nostro modo di comunicare, di apprendere le informazioni e di trasmettere le conoscenze, il fatto di appartenere ad una cultura che ha profondamente interiorizzato la scrittura. Quest’ultima esercita infatti sulla parola una sorta di imperialismo. Le nostre menti scolarizzate pensano inevitabilmente ad una parola se non in forma scritta. In antropologia, le culture presso le quali esiste una scrittura diffusa sono dette “culture a oralità ristretta”, le quali sono generalmente contrapposte a “culture a oralità primaria”. Queste ultime sono società che, indipendentemente dal loro grado di complessità sul piano politico, economico ed amministrativo, non conoscevano, in passato, alcuna forma di scrittura. Gli antropologi hanno esposto esempi vistosi di questo tipo di trasmissione culturale nei quali rientrano, tra gli altri, gli Inca in Sudamerica e il regno precoloniale del Dahomey nell’Africa Occidentale (Fabietti 2015). Per quanto i funzionari di questi regni avessero elaborato complicati ed ingegnosi sistemi di registrazione dei dati e degli eventi che si avvalevano dell’uso di cordicelle, di sassolini o bastoncini intagliati, la scrittura, così come comunemente la conosciamo noi, era a loro del tutto sconosciuta.
Sino al III millennio a.C. l’umanità non conosceva la scrittura, che fece la sua comparsa appunto in quell’epoca nell’area mesopotamica e nelle aree ad essa limitrofe. Essa venne sviluppata a partire da alcuni sistemi di calcolo che, con il tempo, videro la sostituzione di oggetti (come sassolini o semi di piante) o intagli o stampi impressi nell’argilla con funzione mnemonica, con dei veri e propri segni aventi ciascuno un loro significato (Schmandt-Besserat 1992).
Oggi non esistono praticamente più società a oralità primaria. Infatti anche laddove l’alfabeto scritto rimane poco diffuso (perché non è mai arrivata la scrittura o perché non è stata conservata), la comunicazione scritta esercita comunque un’influenza attraverso la stesura di leggi, regolamenti, disposizioni, calcoli e statistiche prodotti da un centro politico e amministrativo che sono espressione di uno Stato nazionale. Gli antropologi denominano queste società con l’appellativo di “culture a oralità diffusa” (Fabietti 2015) per affermare che lo stile comunicativo in esse prevalente non è stato ancora completamente influenzato dallo stile della comunicazione scritta. È noto infatti che molti elementi tipici dell’oralità primaria si sono mantenuti in ampie aree del nostro pianeta e persino nelle società industrializzate, laddove la scrittura rimane spesso un elemento marginale nella vita delle popolazioni. Queste variazioni rendono evidente il fatto che seppur non esistano più società interamente senza scrittura, il suo uso è comunque un fatto altamente variabile.
L’esame del tipo di inculturazione è utile per capire come esso si accompagni a certe modalità di “funzionamento” del pensiero. Ricerche antropologiche di lunga tradizione hanno assodato come la dimensione orale della trasmissione della cultura corrisponda, in assenza o in situazioni di scarsa assimilazione della scrittura, a modi di pensare che sono per certi aspetti diversi da quello di soggetti abituati a maneggiare con una certa disinvoltura i segni di un alfabeto grafico.
Alcuni autori (Ong 1986) hanno avanzato l’ipotesi che, in conseguenza del fatto che anche nella nostra società le persone non sono pienamente consapevoli dell’influenza sociale del sistema di trasmissione scritto della cultura, noi stessi commettiamo l’errore di considerare alcune produzioni come scritte (per esempio le poesie, le leggende, i canti ecc.) riducendole a forme espressive intese come varianti imperfette della letteratura scritta. Altri studiosi (Callari-Galli, Harrison 1979) hanno inoltre affermato che le persone che vivono in culture dove la scrittura è penetrata solo parzialmente non possono essere definite come analfabete. L’analfabetismo, così come si presenta nelle società cosiddette economicamente agiate ed ipertecnologiche, è considerato infatti un fattore di emarginazione, esclusione e povertà, in quanto è classificato come caratteristico di gruppi o fasce sociali che per varie ragioni non sono in grado di accedere alle risorse a disposizione della cultura scolare. Quando i membri di una cultura prevalentemente orale entrano nella sfera d’azione di una società con scrittura (basti ricordare per esempio il caso di molti migranti italiani all’estero o nella stessa Italia fino agli anni Cinquanta del secolo scorso), per quanto non siano emarginati all’interno del contesto privo di scrittura, vengono, nel nuovo gruppo sociale, ad occupare una posizione socialmente svantaggiata rispetto a quanti sono in grado di accedere, grazie all’alfabetizzazione, ad informazioni e a risorse.
Necessità storiografiche dei sistemi pedagogici
Partendo dalle considerazioni sin qui delineate, vorrei riprendere alcune riflessioni di Fabio Dei scritte sull’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei nel suo articolo “Ancora sul saper scrivere all’università. La scuola progressista e i suoi critici” (2022) in cui l’autore solleva il problema, assolutamente attuale e dibattuto, dell’impoverimento delle competenze di espressione scritta negli studenti universitari iscritti anche a facoltà umanistiche, per le quali si darebbero per scontate tutta una serie di abilità comunicative scritte e orali. Rintracciando le problematiche che stanno alla base di tale impoverimento, Dei afferma con forza anche: «la svalutazione radicale dei titoli di studio nel campo umanistico e delle scienze sociali, e la perdita di filtri di qualità nel reclutamento di professioni cruciali come quella di insegnante» oltre che «la progressiva scomparsa del ruolo di ascensore sociale della formazione scolastica e universitaria, e del successo scolastico come riequilibratore delle differenze di classe».
L’università infatti, come l’istituzione scolastica in generale, è costruita su modelli di comportamento plasmati sulla ripetizione e sul rafforzamento di attitudini che riescono a «compensare il capitale culturale ereditato con quello acquisito» (Dei 2022). Il problema risiede però nei metodi applicati per livellare le disuguaglianze sociali relative all’accesso scolastico. Negli ultimi anni infatti il livellamento si è concretizzato nello svuotamento di conoscenza attraverso specifiche riforme che, lungi dal contrastare le esclusioni, ha privato i vari ceti sociali di un importante strumento di promozione. Dei riprende autori come Ricolfi e Mastrocola per discutere il passaggio da un’istruzione con contenuti classici della cultura umanistica verso una scuola-corporation, con obiettivi di successo performativo, la quale ha via via cancellato un’istruzione basata sul sapere in nome di un’istruzione pratica agganciata a soddisfare richieste di lavoro sulla base degli andamenti del mercato. È evidente che questi passaggi non riguardano solo i tempi più recenti, dato che in passato l’abbandono scolastico era motivato non solo da una poca propensione allo studio del singolo studente, ma anche da appartenenze familiari.
Fabio Dei denuncia la necessità di una maggiore analisi specialistica e comprensione della storia dell’istruzione, così come della didattica delle competenze di base, anche in funzione di utili comparazioni internazionali dei livelli di apprendimento. È importante quindi sottolineare come gli studi storico-educativi abbiano vissuto, nel corso dell’ultimo mezzo secolo circa, un periodo di profonda trasformazione, che ha rinnovato radicalmente tanto i metodi quanto gli oggetti d’indagine. La trasformazione ha consentito a questo ambito di studi il raggiungimento di un’identità definita e autonoma rispetto ad altri saperi “umanistici”, a cui, in precedenza, era annesso e sostanzialmente subordinato (Pesci 2020).
La storia della pedagogia in Italia è stata caratterizzata per lungo tempo dall’influenza delle correnti filosofiche e politiche più rilevanti, che hanno ispirato soprattutto il giudizio storiografico di grandi studiosi, le opere dei quali sarebbero ancora oggi significative e preziose nella formazione dei ricercatori più giovani che non hanno vissuto direttamente i dibattiti del passato (Baldacci, Frabboni 2013). Questa situazione, tipica della ricerca storico-educativa nel nostro Paese, trova molte analogie nel panorama complesso e variegato della storia della pedagogia in Occidente fino al profondo rinnovamento che ha caratterizzato la ricerca storiografica nella sua globalità a partire dalla metà del Novecento, operando dalla ricerca “annalistica” di matrice principalmente francofona e dalle nuove correnti della storia anglosassone (Bottani 2009). La storia della pedagogia ha tratto molte delle sue connotazioni più peculiari tanto dalla tradizione che, in fondo, la concepiva come una disciplina gregaria della storiografia filosofico-politica, quanto dalle innovazioni innanzi tutto metodologiche, della “nuova storia” novecentesca (Hammersley 2002).
Sullo sfondo di queste considerazioni sta una duplice constatazione: da un lato, la storia della pedagogia, fino ad alcuni decenni fa, è stata praticata da studiosi di formazione tanto pedagogica quanto storiografica (e non di rado, più dai primi che dai secondi); dall’altro, la collocazione della disciplina nell’ambito accademico e scolastico ha influenzato notevolmente la stessa produzione scientifica nel campo degli studi storico-educativi con notevoli risultati sul piano storiografico. L’esito di questi fattori è stato una forte caratterizzazione della dimensione “pedagogica”, se così si può dire, dello stesso lavoro storiografico. Si è così profilata una varietà di “scuole” storiografiche orientate non soltanto dai contenuti specificamente disciplinari del lavoro di ricerca ma dalla collocazione culturale degli studiosi rispetto ai grandi temi presenti nel dibattito politico-scolastico del loro tempo (Baldacci, Frabboni 2013).
La storia della pedagogia scritta da studiosi come Giovanni Calò, Lamberto Borghi, Dina Bertoni-Jovine, per citare solo alcuni tra coloro che scrissero o diressero, insieme ad altre figure non meno significative, opere di riferimento nel settore, si è, quanto meno dalla metà del Novecento, orientata nella direzione di una riflessione sul passato che teneva insieme l’aspirazione ad una ricostruzione oggettiva e il contributo ad un dibattito sull’educazione e sulle istituzioni educative quanto mai vivo all’epoca, anche nei suoi risvolti politico-ideologici.
Un altro aspetto della produzione storico-pedagogica è stato per molto tempo il nesso organico tra l’editoria specializzata e le norme sui programmi degli istituti d’istruzione secondaria e superiore per la formazione degli insegnanti e dei concorsi per l’accesso all’insegnamento. L’importanza attribuita ad un vero e proprio “canone” ministeriale degli autori “classici”, la cui conoscenza costituiva in qualche modo la base della formazione storica degli insegnanti, specialmente nella scuola elementare, e di conseguenza anche l’asse portante dell’insegnamento della pedagogia già negli istituti magistrali (prima ancora, nelle scuole normali), orientò essa stessa i contenuti di una ricerca storiografica che privilegiava la letteratura pedagogica (in senso lato) rispetto anche ad altri documenti e aspetti della storia delle idee e delle pratiche educative (Pesci 2020).
Queste considerazioni generali non intendono, ovviamente, esaurire una riflessione su quello che è stato, fino a tempi ancora abbastanza vicini a noi, il passato della ricerca storico-educativa italiana, ma possono essere utili per richiamare l’attenzione su questioni ancora oggi utili da considerare sul piano epistemologico e metodologico. Opere recenti come gli studi di Juri Meda (2019) sulle grandi imprese editoriali specialistiche emblemi di filoni e correnti della cultura e della ricerca pedagogica e storico-educativa dall’Unità al secondo dopoguerra, offrono, peraltro, un contributo decisivo per l’avvio della riflessione sull’identità della storia della pedagogia stessa, non solo nella prospettiva della considerazione di quello che è stata la sua fisionomia in Italia, ma anche in relazione con orientamenti presenti in altri Paesi (Bottani 2009).
Nello specifico, le grandi tendenze della pedagogia italiana hanno, dunque, caratterizzato la stessa ricerca storico-pedagogica nel nostro Paese. Questo è anche uno dei motivi per cui da noi, forse ancor più che altrove tra i Paesi occidentali la storia della pedagogia si sia in origine identificata con lo studio delle filosofie e delle teorie dell’educazione, più che delle pratiche e delle istituzioni (Hammersley 2002).
L’insegnamento della storia della “pedagogia” è il primo a comparire nelle iniziali, e peraltro timide ed effimere, differenziazioni dell’ambito d’indagine da quello della “pedagogia” generale, finendo soltanto in tempi ancora relativamente recenti per specificarsi ulteriormente in una storia “dell’educazione”, della “scuola”, o delle “istituzioni educative”, con un indubbio affinamento nelle forme del lavoro d’indagine ed una più stretta sintonia con gli orientamenti internazionali della ricerca storiografica (Pesci 2020).
Una sintetica ricapitolazione degli indirizzi di ricerca prevalenti in Italia dall’Ottocento ad oggi dovrebbe, così, prendere le mosse dalla considerazione delle principali correnti di pensiero diffuse in Italia, a cominciare dallo spiritualismo pedagogico. Aderendo variamente alle idee di Rosmini, furono numerosi i pedagogisti ed educatori che seguirono questo indirizzo anche in ambito storiografico; da Rayneri a Bonghi, da Allievo a Gerini, si può parlare di una vera e propria tradizione spiritualistica che si articolò al suo interno in vari filoni di pensiero a seconda delle opzioni filosofiche e teologiche dei suoi maggiori esponenti, giungendo fino alla metà del secolo scorso (Hammersley 2002).
Quasi all’indomani dell’unificazione italiana si sviluppò anche la corrente positivistica, che venne ad assumere una posizione politica di rilievo nella sua consonanza con l’orientamento prevalente della politica nazionale in anni in cui l’antagonismo con il papato e il conseguente astensionismo cattolico costituivano un evidente fattore di rischio per il nuovo Stato (Pesci 2020). Il positivismo italiano fu in ambito filosofico, in effetti, un fenomeno secondario rispetto alle grandi correnti positivistiche europee, in cui furono soprattutto studiosi francesi, inglesi e tedeschi a improntare gli orientamenti di questo movimento culturale, anche per quanto riguardava le teorie e le pratiche educative.
Nel complesso, è forse lecito pensare che, al di là delle realizzazioni editoriali, questi orientamenti contribuirono a suscitare un’attenzione e una sensibilità “nuove” nei confronti degli aspetti concreti, pratici, organizzativi, gestionali dell’educazione, soprattutto nel mondo e nella vita della scuola, che consentirono i primi studi d’indole storica su figure di educatori e insegnanti che in precedenza potevano essere trascurate da parte di una storiografia attenta fondamentalmente al documento letterario e alla riflessione teoretica sull’educazione (Anderson 1998). Le correnti di pensiero sopra menzionate si contesero l’egemonia culturale sull’educazione e sulla scuola italiane per tutto l’Ottocento, e in particolare nell’Italia post-risorgimentale e liberale, ispirando parzialmente anche le politiche governative (Mortari 2007).
Il quadro storico si completa nel riferimento alle scuole neoidealistiche italiane un movimento culturale variegato, che esercitò un influsso significativo su tutta la cultura italiana e sul mondo della scuola e dell’università ben prima che assumesse il carattere egemonico che lo caratterizzò nel periodo tra l’età giolittiana ed il fascismo (Montalbetti 2012). L’importanza del neoidealismo è data inoltre dal fatto che nel suo ambito fu concepito quello che è stato, nonostante tutte le possibili critiche, lo strumento principale della formazione di almeno tre generazioni di insegnanti educatori e studiosi, e quindi anche di storici, italiani: il manuale di storia della pedagogia. Sul piano storiografico non si può sottovalutare il rilievo che questo strumento ha avuto nella costruzione della forma mentis di insegnanti e studiosi (Pesci 2020).
La Riforma Gentile privilegiò invece un approccio storicistico pienamente coerente con gli assunti della filosofia gentiliana, al quale si adattarono, quanto meno per ossequio alla normativa, tutti i manuali scolastici, modellando anche l’insegnamento universitario nelle sedi dei Magisteri, che erano divenuti l’istituzione principale della formazione pedagogica in Italia. In effetti, una storia della ricerca storico-educativa nel nostro Paese non potrebbe fare a meno di considerare il ruolo svolto da queste istituzioni nell’orientamento della ricerca stessa; una “geografia storica” delle cattedre e degli insegnamenti pedagogici e storico-pedagogici riuscirebbe molto utile per individuare le tappe dell’evoluzione interna di queste discipline (Anderson 1998).
La conclusione tragica del fascismo e la proclamazione della Repubblica, aprendo prospettive assolutamente nuove nel panorama politico italiano, ebbero effetti anche sulle politiche scolastiche, ma soprattutto ispirò un rinnovamento profondo della cultura, che alcuni storici presto de-finirono come lo “spirito del ’46”, a significare l’improvviso cambiamento che il nuovo orizzonte politico nazionale riuscì, tra spinte e reazioni, a promuovere nel nostro Paese (Bottani 2009).
Il mondo della scuola e dell’educazione, e la pedagogia italiana, ne beneficiarono, con un profondo rinnovamento interno; così, la vicenda del secondo dopoguerra è stata caratterizzata, in effetti, dalle dinamiche dell’interazione tra le varie correnti culturali dell’Italia repubblicana e le opzioni politiche degli studiosi, in un clima che permetteva finalmente una partecipazione ed una “militanza” politica nuove per la storia del nostro Paese (Montalbetti 2006). Da allora, le varie “stagioni” politiche dell’Italia repubblicana hanno influenzato, ed anche condizionato, il mondo della ricerca, costituendo comunque un elemento che un’analisi storica dell’epoca non potrebbe omettere di considerare (Hammersley 2002).
Il lavoro della ricerca in ambito storico-educativo, oltre che in quello pedagogico, è stato caratterizzato, pertanto, dagli indirizzi culturali che hanno maggiormente influenzato la vita intellettuale del nostro Paese, specialmente in ambito umanistico, e dall’adesione dei singoli studiosi agli schieramenti politici del proprio tempo. L’orientamento culturale e quello politico sono i due fattori che hanno costituito lo “sfondo” sul quale si è precisata la fisionomia della ricerca storico-educativa (Baldacci, Frabboni 2013).
Nel corso del Novecento sono nati nuovi ambiti di ricerca e persino nuove “discipline” all’interno della storiografia rinnovata dall’opera di studiosi come gli “annalisti” francofoni e i capifila della New History anglosassone, coinvolgendo in questo rinnovamento anche la storia della pedagogia, sempre più diversificata al suo interno come storia dell’educazione, della scuola, delle istituzioni educative, ed anche dell’infanzia, della famiglia, delle donne, ecc. Il processo ha costituito uno dei fenomeni più significativi dell’evoluzione recente degli studi pedagogici in Italia, venendosi a costituire nella forma di una separazione del settore degli studi storico-educativi da quelli pedagogico-generalistici e in quella di una differenziazione interna al settore della storia della pedagogia stessa nelle molteplici “storie” componenti l’articolato mosaico storiografico contemporaneo (Fornaca, 1975).
Interconnessioni pedagogico-politiche
Oltre alle critiche verso conclusioni forse troppo semplicistiche di alcuni autori sollevate da Dei, Antonio Pioletti (2022), riflettendo sulla formazione delle nuove generazioni, rivolge la sua attenzione alla condizione strutturale di asili-nido, scuole, università, ai dati statistici dell’abbandono scolastico, alle risorse disponibili per garantire a tutti un buon livello di istruzione, alla percentuale di laureati, nonché ai contenuti stessi della formazione e al paradigma politico-culturale attuale. Una valutazione importante sostenuta dallo studioso è la persistenza del divario esistente relativo ai livelli scolastici tra nord e sud Italia che seguono un andamento economico diviso tra le due parti della nazione. La stessa situazione riguarda le iscrizioni universitarie, ulteriormente al ribasso a seguito dell’emergenza Covid-19.
In generale Pioletti sollecita a riflettere sul rapporto fra ricerca educativa e politiche pubbliche, sottolineando l’importanza di azioni pratiche e di scelte politiche attive (Dal Passo 2017). A sostegno di tale affermazione vi è certamente la necessità di evitare sia che i decisori politici utilizzino strumentalmente il sostegno della scienza nelle riforme educative, sia che i ricercatori possano prescrivere in nome della scienza legittimando le proprie convinzioni con i risultati della ricerca. Pertanto, il dibattito sulla metodologia, in merito a cui Pioletti ritiene fondamentale aprirsi all’interdisciplinarietà, non può eludere gli interrogativi circa le “responsabilità” anche come espressione di un’etica della preparazione, dell’attuazione, della restituzione di un metodo oltre che al contributo della ricerca educativa alla formulazione delle politiche pubbliche che rimandi a tematiche oggi assai delicate, anche a fronte dell’attuale dibattito politico-istituzionale (Corsi, Sarracino, 2011; Viganò, Lisimberti, 2011).
Il complesso rapporto fra ricerca pedagogico-educativa e politiche pubbliche, dischiudono molteplici itinerari di approfondimento che si aggiungono a quelli elencati da Pioletti e includono, per esempio, l’importanza della circolarità dei saperi per superare chiusure burocratiche e anti-scientifiche; il ruolo insostituibile degli enunciati fondati sulla verità e non sul mero risultato raggiunto; il superamento dell’opposizione fra solida formazione culturale, da una parte, e un percorso professionalizzante, dall’altra; la scelta di letture e l’interpretazione dei testi della comunicazione non solo letterari ecc.
Nello specifico è utile considerare almeno due nodi tra cui per esempio l’importanza, ai fini della formulazione delle politiche pubbliche, di avvalorare le molteplici esperienze di cui la realtà e gli ambiti educativi sono ricchi; ciononostante questo panorama variegato e multiforme fatica a ricomporsi in un quadro unitario e a uscire dall’autoreferenzialità e dalla discontinuità. La ricerca educativa potrebbe permettere alle singole esperienze di essere oggettivate e diventare comunicabili facilitandone così la socializzazione e prevedendo sia la tentazione dell’assolutizzazione di esperienze autoreferenziali, che cercano credito agli occhi dei decisori politici, sia il rischio per questi ultimi di non conoscere/valutare buone pratiche a cui ispirare i propri provvedimenti. In sintesi, si tratta di porre le premesse affinché i numerosi progetti/interventi a fini educativi, presenti ai diversi livelli del nostro sistema di istruzione e nei differenti ambiti formativi, si possano trasformare in ricerca educativa:
«Fare dell’esperienza un’occasione di ricerca educativa implica non solo un certo modo d’impostare e attuare l’azione ma anche porre già dall’inizio il problema della comunicazione del processo e della diffusione degli esiti, considerandoli snodi essenziali» (Montalbetti, 2006: 214).
Sotto il profilo metodologico, ciò pone l’esigenza per il ricercatore di potersi avvalere di metodi/strumenti validi, pertinenti, affidabili per indagini che si situano non “prima” o “dopo” ma nelle pratiche educative, senza che, da un lato, i primi siano asserviti alle seconde, e dall’altro, peculiari esigenze di quest’ultime inducano a forme di pseudo-compromessi. Si tratta di impegnarsi in esperienze di ricerche capaci di generare la diffusione di un habitus euristico nella comunità e/o nell’ambiente in cui tali pratiche avvengono.
Un secondo nodo è da porre in relazione a quelli che possono essere legittimamente considerati gli oggetti primari delle politiche pubbliche: gli aspetti strutturali del sistema di istruzione e formazione, cioè quegli aspetti che riguardano i sistemi formativi/educativi nel loro complesso, in particolare la strutturazione e l’articolazione dei corsi di studio, istruzione, formazione e le questioni di macro-didattica. Sono aspetti che oggi assumono significativa rilevanza nel dibattito pubblico, ponendo molteplici problematiche sotto il profilo sia pedagogico che politico; basti pensare solamente alle questioni quali la crisi dell’educazione e dei suoi principali agenti (famiglia, scuola, comunità), la difficoltà di governare il rapporto tra offerta formativa e domanda occupazionale, la complessità di innovare i sistemi educativi per assicurare alle persone le capacità per vivere in una società in continua trasformazione (Ammaniti, 2015). La ricerca educativa dovrebbe quindi essere in grado di assumere come tema/problema/questione di indagine gli aspetti strutturali del sistema educativo, non solo le pratiche.
Presi singolarmente e complessivamente, questi due nodi metodologici ci possono interrogare su come affrontare la complessità intrinseca del rapporto ricerca-politica, superando la sua adesione alle tesi proposte da questo o quel paradigma di riferimento, per esplicitare cosa dovrebbe effettivamente contare in una indagine pedagogica che voglia aiutare/sostenere/guidare le politiche educative, assumendosi la responsabilità etica di una ricerca educativa volta a pervenire ad indicazioni da cui potrebbero discendere trasformazioni/innovazioni a livello di sistema educativo e formativo. Ciò è di particolare valore perché ci pone nelle condizioni di mostrare e chiarire l’identità scientifica della ricerca nel rispetto delle peculiarità caratterizzanti gli studi di ambito pedagogico, la natura del dato scientifico a cui la ricerca può accedere e le ragioni per le quali ha ritenuto adeguati quei determinati metodi e strumenti di cui si è avvalso, l’attuabilità nel sistema di formazione (scuola, università, alta formazione, ecc.) e l’auspicabilità infine sul piano sociale dei cambiamenti prospettati dalla sua ricerca.
Queste considerazioni, a mio avviso, renderebbero possibile per i professionisti che operano sul campo affrontare eventuali contraddizioni anche con la propria esperienza professionale e offrirebbe ai decisori politici l’opportunità di avvalersi di dati pedagogicamente autorevoli nel processo decisionale che conduce alla promulgazione dei provvedimenti legislativi.
Entrambi gli autori citati, Fabio Dei e Antonio Pioletti, concordano sul fatto che l’educazione non è intesa come un qualcosa che cresce nel vuoto, ma è una pratica sociale legata e condizionata dal contesto storico, economico e culturale in cui opera. Lo stesso oggetto del sapere, tramandato da una generazione all’altra, ne è fortemente influenzato. Come è stato dibattuto in questo contributo, oggi, ad esempio, conoscenze e competenze di carattere tecnico o tecnologico sono privilegiate rispetto alle altre, e l’educazione finisce per avere un connotato prevalentemente pratico (bisogna “imparare un saper fare”). Ciononostante, è indubbio che, soprattutto nell’ultimo decennio, si sia assistito ad importanti mutamenti nella ricerca applicata ai contesti socio-educativi, anche in dimensione multiculturale, sia a livello nazionale che internazionale.
Nell’ambito delle scienze sociali è emersa la necessità di riformulare strategie di indagine capaci di fare fronte alle nuove sfide, tanto che anche educatori, insegnanti, formatori e operatori sociali si sono interessati a nuove azioni educative. Negli ultimi tempi infatti sono state proposte forme di didattica estremamente creativa e comunque svincolata dalla strutturazione impressa per esempio nelle scuole pubbliche. Basti pensare, per esempio, a proposte di scuole libertarie o scuole nel bosco le quali possono anche rappresentare delle forme inedite di interazione fra ricerca e pratiche riflessive che coinvolgono in modo nuovo, e a volte inaspettato, gli insegnanti. L’emergenza socio-sanitaria ha contribuito a dare una spinta a queste nuove forme educative, probabilmente rispondendo anche ad una necessità sociale di più lunga durata. Se da un lato la pandemia ha imposto una particolare attenzione ai contesti scolastici, alla necessità di nuovi sguardi e strumenti in grado di fare fronte alle necessità estemporanee, dall’altro ha promosso anche nuovi approcci di partecipazione attiva, nuove forme di innovazione socio-educativa per rispondere all’aggravarsi delle vulnerabilità sociali.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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