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di Silvia Mazzucchelli
Rotolata giù per il pendio di una montagna per scattare la foto a un cane che insegue una pecora impazzita, Grace Robertson non si preoccupa dei lividi, del sudore e dello scampato pericolo tra i massi e nella nebbia. Siamo nel 1951 e pensa: “mi ci era voluto molto tempo e molta fatica per guadagnarmi il diritto di essere l’altra metà di una squadra di giornalisti-fotografi di Picture Post, ed ero determinata a dimostrare che in materia di agilità e resistenza professionale ero all’altezza di qualsiasi uomo”.
Nella storia della fotografia, per troppo tempo alle donne era stato assegnato il ruolo di muse ispiratrici o di modelle; tutt’al più assistenti o collaboratrici: per il ritocco e la colorazione, il lavoro di laboratorio, il collage e la formazione di album, e persino la vendita di immagini. Marie Robert, nel saggio introduttivo a Une histoire mondiale des femmes photographes (2021), ricorda che Luis Daguerre, quando annunciò al pubblico la sua scoperta alla fine del 1838, affermò che, «[...] sebbene il risultato sia ottenuto con mezzi chimici, questo piccolo lavoro [potrebbe] piacere molto alle signore». La Kodak si è affidata, fin dal lancio della sua prima fotocamera portatile nel 1888, e per decenni, alla figura della “Kodak Girl”, l’incarnazione della dilettante senza conoscenze tecniche. Nel 1932, una pubblicità del marchio Leica mostrava mani femminili che, finalmente, «non avrebbero più fatto foto sfocate» grazie alla messa a fuoco automatica. Fino alla Polaroid che, nel 1972, mostra una donna che, con una fotocamera, diceva: “È davvero molto facile!”.
In fotografia, lo status delle donne era quello di mogli, vedove, amanti, sorelle o figlie di un uomo, in tutto uguale a quello che era generalmente stato per secoli. E se accadeva che qualcuna si discostasse dallo schema, inevitabilmente diveniva oggetto di scherno o ironia, come Alice Schalek, reporter sul fronte orientale durante la Prima guerra mondiale, definita “iena da battaglia” da Karl Kraus, o “Valchiria di ferro”, nomignolo attribuito a Germaine Krull a causa del suo Metal (1928), composto da scatti di architetture metalliche, fra cui la Tour Eiffel, trasformati in composizioni astratte.
Il Picture Post, l’equivalente britannico di Life, è una presenza costante a casa Robertson, dato che vi lavora suo padre Fyfe. «Viaggiava molto all’estero, sempre con un fotografo, e al ritorno descriveva le sue esperienze in un modo che mi riempiva di invidia». Lo stile della rivista è quello di raccontare storie compiute nelle quali vi sia equilibrio e misura tra scrittura e immagine. Se dapprima Grace pensa al giornalismo, decide poi che la fotografia sarà il suo destino. Lo dice al padre, che approva la sua scelta e le regala una Leica. È la stessa Grace, molti anni dopo, nella sua autobiografia Photojournalist of the 50s, a ricordare esattamente il momento della “chiamata” alla fotografia, in una grigia giornata di guerra in cui si ritrova a fare l’ennesima fila per le razioni alimentari:
«una volta all’interno del negozio mi trovai a guardare – davvero a guardare, per la prima volta – il macellaio in persona, un omone allegro con una buona parlantina che dispensava amabilmente mentre tagliava la misera razione di carne sul suo blocco. Quando mi sorprese a fissarlo mi fece l’occhiolino, senza rendersi conto che stavo osservando da vicino le possibilità fotografiche tra lui e i suoi clienti. Mi affrettai a casa in uno stato di grande eccitazione e tirai fuori da un armadio alcune copie del Picture Post. Le ho sparse sul pavimento. Ovunque mi fissavano volti: criminali di guerra, statisti, capi tribù, evangelisti e, ancora e ancora, volti di uomini e donne comuni. C’era persino la foto di una coda per mangiare, a Berlino. Mi sono accovacciata lì per alcuni minuti lasciando che il messaggio venisse recepito: è questo, mi sono detta, questo è quello che voglio fare, scattare foto come queste».
Foto come queste, foto di persone comuni, nel loro quotidiano.
La Robertson porta la fotocamera ovunque: stazioni ferroviarie, cantieri, piscine, campi sportivi scolastici. È decisa a costruire una storia, a cercare un proprio stile, sente il bisogno che le sue immagini siano anche latrici di una “dichiarazione visiva”. Fare la fotografa è una scelta inconsueta e disdicevole. Due sue compagne di scuola saranno spinte dalle famiglie a non frequentarla più. E accanto al pregiudizio sessuale c’è il pericolo che al Picture Post sappiano che lei è la figlia di Fyfe Robertson. Quindi, per presentare i suoi primi servizi, sarà Dick Miur. «Dick perché era il nome di un giovane che un tempo mi piaceva (…), e Muir perché era il nome da nubile di mia madre. Poi, poiché il nostro indirizzo sarebbe stato noto, mi accordai con una compagna di scuola per usare il suo».
Il primo servizio che propone al Picture Post è dedicato a una mostra di capre. L’intento era quello di dire qualcosa sull’Inghilterra rurale. Ottiene la risposta: «Perservera giovane uomo». Dedica il secondo servizio a una fiera tradizionale, un soggetto non troppo originale, ma che le avrebbe consentito di fotografare la folla, le luci, il trambusto della festa. Ottiene un’altra risposta: «questi sono promettenti, prova di nuovo».
Suo padre la indirizza da Simon Guttmann, che in Germania era stato direttore dell’agenzia fotografica Dephot, fondata nel 1928, dove avevano lavorato Robert Capa, Umbo, Felix H. Man, Kurt Hutton. Con l’avvento del nazismo si era trasferito in Inghilterra, dove nel 1946 aveva fondato l’agenzia fotografica Report. Guttmann, ricorda la fotografa, non pretendeva la perfezione tecnica e avrebbe tollerato un’immagine leggermente sfocata, ma non avrebbe perdonato un’esposizione fatta un secondo troppo presto o troppo tardi, un’inquadratura sbagliata o un effetto a buon mercato. E tra le raccomandazioni di questo rigido tedesco c’era quella di mantenere semplici le foto, e di «usare i propri occhi, non quelli degli altri». In un’occasione, ancora, si era rivolto contro la fotografa dicendole con veemenza: «Hai un occhio innocente – perché devi tradirlo? Guarda, questo è falso».
Nonostante i giudizi estremamente severi di Guttmann, la Robertson lavora con lui per un anno, ma dopo l’ennesima sfuriata decide di andarsene, portando tuttavia con sé i preziosi consigli sulla semplicità e l’innocenza. Liberatasi da quell’eccessivo controllo, Grace si sente più libera e prova a rimandare altre immagini al Picture Post, tra cui una serie di foto di sua sorella Elisabeth mentre fa i compiti. Harry Deverson, redattore di fotografia del giornale, la contatta per dirle che sono state apprezzate e saranno pubblicate. La invita in redazione e le presenta gli altri fotografi: Kurt Hutton, John Chillingworth, Slim Hewitt, Bert Hardy, Haywood Magee.
Il primo passo è fatto. La sua tenacia è stata premiata: ha vent’anni e sta per dare inizio ad una promettente carriera di fotografa. Lavorare per il Picture Post significava ideare una storia con un preciso sviluppo narrativo. Ci si doveva confrontare con uno scrittore, e prima di fotografare si decideva insieme come procedere con il servizio. La fotografia ricopriva un ruolo fondamentale: alle riviste non interessavano testi illustrati da immagini quanto un racconto fotografico accompagnato da un testo o da brevi didascalie.
In questi anni la secolare gerarchia tra parola e immagine cominciava ad essere invertita. Nel 1951 viene dunque pubblicata la sua prima serie di scatti: A Schoolgirl Does Her Homework, sulla sorella che fa i compiti. Nello stesso anno le viene commissionato un servizio sulla tosatura delle pecore a Snowdonia nel Galles, Sheep Shearing in Wales. Qui le pecore vengono tosate a mano perché le cesoie meccaniche taglierebbero il vello troppo corto per le fredde temperature di un posto che la neve ce l’ha persino nel nome. Gli operai, intenti al lavoro, sembrano ignorare completamente la stessa esistenza di una fotocamera. Ciò che sorprende è la mancanza di finzione, quasi che la presenza fisica della fotografa sia stata neutralizzata da una naturale contiguità con i soggetti fotografati. Questa caratteristica, peculiare della Robertson, attraversa tutta la sua produzione, e non si può certo dire che la sua statura, oltre un metro e ottanta di altezza, l’abbia aiutata a passare inosservata.
Tra le sue prime letture di fotografia, Grace cita Speaking Likeness, di Kurt Hutton, il più anziano fotografo del Picture Post, in cui si legge: «Se i volti degli uomini e delle donne, il modo in cui si muovono e parlano, non ti dicono qualcosa su di loro, allora anche le tue foto di questi uomini e donne probabilmente non diranno nulla di loro. Le persone in sé devono significare qualcosa per il fotografo prima che egli sia in grado di produrre una loro somiglianza parlante nelle sue fotografie». L’anno seguente realizza un servizio sui visitatori, meglio le visitatrici, “amanti dell’arte” alla Tate. Capannelli di donne attempate, vestite in modo formale, con cappellino e guanti regolamentari, alle prese con poco decifrabili capolavori dell’arte contemporanea. Nei loro volti si coglie un senso di straniamento, un ritrovarsi in un posto sconosciuto e inesplorato. La garbatissima ironia non è scherno, e l’oggettivo scarto tra formalità borghese e linguaggi artistici non produce distacco da quelle donne che, al contrario, sembrano “simpatiche”. A maggior ragione la vicinanza si fa intimità con i ragazzini che giocano, nella serie intitolata Wimbledon Common.
Ma è nelle fotografie dedicate alle donne che si trova l’esito più originale del suo lavoro. In queste immagini confluiscono il suo desiderio di fare la fotografa, la volontà di conoscere a fondo la condizione femminile negli anni Cinquanta e l’esperienza professionale con Guttmann, oltre a una grande fiducia nelle proprie capacità. «Durante la depressione della fine degli anni Quaranta e dell’inizio degli anni Cinquanta cercavo, forse inefficacemente, di arrivare a una qualche posizione accettabile per me stessa, e coglievo ogni occasione per lavorare a storie che mi permettessero di incontrare altre donne», scrive nelle sue memorie.
L’occasione si presenta quando le viene affidato l’incarico di seguire le ballerine delle Bluebelle Girls, che si dovevano recare in Italia per un tour. Si accorge che, pur provenendo da ambienti molto diversi, le ragazze non hanno alcun problema di convivenza: «trovai qualcosa di molto eccitante nel poter mostrare un gruppo di giovani donne che lavorano insieme con entusiasmo lontano da casa e dal paese. Sentivo che avrei potuto aiutare a rendere le persone consapevoli del fatto che le cose stavano cambiando in meglio nella nostra società divisa in classi». Il servizio, Miss Bluebell’s Girls Go To Italy, viene pubblicato nel 1952.
Pochi anni dopo, nel 1954, è lei stessa a proporre alla sua redazione un nuovo lavoro. Si tratta di una gita per sole donne, a Margate. Per conoscerle meglio decide di frequentarle e si reca nel pub di Battersea che erano solite frequentare. Beve, parla, diventa una di loro. Del viaggio verso Margate, la fotografa ricorda che fu un grande spasso: si cantava, si danzava, ed una cassa di birra veniva estratta dal bagagliaio ad ogni fermata. «Dai, tesoro, mi supplicavano, ti diverti?». «Mi stavo divertendo proprio, cercando di stare al loro passo. Stavano certamente mostrando ad una giovane donna proveniente da un ambiente piuttosto diverso cosa potessero significare la resistenza e il godimento schietto e spontaneo. Era stato proprio il loro giorno, ed era certamente uno di quelli che non avrei mai dimenticato».
Non si può non sorridere e non essere emotivamente contagiati da questi gruppi di donne in libera uscita: nessuna bellezza ostentata, nessun timore di apparire piacenti o di compiere gesti accattivanti, nessun uomo da cui essere guardate. Ogni volto, ogni abito, ogni sorriso è sinonimo di assoluta libertà. È merito della fotografa, della sua capacità di mimetizzarsi, del suo stesso bisogno di vivere al di fuori dei ruoli, se queste donne non si sono preoccupate di essere fotografate e di finire sulle pagine del Picture Post. L’efficacia narrativa delle foto non è l’effetto di una candid camera nascosta con finalità comiche o antropologiche quanto, invece, di un candore espressivo comune alle donne e alla stessa fotografa, sottratte a qualsivoglia giudizio. Candore che esplicitamente si riferisce a gesti, atteggiamenti e situazioni infantili, dove la regressione anagrafica suscita la nostalgia mitica per l’età più bella.
Le foto della Robertson aderiscono alle loro storie come un abito ritagliato da una sarta capace di elevare le imperfezioni a bellezza. Il servizio Mother’s Day Off viene pubblicato nel 1954. L’allegria, l’indipendenza, il desiderio di abbandonare, anche per poco tempo, le incombenze che rendevano la vita quotidiana un cumulo di irrinunciabili doveri, oltrepassano lo spazio angusto del fotogramma e giungono sino a noi.
«Si dice spesso che non c’è una storia nella felicità. Probabilmente questo è vero per il mondo della finzione, ma fortunatamente il fotogiornalismo è ideale per catturare momenti di pura felicità, a volte anche un’ora o un giorno intero». Come per le donne in gita, la fotografa sa che la felicità consiste soprattutto nel piacere di godere della propria libertà, che via via diviene componente essenziale del suo modo di fotografare. Essere libere di scegliere i propri soggetti è una conquista che può rendere felici.
Nel 1955 la Robertson propone al suo giornale una serie di foto dedicate al parto. Anche in questo caso non era sufficiente documentare l’evento, bisognava in un certo senso parteciparvi, essere prossimi al soggetto. Entrare nella sala parto ed assistere ad una nascita significava prefigurare il proprio ruolo di madre, spingersi oltre il proprio ruolo di figlia ed esaltare l’istante del venire alla luce. Scegliere e proporre questo soggetto significava di nuovo scegliere la propria libertà. La Robertson insieme al parto stava fotografando se stessa, la sua venuta al mondo come fotografa: «ero troppo occupata a guardare la testa del bambino che appariva e quel pugno alzato sotto le luci, come per dire a tutti noi: “Bene, eccomi! Ce l’ho fatta!”». Purtroppo il servizio non viene pubblicato, dalla redazione le viene comunicato che le immagini del travaglio e della nascita avrebbero probabilmente offeso la sensibilità di un pubblico femminile di mezza età.
In compenso, la serie dedicata alle madri in libera uscita piacque così tanto che anche Life gliene commissionò una nuova versione. Secondo la fotografa le immagini della seconda gita non erano all’altezza del suo primo servizio. «I sequel non funzionano mai così bene. Mancava quel tocco di innocenza, quasi purezza, che si dichiarava magicamente in Mother’s Day Off». Non aveva avuto il tempo sufficiente di familiarizzare con il soggetto, di conoscere e frequentare le donne come era avvenuto per la gita a Margate. Non si sentiva fino in fondo una di loro. Inoltre queste donne coinvolgevano anche un certo numero di uomini, disposti a partecipare alla festa. Non erano state completamente autosufficienti come quelle di Battersea. Ma nel complesso, «anche se le fotografie mancavano di quel tocco di innocente abbandono (…), una baldoria che lasciava senza fiato portò il seguito ad una conclusione di successo».
Eppure anche in queste ultime foto c’è qualcosa che rimanda a un’epifania. L’innocenza, il candore, la purezza del suo sguardo le fanno apparire immerse in una perenne attualità. Non restano confinate nel passato. Nelle sue fotografie non si annida la morte. Il tempo non si ferma, il suo flusso non s’interrompe, il soggetto fotografato continua a vivere nel fotogramma. Sembra del tutto naturale, come la spontaneità del suo sguardo.
Fra le donne che festeggiano negli anni Cinquanta e noi che le osserviamo nelle foto non c’è alcun salto temporale. Si ha invece la sensazione contraria: la fotografia non coincide con l’“è stato” di Roland Barthes, cioè con un passato da salvare, ma con il “qui e ora”, che si traduce in un presente da vivere. Il suo sguardo non è quello di una cacciatrice di immagini. È distante tanto dalla perfezione di Cartier-Bresson quanto dalla rapacità di Weegee. Ciò che importa è la prossimità al soggetto, la vicinanza, l’essere in sintonia con ciò che si osserva. L’obiettivo non è una freccia che colpisce il bersaglio, ma un abbraccio delicato. Fotografare non è prendere con violenza, ma comprendere con spontaneità. O meglio un “prendere insieme” al soggetto che si fotografa. Le fotografie della Robertson sono dei racconti di persone e cose che ci sono; la loro energia è tale che sembrano avere una loro esistenza di per sé, che continua anche ora, nel presente.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.
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