il centro in periferia
di Ilaria Testa
Passato e futuro, tradizione e innovazione: parole diverse, apparentemente in contraddizione, eppure complementari nel momento in cui si parla di ecomusei. Questi ultimi sono infatti i soggetti che, all’interno di un territorio, salvaguardano il passato ma, soprattutto, preparano e creano il futuro. E sono proprio gli ecomusei ad aver dato vita, in questi anni, a un’esperienza progettuale che ha potenziato gli strumenti a disposizione delle comunità locali per conoscere, conservare e valorizzare le proprie risorse culturali e ambientali, le proprie tradizioni, la propria storia.
Lo hanno fatto, e continuano a farlo, puntando sul capitale umano e sociale, sulla ricchezza di un patrimonio (spesso definito “minore”) considerato non tanto per il suo valore economico ma per ciò che rappresenta per i suoi cittadini e, ancora, su un territorio che è visto come l’insieme di tante e complesse relazioni, passate e presenti, frutto di saperi e memorie, tradizioni e valori, modi di vita e paesaggi. Lo stesso Hugues de Varine, creatore del concetto di ecomuseo e massimo esperto in materia, quando parla del territorio su cui agiscono gli ecomusei, lo definisce uno spazio che ha un senso per una popolazione che lo abita e lo condivide e possiede inoltre un’unità e una identità geografica, storica, culturale ed economica.
Da queste poche righe si possono già intuire gli ambiti di riferimento, i confini entro cui si muove l’ecomuseo ma di cosa si tratti esattamente, definirlo, è altra cosa. Ci vengono in aiuto le parole dello stesso de Varine:
«Per me (l’ecomuseo) è un’azione portata avanti da una comunità, a partire dal suo patrimonio, per il suo sviluppo. L’ecomuseo è quindi un progetto sociale, poi ha un contenuto culturale e infine s’appoggia su delle culture popolari e sulle conoscenze scientifiche. Quello che non è: una collezione, una trappola per turisti, una struttura aristocratica, un museo delle belle arti etc. Un ecomuseo che sviluppa una collezione importante e ne fa il suo obiettivo non è più un ecomuseo, poiché diventa schiavo della sua collezione»[1].
Eppure, anche se da queste prime indicazioni sono trascorsi quasi cinquant’anni e sebbene gli ecomusei si siano diffusi in tutto il mondo, non si è ancora giunti, nonostante i molti interrogativi sulla loro natura e identità, a una definizione condivisa (Jalla 2010: 195). E allora, restando nei confini dati dal termine stesso, e senza disturbare i tanti autori che hanno aggiunto nel corso del tempo numerosi e validi tentativi di definizione, ecco che la parola “ecomuseo” ci suggerisce da sola molte cose.
Lo stesso Georges-Henri Rivière, ideatore insieme a de Varine del concetto, parla di ecomuseo come di «un museo dell’uomo e della natura, un museo ecologico che fa riferimento a un dato territorio, nel quale vive una popolazione che partecipa alla concezione ed evoluzione permanente del museo, laboratorio permanente sul campo, strumento di informazione e presa di coscienza della popolazione» (Rivière 1992: 440-5). De Varine mette in risalto il fatto che «nel termine stesso, l’elemento “museo” si riferisce esclusivamente al linguaggio delle cose reali» mentre «il prefisso “eco” fa riferimento al concetto di ecologia umana e ai rapporti dinamici che l’essere umano e la società stabiliscono con la propria tradizione, il proprio ambiente e i processi di trasformazione di questi elementi quando hanno raggiunto un certo stadio di consapevolezza della propria responsabilità di creatori» (de Varine 2005: 249-50).
L’attenzione verso la popolazione locale, l’ampliamento del raggio d’azione sul territorio e una nuova sensibilità verso il proprio territorio e la propria storia, diventano le basi di un rinnovato modo di vedere la cultura e di occuparsene e accade così che i temi e i fondamenti che stanno alla base dell’ecomuseo trovino una sempre più ampia applicazione (dapprima in Francia e poi in Italia e nel resto del mondo). Tale situazione è però anche il riflesso di un diverso modo di concepire il patrimonio, il paesaggio e i soggetti che si occupano di gestire e valorizzare i beni culturali; e non è un caso che il termine ecomuseo nasca proprio all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il dibattito investe le istituzioni in generale e tra queste anche il museo che troverà un senso solo uscendo all’esterno del proprio edificio per andare ad incontrare il territorio e la comunità.
«Il nuovo interesse nei confronti della fruizione museale, progressivamente sposta l’attenzione dall’oggetto in sé e dall’espressione culturale, al processo che lo ha generato e alle trasformazioni che tale processo ha nel tempo, direttamente o indirettamente, prodotto sul contesto. È la stretta relazione che lega l’uomo e il luogo» (Riva 2009: 97).
Da qui inizia un periodo di intensi dibattiti e discussioni che mettono il patrimonio culturale in un’accezione sempre più ampia tanto da dare origine, anche e soprattutto in campo normativo, a una vera e propria trasformazione della nozione di patrimonio considerato, finalmente, in tutte le sue componenti.
Una prima testimonianza di questo si ha nel 2003 con la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in cui all’art. 2 si legge:
«Per patrimonio culturale immateriale s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana».
Si va, quindi ben oltre una concezione di patrimonio quale sommatoria di beni culturali. Il centro dell’interesse non è più solo l’oggetto ma il modo di crearlo, di usarlo, di viverlo. Viene sottolineato il suo carattere vivente, il suo legame inscindibile con la comunità e, soprattutto, esso non è più qualcosa di statico, da conservare immutato nel tempo, ma cambia e si trasforma a seconda dei cambiamenti che agiscono sulla comunità di appartenenza.
Nell’art.4 della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali del 2005, troviamo la definizione di “diversità culturale”:
«Diversità culturale rimanda alla moltitudine di forme mediante cui le culture dei gruppi e delle società si esprimono. Queste espressioni culturali vengono tramandate all’interno dei gruppi e delle società e diffuse tra di loro. La diversità culturale non è riflessa unicamente nelle varie forme mediante cui il patrimonio culturale dell’umanità viene espresso, arricchito e trasmesso grazie alla varietà delle espressioni culturali, ma anche attraverso modi distinti di creazione artistica, di produzione, di diffusione, di distribuzione e di apprezzamento delle espressioni culturali, indipendentemente dalle tecnologie e dagli strumenti impiegati».
Sempre nel 2005 il Consiglio d’Europa promuove la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, detta anche Convenzione di Faro (ratificata in Italia solo nel settembre 2020). Il documento, rivoluzionario sotto molti punti di vista, introduce nell’Art. 2 un nuovo concetto, ampio e innovativo, di patrimonio visto come «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione». Prosegue poi con la definizione di comunità di eredità o patrimoniali: «un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future».
Il testo riconosce innanzitutto il diritto all’eredità culturale, strettamente collegato al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; ma non si ferma qui perché definisce la stessa eredità culturale come una responsabilità individuale e collettiva, e sottolinea che la sua conservazione e il suo uso (sostenibile) hanno come obiettivo lo stesso sviluppo umano e la qualità della vita. I cittadini assumono un ruolo diverso nei confronti del patrimonio: da una parte è necessario che siano promosse «azioni per migliorare l’accesso al patrimonio culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare» (Art. 12). Dall’altra diventano soggetti attivi e responsabili nei confronti del proprio patrimonio, assumendo un ruolo di primo piano nella sua conoscenza e individuazione così come nella cura e trasmissione.
Massimo Montella, il direttore de Il Capitale Culturale, parla di un «profondo rovesciamento complessivo: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini: dalla museificazione alla valorizzazione».
E poi c’è il paesaggio che nella Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 è definito come una «porzione di territorio percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Da qui la sua importanza culturale, ambientale, sociale, storica quale componente del patrimonio europeo ed elemento fondamentale a garantire la qualità della vita delle popolazioni.
Di tutti questi cambiamenti e nuove definizioni l’ecomuseo si nutre e al tempo stesso ne è precursore: esso pone un ragionamento sul territorio di riferimento, cercando di capirne confini e caratteristiche, allarga il concetto di patrimonio abbracciandone tutte le componenti, materiale e immateriale, offre uno sguardo al paesaggio per comprendere come questo è vissuto e trasformato da chi lo abita. Ma soprattutto coinvolge direttamente le comunità locali per portarle, attingendo e imparando dal passato, verso un futuro in cui la parola sviluppo assume un ruolo fondamentale. Il tutto in un’ottica di sostenibilità che è ambientale, culturale, sociale, economica.
Ecomusei e comunità locali
Gli ecomusei si pongono, fra i tanti, l’obiettivo di far innamorare gli abitanti del proprio territorio e del proprio patrimonio, rendendoli consapevoli dell’eredità ricevuta, da tramandare alle generazioni future e da vivere nel presente. Le realtà locali divengono interpreti insostituibili per affrontare in modo efficace, risolutivo ed equo i grandi e i piccoli problemi connessi con la conservazione del patrimonio, materiale e immateriale, e per definire processi di sviluppo fondati su criteri di sostenibilità. Il desiderio, l’orgoglio e la consapevolezza di appartenere a luoghi unici e di essere i veri detentori di un patrimonio importante, sono gli elementi che gli ecomusei vogliono ricercare nel cuore delle comunità e diffondere attraverso una serie di attività da svolgere concretamente.
Da qui, da questi obiettivi, si comprende l’importanza che assume, all’interno della progettualità ecomuseale, la popolazione locale. L’ecomuseo accoglie e ospita volentieri il pubblico, manifestando così la sua volontà di creare reti e relazioni, ma non è fatto solo per i visitatori; è prima di tutto fatto per sé stesso, per la sua comunità. Tutta l’attività degli ecomusei è orientata a trovare occasioni, strumenti e condizioni perché tutte e tutti partecipino attivamente alla discussione e all’elaborazione di progetti e idee, senza escludere nessuno: dai bambini fino alle persone più anziane così come le persone che arrivano dall’esterno.
L’ecomuseo, nel lavoro svolto dal coordinatore e dai suoi collaboratori, è il soggetto in grado di mediare le molte e variegate esperienze e conoscenze dei suoi abitanti per far emergere gli elementi della storia personale e collettiva rimettendo in circolazione il patrimonio immateriale che è alla base del legame con il proprio territorio e la propria storia. Un compito da facilitatore che non si ferma però solo al proprio ambito di riferimento perché ogni ecomuseo, anche se è al servizio del suo territorio, può aiutare i territori limitrofi a progredire verso una gestione più partecipativa e sostenibile del loro patrimonio. Non è necessario, né possibile, fare ecomusei ovunque, ma lo spirito dell’ecomuseo, una ecomuseologia e una museografia dei territori possono irrigare intere regioni e rivelarsi fonte di ispirazione per i responsabili locali, alimentando progetti e favorendo la cooperazione degli attori. Un ecomuseo è, per meglio dire, una rete di ecomusei che possono costituire una vera e propria agenzia di studi e servizi per lo sviluppo, giacché gli ecomusei esistenti sono fonte di competenze e di formazione (de Varine, 2016)[2].
Ecomusei e sviluppo locale
Il coinvolgimento diretto delle comunità è utile e fondamentale per costruire quello che viene definito “capitale sociale”, cioè l’insieme delle relazioni che agiscono all’interno della comunità – associazionismo, cooperazione, solidarietà, fiducia in sé e autostima, individuale e collettiva. Questo capitale va costruito e diventerà la base dello sviluppo sostenibile (de Varine 2010: 39) messo in atto dagli ecomusei che, con i loro progetti e le loro attività, apportano un profondo cambiamento nei territori di riferimento, in termini di crescita socio-culturale, benessere e coesione. Le persone devono avere un ruolo attivo in tutto ciò che riguarda filiere corte, economia circolare, contrasto all’abbandono e ricerca di uno sviluppo sostenibile.
In quest’ottica, l’ecomuseo è il soggetto che può svolgere la funzione di guida, di indirizzo e di stimolo verso i soggetti produttivi locali. Esso è in grado di mettere il visitatore di fronte a una lettura integrata di paesaggi umani e naturali facendo sì che siano valorizzati tutti quegli aspetti di un’area che, visitati singolarmente, apparirebbero slegati e di poco interesse. Può attivare microeconomie grazie alla riscoperta e alla valorizzazione di produzioni e saperi tradizionali spesso dimenticati ma che, se correttamente ripresi, possono portare a creare nuove fette di mercato, domanda, economia. Certo, il consumatore, sia esso abituale o occasionale, deve essere sensibilizzato rispetto alla specificità del prodotto e del suo stretto collegamento con l’identità locale. Rimettere in piedi produzioni e mestieri a rischio di estinzione vuol dire infatti rendere consapevoli i fruitori rispetto al valore aggiunto del prodotto locale: alta qualità, unicità, rispetto delle tradizioni locali, naturalità e distintività di origine.
Un discorso a parte merita, sicuramente, il rapporto tra turismo ed ecomusei. Se è vero, come accennato in precedenza, che l’ecomuseo rivolge il proprio lavoro e le proprie finalità alla comunità di riferimento, questo non significa che non ci possano essere contatti e relazioni con l’“esterno” e che, nel tentativo di fare economia sul territorio, non si possa parlare di turismo anche nei luoghi ecomuseali. Tra gli obiettivi degli ecomusei si trovano spesso, infatti, la creazione e la promozione di itinerari culturali e turistici, così come l’integrazione con i programmi di valorizzazione territoriale e i sistemi turistici locali.
Un turismo, quello gestito e voluto dagli ecomusei, che non è certo quello di massa tipico delle grandi città culturali ma un turismo sostenibile in grado di portare reali vantaggi al territorio sotto molti punti di vista. L’ecomuseo diventa così promotore di alcuni valori legati al recupero ambientale, alla conoscenza e valorizzazione del paesaggio, al riuso dei manufatti tradizionali, alla realizzazione di reti per l’offerta di ospitalità e servizi di qualità. Per gli abitanti, la possibilità di mostrare a chi viene da fuori qualcosa che per la comunità è prezioso, può rafforzare il legame con il proprio territorio, favorendo così la voglia di prendersi cura del proprio patrimonio e di “attirare” i turisti attraverso conoscenza, creatività e innovazione.
La Rete Ecomusei Piemonte
Come si può immaginare anche da quanto descritto fino a qui l’ecomuseo, sebbene siano molti i tentativi di teorizzarlo, trovarne una definizione condivisa e inserirlo in una qualche disciplina scientifica o accademica, trova la sua massima espressione e manifestazione nelle attività e nei risultati che negli anni sono stati realizzati sui vari territori. L’Italia, fin dagli anni Novanta del secolo scorso, ha visto la nascita e lo sviluppo di moltissime realtà su tutto il territorio nazionale e secondo modalità diverse l’una dall’altra sotto diversi punti di vista: gestionale, normativo, culturale, organizzativo ed economico-finanziario. Il Piemonte, in particolare, è stata la prima regione a dotarsi, nel 1995, di una legge in materia [3] e a introdurre per il supporto tecnico scientifico, nonché economico, alcuni organismi istituzionali. La Regione Piemonte ha infatti dato vita a un vero e proprio ufficio dedicato, il Laboratorio Ecomusei, che opera ancora oggi nel coordinamento e nella gestione degli ecomusei istituiti dall’ente. Nel 2009 nasce la Rete Ecomusei Piemonte che accoglie non solo gli ecomusei del sistema regionale ma anche altre realtà che operano sul territorio piemontese. Essa, oltre a collaborare strettamente con il Laboratorio regionale, si pone alcuni obiettivi fondamentali tra cui lo svolgimento di attività di ricerca, studio, riflessione, confronto, progettazione e valutazione su tematiche di interesse comune nonché la possibilità di lavorare in rete anche con altri enti e istituzioni per ottimizzare azioni e risorse.
Attività concrete della REP sono: la collaborazione e il confronto con gli enti locali e sovra locali, la messa in campo di iniziative di scambio e collaborazione con altre realtà ecomuseali, la promozione e la sensibilizzazione rispetto ai temi tipici degli ecomusei, sia a livello nazionale sia internazionale, il trasferimento di buone pratiche [4].
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] Tratto da: S. Buroni, Piccolo dialogo con Hugues de Varine sugli ecomusei, 29 Luglio 2008. L’intervista completa è su https://terraceleste.wordpress.com/2008/07/29/piccolo-dialogo-con-hugues-de-varine-sugli-ecomusei-di-stefano-buroni/
[2] Tratto dall’intervento di Hugues de Varine al Convegno “Ecomusei, 10 anni dopo” – Villa Manin – 9 aprile 2016.
[3] La legge qui citata è la L.r. n. 31 del 14 marzo 1995 recentemente sostituita e aggiornata dalla L.r. 13 del 3 agosto 2018 “Riconoscimento degli ecomusei del Piemonte”.
[4] Per conoscere meglio le realtà che fanno parte della Rete si consiglia di visitare il sito https://ecomuseipiemonte.wordpress.com/
Riferimenti bibliografici
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Bindi L., Fare spazio. Patrimonio immateriale, ecomusei e sviluppo territoriale, in C. Grasseni (a cura di) Ecomuseologie – Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Guaraldi ed., Rimini, 2010
Cancellotti C., L’écomusée n’est pas musée. Gli ecomusei come laboratori produttori di cultura, territorio e relazione, in Altre modernità, 5, Milano, 2011.
Davis P., Ecomuseums: A Sense of Place, Leicester University Press, London and New York, 1999.
De Varine H., Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, a cura di D. Jalla, CLUEB, Bologna, 2005.
De Varine H., Ecomusei e Comunità. Il patrimonio immateriale del territorio e della comunità: contesto, ispirazione e risorsa dello sviluppo locale, in C. Grasseni (a cura di) Ecomuseologie – Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Guaraldi ed. Rimini, 2010.
Del Duca A., Pidello G., Ecomusei e paesaggio, in Musei e paesaggio da tema di ricerca a prospettiva d’impegno, «Quaderni di didattica museale», 12, Ravenna, 2011.
Dell’Orso S., Musei e territorio. Una scommessa italiana, Electa per le Belle Arti, Milano, 2009.
Jalla D., Epilogo al volume C. Grasseni (a cura di) Ecomuseologie – Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Guaraldi ed., Rimini, 2010.
Porcellana V., A proposito di musei, ecomusei e comunità. Leggendo de Varine a Gressoney, in C. Grasseni (a cura di) Ecomuseologie – Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Guaraldi ed., Rimini, 2010.
Riva R., Il metaprogetto dell’ecomuseo, (“Studi e Progetti”), Maggioli Editore, Rimini, 2009: 97.
Riva, R. (2015). Ecomusei e turismo. Ri-Vista. Research for Landscape Architecture, 10(1): 41-48. https://doi.org/10.13128/RV-17264
Rivière G-H, L’Écomusée, un modèle evolutif (1971-1980), in Vagues : une anthologie de la nouvelle muséologie. Textes choisis et presentés par André Desvallées, Éditions W-MNES, Mâcon, Savigny-le-Temple 1992, vol. I.
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Ilaria Testa, architetto di formazione, giornalista pubblicista dal 2006, dopo un master in Comunicazione ambientale presso IED Torino ha fatto parte, dal 2002 al 2012, del Laboratorio Ecomusei della Regione Piemonte occupandosi del coordinamento, della comunicazione e della promozione delle 25 realtà del sistema. Negli stessi anni è stata coinvolta in diversi momenti formativi e progettuali riguardanti la nascita e l’istituzione di nuove realtà ecomuseali in tutta Italia. Dal 2009 collabora con la Rete Ecomusei Piemonte nell’ambito della comunicazione e della valorizzazione del patrimonio culturale. Dal 2014 lavora stabilmente presso l’Ufficio Beni Culturali della Tavola Valdese come responsabile della comunicazione. Si occupa, inoltre, di elaborare, gestire e coordinare progetti in collaborazione con altri uffici ed enti del territorio.
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