di Lella Di Marco
Nella pur complicata situazione del periodo che stiamo vivendo, ancora molto più complicata appare la situazione degli immigrati e degli emigranti. L’impegno a scavare oltre l’apparenza per conoscere e governare meglio il fenomeno, si presenta arduo ma non spaventa di certo. Il problema sono le fonti per avere dati non soltanto statistici, in modo da poter capire, senza interessi di parte o manipolazione determinata, come va il mondo, chi è l ’altro/a che si trova accanto a noi, per sperimentare una conoscenza reciproca, una convivenza possibile. Si parla di Migranti soltanto come Migrantes per intendere coloro che, provenendo da altrove, se sono riusciti a sbarcare nei nostri porti, hanno trovato muri, chiusure o magari, senza soccorso alcuno, sono rimasti in mare, i cosiddetti dispersi, preda dei pesci e delle mareggiate con morte sicura.
Riporto di seguito le parole di due noti intellettuali dal pensiero politico con il quale mi identifico, anche per introdurre gli appunti di ricerca e spiegare come ho cercato attraverso le esperienze dirette, le relazioni alla pari, di avvicinarmi ad un mondo gremito di silenzi, paure, ansie e frustrazioni, quello dei giovani, bianchi, neri, stranieri, richiedenti asilo o bisognosi soltanto di accoglienza umana.
«Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire» (Zygmunt Bauman, la società sotto assedio)
«Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri» (Don Lorenzo Milani)
Bauman, anche se spesso criticato, continua ad essere un faro illuminante per le sue intuizioni. Don Lorenzo Milani, per le sue scelte di vita “politiche” in ogni senso, con la sua pedagogia dell’inclusione, con la creazione della Comunità di Barbiana è ancora oggi un modello di lavoro alternativo per educare, istruire, promuovere consapevolezza e socialità, senso di appartenenza e coscienza dei diritti e dei doveri.
Causa pandemia mondiale, molte cose sono cambiate negli ultimi due anni, a livello esistenziale e collettivo, nelle politiche dei governi e negli assetti sociali. Così frasi che erano declamate, da qualche politico, come slogan politici: Aiutiamoli a casa loro, rivolte a stranieri che bussavano alle nostre porte per sfuggire a morte sicura da guerre, malattie, persecuzioni, fame, sembrano di fatto essere state pienamente e drammaticamente inverate.
Il mio modo empirico di indagine per il reperimento delle informazioni è facilmente deducibile anche dal linguaggio che uso: niente burocratismi, niente supponenza accademica, ma soltanto quanto mi hanno detto migranti bianchi o/e neri con i quali sono entrata in relazione come una di loro, tra l’altro anch’io immigrata dalla Sicilia a Bologna nei lontani anni Settanta, magari in una fase storica meno conflittuale e in un diverso contesto economico, in una contingenza quindi più fortunata di loro. Confesso che quando li avvicino, mi qualifico e mi presento come nata a Trapani, poco distante da Lampedusa, ricevo attenzione da parte loro e piena fiducia per il fatto di essere rassicurati che non saranno ingannati né strumentalizzati come stranieri.
I giovani che ho davanti e con i quali mi intrattengo saranno stranieri, estranei alla nostra cultura, lingua, comunità, ma non sono arrivati ieri, spesso sono nel nostro territorio da molto tempo ma si sentono, e sono considerati ancora, estranei-stranieri appunto. Per quanto indicati come prima, seconda ed anche terza generazione di immigrati, sono e restano semplicemente stranieri. Ovviamente per parlare con costoro non serve una mediazione linguistica, molti sono padroni della lingua italiana anche se non la parlano a casa, in famiglia. Sulla loro pelle avvertono rifiuto, avversione, diffidenza nei loro confronti. Sentono che l’Italia non è il loro Paese, finiscono col vedere il loro futuro altrove. Forse su questo almeno, la politica dovrebbe interrogarsi.
Uno sguardo sull’Emilia Romagna
Da più parti si continua a dire che il fenomeno migratorio è talmente articolato anche nelle sue mutazioni antropologiche che per decifrarlo occorrono competenze diverse, fondamentali quelle di antropologi in primo luogo, assieme a filosofi, sociologi, demografi etc. Non discuto sulle competenze specialistiche ma a monte, però, ci sono le scelte politiche, che spettano al Parlamento, alle istituzioni regionali e comunali. Senza riserve, rinvii o timidezze.
Io vivo a Bologna da cinquanta anni e ricordo, nelle prime ondate di immigrati, l’impegno della Regione o dei comuni nel promuovere Osservatori comunali sull’immigrazione con profonda attenzione ai cittadini stranieri provenienti da una miriade di Paesi e continenti, con progetti di vita a medio o lungo termine. Non un problema emergenziale, visto esclusivamente come forza lavoro da assistere e proteggere, finalizzato allo sviluppo economico del nostro Paese, il fenomeno, al quale pure quella forza lavoro, anche non specializzata, poteva servire, è stato governato con strumenti di politica lungimirante. Si vedeva il problema nella sua globalità, fuori da ogni settorialità di ricerche per raccogliere tutti i fili e legarli ad una intelligente progettualità elaborata come obiettivo strategico. Per anni l’antropologa Matilde Callari Galli ha lavorato come consulente per il comune di Bologna e, pensando, per il futuro, al formarsi di comunità meticce ha organizzato appositi percorsi politici e culturali come contributi utili all’inclusione sociale. Oggi la ricerca è stata annullata, gli unici dati, oltre quelli anagrafici raccolti dalla Regione Emilia Romagna, sono opera della Caritas o di altre organizzazioni religiose e private. Il settore pubblico appare in difficoltà ad agire e intervenire in prima persona, mentre continua a finanziare le iniziative private, non sempre adeguate e disinteressate.
Nel ripensare a utili e più recenti ricerche condotte da antropologi, il mio pensiero va a Marco Aime e al suo L’isola del non arrivo, cioè Lampedusa. L’autore ci è andato per una indagine sul campo, non tanto sui migranti ma sulla accoglienza spontanea da parte dei lampedusani e sul cambiamento della comunità a seguito della presenza dei nuovi arrivati. Del resto l’isola per la sua collocazione geografica si trova a essere “Porta d ’Europa” per migliaia e migliaia di africani da oltre un quarto di secolo. Questo lavoro di Aime ci ha fatto capire tante dinamiche “umane” sugli sbarchi, sui modi di fare accoglienza e su come si possa con-vivere senza imposizioni e assimilazione. Ma Lampedusa è e rimane una realtà unica e non riproducibile. Un’isola, nella geografia e nella storia.
L’ultimo Rapporto anni 2020-2021 che consente di meglio definire le tendenze predominanti che caratterizzano il fenomeno migratorio in Emilia-Romagna, certificano, da un lato, una sempre più marcata tendenza alla stabilizzazione della popolazione straniera residente in termini demografici, economici e sociali, e dall’altro lato, una stagnazione dei nuovi ingressi per motivi di lavoro nonché una crescita, a partire dal 2013, di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e umanitaria, neo-arrivati nell’ambito di flussi non programmati; flussi che peraltro, nel corso dell’ultimo triennio, hanno registrato una drastica frenata.
I dati rilevati dall’Osservatorio regionale, sicuramente utili per accertare alcuni movimenti di persone e interventi istituzionali, non riesce del tutto a rendere l’idea della consistenza del fenomeno. Intanto è doveroso porre attenzione sulla catastrofe mondiale dovuta all’epidemia Covid 19, che ha impedito sia spostamenti interni che esterni in tutto il territorio, dal Nord al Sud della penisola come i viaggi degli stessi italiani all’estero. Basti pensare agli stessi studenti impediti a spostarsi per usufruire dell’Erasmus. Si consideri poi il rarefarsi dei contatti diplomatici e degli aiuti economici verso alcuni Paesi europei per impedire l’emigrazione da Paesi del Medio Oriente o dal Maghreb. Mi ha molto colpito come da questi Paesi tradizionalmente terra di emigranti, con l’aiuto anche dell’Emilia Romagna ci sia insistente l’invito “Investi in Marocco”-“Investi in Tunisia”. In pratica si è contribuito alla costruzione di infrastrutture che è valso a sottrarre terreno all’agricoltura e edificare strutture per il turismo o per altre finalità funzionali agli interessi degli investitori stranieri. Si spiegano così certi rapporti privilegiati tra Marocco ed Emilia Romagna, anche come scambio di attività culturali e partenariato.
Meritano maggiore attenzione le piccole iniziative imprenditoriali che vedono protagonisti gli immigrati: dai rivenditori di generi alimentari ai ristoranti e caffetterie etniche. Intere vie o addirittura quartieri di Bologna sono gestiti da marocchini che dal loro arrivo hanno preferito investire su attività commerciali, con un loro percorso migratorio a lungo termine. Hanno in qualche modo ricostruito il loro habitat naturale, portando al seguito moglie e figli, gestendo le botteghe con buone relazioni con la clientela locale e favorendo il sorgere di associazioni con altri immigrati dallo stesso Paese di provenienza. Costoro, riconosciuti come interlocutori fidati a tutti gli effetti, in buona parte garantiscono anche un certo controllo del territorio, contro atti di terrorismo, di vandalismo, di disordine di ogni genere, di molestie o comunque attacchi alle persone anche in difficoltà. Sono gli stessi che, assieme alle collaudate associazioni di migranti, hanno garantito, durante il lockdown, assistenza e soccorso ai connazionali in difficoltà e ai senza fissa dimora e possibilità di consumare quotidianamente almeno un pasto caldo, gestendo a loro spese alcune mense popolari. Hanno contribuito in tale modo ad evitare ulteriore solitudine e disgregazione sociale.
Imprenditoria locale ed etnie
Non è un mistero per nessuno che le scelte di organizzazione sociale, dei servizi della forza lavoro, avvengono non in base ai reali bisogni della popolazione ma in funzione di quanto è più vitale all’economia. In pratica questa ultima, nullificata la politica ufficiale, si trova a decidere tutto, sceglie di aiutare eventuali immigrati portando a casa loro l’offerta di produzione delle merci. Così può capitare a noi di indossare una maglietta prodotta in Vietnam, un pigiama confezionato in Bangladesh, o delle scarpe e borsette fabbricate in Cina. Anche qui nulla di sconvolgente, tutto dentro la logica dello sviluppo capitalistico ed è ancora valida l’analisi di Marx che vedeva nelle stesse capacità del capitalismo il modo di superare le sue periodiche crisi fisiologiche. A tale proposito ricordo molto bene, come negli anni Sessanta Bologna fosse piena di casalinghe che producevano in casa merce ordinata dall’allora Unione Sovietica, quando il mediatore era il Partito comunista italiano. Era prestazione in nero, senza garanzie, con lo sfruttamento della forza lavoro e del ruolo femminile nella famiglia. Nello stesso tempo (magari lavorando di notte) la donna-operaia in casa rispondeva al padrone e non abbandonava il ruolo di madre e moglie.
Sempre da confidenze dei miei interlocutori stranieri, sembra che le imprese non abbiano bisogno di manodopera specializzata né di lavoratori sindacalizzati attenti ai loro diritti, ma di fiducia aprioristica. Saltando l’ufficio di collocamento e ogni altra trasparente mediazione istituzionale, si fa ricorso a manodopera fidata, braccia che non faranno rivendicazioni di diritti, lavoratori assunti senza contratto e senza garanzie sul posto di lavoro. Da qui gli incidenti mortali e la rabbia di chi rimane esclusi da questo racket.
Il caso Novellara
Così non è a Novellara dove sono da tempo stabilmente presenti comunità di immigrati indiani sikh, provenienti dal Punjab, esempio eclatante di integrazione con scambio significativo e solidale di prestazioni. La loro immigrazione non è recente ma nel tempo si mantiene costante nelle presenze. Si tratta di piccoli negozianti o ristoratori ma in numero notevole sono i lavoratori nei caseifici e nella gestione delle stalle fra le mucche. Lavorano anche nei campi come agricoltori in questa cittadina di 14 mila abitanti in provincia di Reggio Emilia che gestisce la più grande produzione di parmigiano reggiano con esportazione significativa e un fatturato sempre più in aumento. Ecco una realtà dove la crisi non viene affatto sentita. Gli abitanti nativi e migranti coabitano in armonia con reale rispetto e reciproco riconoscimento, tanto che i locali hanno sostenuto economicamente la costruzione del loro tempio Gurdwara – letteralmente “porta del Guru” sul territorio italiano. Inaugurato nel 2000 da Romano Prodi, allora presidente dell’Ue, è il secondo in Europa per dimensioni, superato solo dallo storico Gurdwara centrale di Londra. Ogni domenica, più di 600 persone da Novellara e dai comuni limitrofi trascorrono parte della giornata in quel luogo con la propria famiglia. La missione dl Gurdwara è aiutare l’intera comunità: se qualcuno si trova in difficoltà, può contare su un fondo cassa istituito al tempio a cui tutti possono accedere senza distinzione etnica.
La giornata di scambio, di meditazione e incontro è la domenica. Al tempio si entra senza scarpe come nelle moschee, mentre ai piani alti, in locali separati, avvengono la condivisione del cibo, la meditazione al fine di acquisire pace interiore e realizzare maggiore armonia fra gli esseri viventi. Gli uomini diffondono la loro cultura all’esterno della famiglia e dialogano con le istituzioni. La maggior parte delle donne non parla l’italiano, si occupa della gestione della casa e dell’educazione dei figli. Altra faccenda sono i giovani di seconda generazione, che parlano bene l’italiano e che intendono vivere alla pari il rapporto con i loro coetanei, conosciuti fra i banchi della scuola.
A proposito di seconde generazioni
Qualche anno fa ad un convegno sullo stato delle seconde generazioni in Emilia Romagna o comunque in Italia ho ascoltato, con piacere, l’intervento di un giovane pachistano laureato in scienze politiche che con tono piuttosto sicuro ma risentito dichiarava che, loro nati in Italia da genitori immigrati, non sono “secondi a nessuno” e comunque non avrebbero mai permesso a questo Paese di essere sfruttati ed emarginati come hanno fatto con i loro genitori.
Oggi lo stato sociale ed emozionale non è cambiato ma non esistono rivendicazioni di massa o barlumi di movimento di protesta, con proposte alternative per una convivenza pacifica e dignitosa. Cresce nell’ombra una massa di giovani scontenti, umiliati, isolati. Si rifiuta, giustamente, perché ritenuta offensiva, la parola tolleranza ma le scelte nel rapporto con il nostro Paese sono e restano individuali. Io ho avvicinato alcuni giovani figli di immigrati per raccogliere le loro voci, conoscere i loro umori, per capire meglio il loro malessere. Di seguito due testimonianze fra quelle raccolte, tra i nati da famiglie miste, più o meno dello stesso tono.
M.P. anni 23, nata e cresciuta a Bologna da madre egiziana e padre italiano.
Che significa per te essere figlia di una coppia mista, rispetto all’educazione ricevuta e al clima familiare che sono elementi fondamentali nella formazione della tua identità?
«Mia madre è nata in Egitto in un paesino vicino al Cairo ed è emigrata a Bologna perché mio padre italiano che all’epoca lavorava con un ’impresa edile in quel paese, si era innamorato di lei ancora sedicenne e l’ha chiesta in moglie. Sistemare una figlia con un matrimonio, quasi venticinque anni fa ma in parte anche adesso, in quei paesi è usanza diffusa, vuoi per motivi economici vuoi perché la donna è predestinata a fare la casalinga e ad occuparsi della cura e della educazione dei figli. Probabilmente mia madre non ha avuto neppure la libertà di scegliere, vuoi per mancanza di autonomia vuoi perché attratta dal venire in Occidente sicura di vivere una vita migliore. Così è stato. Una volta sposata è rimasta subito incinta ed io sono la prima di tre figli.
Ho sempre apprezzato mia madre, capendo le sue difficoltà a vivere in un Paese straniero, senza legami familiari che comunque rappresentano sempre un sostegno ed una sicurezza nei momenti di difficoltà. Mia madre, ancora adolescente, si è trovata a doversi ri-costruire interiormente e a gestire il ruolo difficile di madre. Mio padre era già musulmano quando l’ha conosciuta, altrimenti non avrebbe potuto sposarla, perché alle donne musulmane non è consentito sposare un infedele».
Tu indossi il velo: significa che la tua formazione è decisamente sul piano religioso-culturale legata all’islam e questo determina anche oggi le tue scelte di vita?
«Ragionando serenamente ti posso dire che il velo per me, ancora oggi, fa parte dei condizionamenti che ho avuto. Ho cominciato ad indossarlo per imposizione di mio padre. Non volevo dargli un dispiacere a non ubbidire, ma ti posso dire che mi sento molto laica, in tal senso penso di toglierlo ma prima voglio parlare con un imam per essere consigliata bene da noi, nei momenti di confusione la voce dell’imam è decisiva.
Vedi io vivo due realtà contemporaneamente. É come se io avessi due appartenenze, due case. Se sono felice e mi trovo bene, la mia casa è Bologna, però appena atterro in Egitto è come se respirassi meglio. Dimentico tutto e mi dirigo verso casa mia, anche se in Egitto neppure mia madre ha più una casa. Lì sono rimasti soltanto lontani parenti. Alcuni sono morti altri sono emigrati come una mia zia che ha sposato un palestinese ed oggi vive nella fascia di Gaza».
Ma quanto mi stai dicendo è stata fonte di tuoi conflitti interiori soprattutto nelle fasi di preadolescenza e adolescenza?
«Assolutamente no, anzi spesso ho avuto dei riscontri piacevoli, almeno così li ho vissuti io. Non mi sono sentita mai diversa, non accettata né a scuola né all’Università. Di una sola cosa sono stata sempre certa, che avrei studiato, mi sarei laureata, per svolgere un lavoro intellettuale che mi piacesse, per essere stimata ed apprezzata anche per il mio sapere e per l’essere competente e onesta professionalmente. Questo in parte si è realizzato e ne sono orgogliosa anche perché ho faticato e sofferto molto nei miei anni passati. Ma non sono stata mai abbattuta o disperata per questo, neppure quando mia madre andava a lavorare al mattino molto presto e a me spettava il compito di badare agli altri due bambini piccoli. I libri e lo studio mi hanno salvata dal deprimermi anche quando in quel periodo dopo aver tenuto i bambini per tutto il giorno, ero costretta a frequentare la scuola superiore serale per conseguire un diploma ed iscrivermi all’Università. Così è stato. Ho scelto una facoltà in cui mi è molto utile la mia lingua madre, l’arabo classico, quello che si impara alle università egiziane, ed io l’ho imparato dalla mia mamma e dalle sue amiche connazionali. Io sono iscritta ad ARCO per lo studio in Antropologia, Religioni, Civiltà Orientali, facoltà bellissima con docenti bravissimi, molto apprezzati dagli studenti perché capaci di ascoltarli e comprendere i loro bisogni».
Come sono i rapporti con i tuoi coetanei?
«Ho rapporti alla pari, senza pregiudizi o rifiuti. I ragazzi arabi capiscono subito che sono araba in versione migliorata cioè scolarizzata, aperta alle relazioni ma non sfacciata o invadente. Io parlo e discuto con tutti ma ho il senso del limite e poi comunque il mio riferimento etico è il Corano. Di questo non faccio un mistero. Con le ragazze nessun problema lo stesso, parliamo di tutto e personalmente sono disposta ad ascoltarle e a sostenerle se hanno momenti difficili o sentimentali o scolastici».
Come e dove vedi il tuo futuro a cominciare dal lavoro?
«Per rispondere onestamente devo fare riferimento alla realtà complessiva dell’Università, del clima politico che avanza in Italia, della condizione lavorativa delle donne che ovunque sono penalizzate e poi del clima che si è creato in famiglia con i comportamenti complicati e distruttivi di mio padre. Andando con ordine l’essere quella dei miei genitori una coppia mista, a lungo andare per noi figli è stato deleterio. Mio padre ha abbandonato la famiglia non appena nato il mio fratellino che adesso ha 12 anni. Nessun rapporto più con noi figli, anzi sfoghi negativi, nessuna affettività, pregiudizi e giudizi negativi nei confronti della mia mamma che non sarebbe stata, a suo giudizio prevenuto e pretestuoso, una brava mamma musulmana. Ma su questo non insisto anche perché è la normalità in moltissime coppie miste. Quelle famiglie sono il luogo più difficile per crescere serenamente. Di questo temo che le mie ferite non siano cicatrizzabili. Poi mi sarebbe piaciuto rimanere a lavorare all’università, magari come ricercatrice ma verifico continuamente che l’università almeno a Bologna è un luogo chiuso ermeticamente. Se non hai conoscenze, se non sei già introdotta e sostenuta per meriti familiari, non hai accesso neppure nei posti meno qualificati. Poi mi sconforta molto la scarsa considerazione delle intellettuali sul posto di lavoro Tanto risulta da una ricerca tematica sulla differenza di genere condotta nel 2020 da Alma Mater Laurea dell’università, che rileva come le donne laureate più brave dei maschi vengono pagate di meno e come le stesse presentino un tasso di disoccupazione maggiore almeno di 15 punti in percentuale. Tra l’altro anche il voto di laurea fra le donne è superiore a quello dei maschi ma per entrare nel mondo del lavoro non conta. Per tali motivi reali ritengo difficile la mia permanenza in Italia. Conseguita la laurea, essendo riconosciuta anche nei miei studi universitari, di madrelingua araba non avrei difficoltà come mediatrice culturale a lavorare in una realtà imprenditoriale araba. Sto già prendendo contatti con imprenditori di Dubai e con alcune realtà del Regno Unito per un approfondimento conoscitivo della lingua inglese. In Italia vedo la mia futura vita lavorativa al ribasso».
S.B. anni 23, studente in Accademia: grafico
Come stai vivendo l’attuale fase della tua vita e che cosa ti sta sollecitando a fare scelte molto radicali anche per il tuo futuro?
«Come sai quelli come me, figlio di una coppia mista, sembrano avere un ’identità doppia, nel mio caso italiana e araba, ma una vita a volte difficile e controversa. Mia madre è bolognese, mio padre marocchino di Casablanca, di discendenza berbera. Ci fu un tempo a partire dalla preadolescenza in cui tale dicotomia mi è pesata molto. Mi sentivo diverso dai miei amici e compagni di scuola. Dover frequentare la moschea per le preghiere, i riti vari o spezzare il digiuno al Ramadan fra famiglie arabe e luogo di culto, mi sembrava una punizione per farmi allontanare dai miei amici. Loro si riunivano nelle case lasciate liberi dai genitori a fare feste, magari trasgredendo, ed io invece a pregare senza divertirmi. Infatti ho capito in seguito che ogni imposizione o divieto senza lasciare la libertà di scelta ad un individuo che sta crescendo e deve ancora capire come va il mondo, non può che essere diseducativa, anzi un modo per indirizzarlo decisamente verso scelte opposte, magari di trasgressione, senza la consapevolezza del limite. Eravamo in Italia, anche se la presenza di arabi era accettata e non rifiutata, come spesso si vede negli ultimi anni. Però quando in estate andavamo in vacanza in Marocco, quella realtà mi piaceva molto. Noi abitavamo nella casa in cui viveva mio padre da giovane, c’era ancora la nonna, e la casa vicino al centro storico mi appariva una ubicazione molto vivace socialmente. Per strada ambulanti con ogni genere di mercanzia, dal cibo agli animali commestibili, bambini che potevano giocare per le strade e amici o conoscenti che si incontravano in continuazione. Poi c ’era vicino anche un campo di calcio dove si poteva giocare liberamente. Avevamo organizzato delle squadre con altri ragazzini e il divertimento, la compagnia, il tempo da trascorrere all’aria aperta, erano assicurati, Vivere all’aperto è respirare meglio, essere più ossigenati, quindi anche più vivaci nel pensiero. Crescendo, studiando, chiarendo con me stesso le mie predisposizioni attitudinali, anche le preferenze artistico-creative, mi sento arricchito dalla doppia appartenenza, con le due culture. Lo vivo come un privilegio, non mi sento diverso in negativo e non ho più conflitti con mio padre. Capisco di più le sue motivazioni, la sua origine, la sua vita e la necessità della emigrazione alla ricerca di un luogo in cui vivere, sicuro, ospitale, dove i diritti non sono un miraggio. Adesso io sono affascinato e attratto dai movimenti giovanili che sono sorti in Marocco, dai gruppi che si dedicano al restauro di quartieri abbandonati, da chi dipinge murales utilizzando un diverso modello di comunicazione oltre la parola detta. E poi le continue scoperte di capolavori di architettura araba non contaminata come se la produzione artistica di quel luogo fosse ancora tutta da scoprire
Io ho una specializzazione accademica in grafica, accarezzo l’idea di trasferirmi definitivamente in Marocco anche per esercitare la mia professione per la quale ho studiato, acquisendo anche competenze tecniche. Ecco quel Paese per me in questo momento è in una fase di sviluppo ed io ci vedo la possibilità di realizzare quell’affermazione che in Italia mi sembra negata. soprattutto nel mio cammino verso l’adultità».
Mai come negli ultimi anni quanto sostenuto dall’antropologo Marco Aime in Eccessi di culture, testo pubblicato da Einaudi nel 2004, sembra essere evidente. Nessuno dei molti giovani da me intervistati, pone un problema di cultura di appartenenza territoriale o etnica, di identità da difendere e salvare. Chi oggi ha 20-23 anni, cresciuto in una realtà multiculturale, chi ha studiato e giocato con i coetanei, nativi e migranti, non si pone questioni identitarie. Con l’eccezione dei giovani di origine araba profondamente islamizzati tanto da determinare scelte estremiste, radicali e irreversibili, il disagio che essi vivono nell’attuale fase storica è uguale a quello di tutti i loro coetanei autoctoni. Sono tutti giovani che vivono nella società dell’incertezza, nella globalizzazione dell’economia, nel massimo dell’alienazione e dello sfruttamento lavorativo, in famiglie spesso disgregate per motivi oggettivi, usciti da una scuola inadeguata ai tempi, incapace di educare e formare o di avviare al mondo del lavoro.
Il movimento degli studenti ancora in atto come critica nei confronti dell’istituzione scolastica, della metodologia di insegnamento inadeguata a suscitare pensiero critico e comunque abitudine a produrre pensiero, pur nella sua ingenuità politica e inesperienza in pratiche di contrapposizione istituzionale, ha unificato i giovani, di qualunque estrazione, evidenziando un malessere generalizzato, esistente oltre la scuola. Quale attenzione politica è nei loro confronti e dove cercare quello Stato che dovrebbe proteggerli e garantire almeno i principali diritti umani e costituzionali?
Omar, 22 anni, genitori egiziani con diploma presso scuole tecniche, impiegato nella grande distribuzione alimentare, giornata lavorativa di almeno 12 ore e salario di 900 €. Stimato dai dirigenti di settore e dal datore di lavoro, in grado di soddisfare il contatto relazionale con i clienti, non vede prospettive di miglioramento nella sua condizione di lavoro ed economica né alcuno spazio di rivendicazione salariale o di sindacalizzazione. Vive sotto il ricatto di un licenziamento senza appello. Tale situazione non gli permette né di accendere un mutuo né di affittare una casa vivibile. Non valgono le proteste né le denunce anche legali. Negli uffici del Comune si sente rispondere che loro “stranieri” sono continuamente a pretendere senza dare nulla in cambio. Così parlano le istituzioni, mentre lui soffre il rifiuto di certe persone che, sapendolo islamico e vedendolo con la barba lunga, pensano possa essere simpatizzante dell’ISIS, e lo evitano. Omar è determinato a lasciare l’Italia con la sua famiglia, per un altro Paese europeo più accogliente o piuttosto per andare in Canada.
Kaled, 22 anni, di origine tunisina ha un diploma di scuola tecnica, sa riparare biciclette e motorini ma nessuna ditta riesce ad assumerlo. Non trova neppure da poter conseguire in materia una maggiore competenza per cercare lavoro e magari una sistemazione adeguata in Tunisia, dove sarebbe disposto a vivere il suo futuro. Guadagna qualcosa facendo il rider.
Come Kaled molti ragazzi si sentono rifiutati, non ascoltati, privi di un ruolo attivo nel Paese Italia. Alcuni di loro di origine araba non sempre rimangono indifferenti alla seduzione del fondamentalismo e alle possibili vie d’uscita con scelte radicali che li fa credere protagonisti e potenti nella società. Le ragazze, invece, anche scolarizzate, consapevoli, determinate nel rivendicare i loro diritti di genere e di esseri umani, vivono una frustrazione interiore con il pericolo di abbracciare rapporti sentimentali autodistruttivi e la speranza di realizzarsi finalmente con l’amore.
Leila, 21 anni, italo-algerina, secondo anno in antropologia e scienze sociali, pur essendo fiera della doppia appartenenza culturale che la rende più ricca anche umanamente, dice di non sapere ancora qual è il suo posto nel mondo. Accarezza l’idea di vivere il suo futuro a sostegno della gente che si trova in zone di eterno conflitto di guerra. Non intende rimanere in Italia, si vede piuttosto proiettata nel mondo della cooperazione internazionale.
Le testimonianze di questi figli di famiglie miste impongono qualche riflessione sulle implicazioni culturali nei processi della loro formazione e crescita. Ancora troppo poco si sa su questa realtà e su quanto incida sui fenomeni di disagio psicologico e devianza sociale. C’è bisogno di tornare a fare ricerca sul territorio, di indagare in profondità sulle dinamiche antropologiche che interessano queste particolari generazioni di giovani. C’è bisogno di una politica culturale più attenta alla promozione e diffusione di conoscenze su quanto accade ai margini di questo mondo che abita nelle nostre città nell’invisibilità dell’opinione pubblica e nella disattenzione delle istituzioni. A Bologna – è vero – non mancano le iniziative promosse da associazioni private che pongono attenzione alle culture delle popolazioni migranti. Recentemente è stata allestita una notevole mostra sulla deportazione degli schiavi dall’isola di Gorèe, in Senegal. Ma – a guardare inerzie, silenzi, omissioni sulla condizione dei giovani ospiti della città – si ha l’impressione che la cultura ci interessa e le persone no, anche se di quella cultura sono portatori, in carne e ossa.
Nel frattempo i giovani figli degli immigrati maturano la decisione di andare via dall’Italia e il loro esodo sembra non essere diverso da quello dei nostri figli che cercano altrove diritti di cittadinanza e dignità di uomini.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.
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