Le due pur diverse coppie di tensioni, la morte di Gino Strada il 13 agosto 2021 che quasi va a coincidere con la tumultuosa smobilitazione militare degli occidentali da Kabul, e ora, marzo 2022, la comparsa della biografia postuma dello stesso Gino Strada mentre si materializza, dal 24 febbraio, la guerra imposta dalla Russia nello spazio dell’Ucraina, sono coincidenze che, nonché depotenziare il rifiuto della guerra elaborato dal medico, rimettono al centro la sua opzione di risolvere il conflitto escludendo la guerra. Le circostanze spronano a riconsiderarne il punto di vista alla luce degli eventi. L’adesione esplicita alla convinzione di Strada sarà ancora, comunque, orientamento individuale. Per diventare azione efficace dovrebbe, ritengo, preludere ad una acquisizione convinta, oltre che ampia, implementata dunque da una riflessione anche di ordine giuridico: un aspetto su cui pure cercheremo di esprimerci.
È il rito della prassi intorno alla guerra una soglia di quasi sacralità? E Gino Strada attenta a questa sacralità? Innovatore eccessivo, dunque? Ma forse piuttosto ripresentatore di equilibri già cercati, mi sorprendo ora a valutare, considerando segmenti persi nella traccia delle parole, sempre cumulativa e confusa, tra il termine “profano” che respinge il popolo fuori del sacrario, il fanum, e “fanatico” che bolla di prevaricazione proprio la casta chiusa nel sacrario: indenne, e dunque indifferente.
Gino Strada esce dagli eventi incatenati della cronaca, ma diventa riferimento che spinge a guardarsi intorno con la sua prospettiva. «Io non sono pacifista, sono semplicemente contro la guerra». Guerra, dunque, ultima opzione per Strada, anzi da escludere: non una petizione di principio né un aforisma a effetto per distinguersi in originalità, ma un’acquisizione dedotta attraverso le esperienze maturate come chirurgo sui teatri di guerra. La formula ripetuta dai commentatori diffondendo la notizia della morte, ha dato l’impressione della partecipazione profonda, della generale condivisione. Tuttavia mentre la tensione intorno all’Ucraina degenerava in guerra combattuta e l’informazione cambiava registro, selezionata e impaginata per una risposta del pubblico il più possibile unanime, la figura del medico-filantropo non è stata fra i temi proposti.
L’ha invece portata alla ribalta l’evento editoriale, il suo libro-biografia postumo curato da Simonetta Gola, Una persona alla volta. Rispetto ai servizi di informazione ufficiale sulla guerra il libro sta in un’altra dimensione, decisamente alternativa al metodo della guerra. Questa biografia dà alla scelta radicale della non-guerra un riferimento costruttivo. Vi sono indicizzati molteplici laboratori complementari, quelli, cioè, necessari a recuperare la dimensione della relazione umana come complessa: è implicito, le molteplici tradizioni vanno rispettate. Gino Strada proietta il suo sguardo sui luoghi del mondo scossi da guerre, e ora affida alla responsabilità collettiva l’opportunità che mutino i mezzi del convivere, lungo l’incastrarsi di Stati, risorse, economie dalle guerre mondiali a oggi.
Libro-biografia o piuttosto libro-testamento: è in effetti coerente con quanto, in progress, Strada ha elaborato nella vita, nella scrittura, nel suo diagnosticare-curare, con lo sguardo che include rispetto all’umanità ferita. Dal suo approccio di medico scaturisce il titolo: intervenire accanto a ognuno, in risposta a come ogni uomo o donna prende atto del suo corpo. Ma già questo è utopia: l’approccio dei medici, nei vari Paesi, non è uniforme, e infatti Strada ha modo di prendere qualche distanza da legislazioni, nonché da discriminazioni decise dal “business della malattia”: così, nel paragrafo dove è riconosciuta a Tina Anselmi, per la sua legislazione del 1978, la firma sull’universalità della cura.
Nel libro, al di là di qualche rapido dato dell’autore – luoghi, tempo, formazione e soprattutto società – prevalgono brevi capitoli, espliciti nel constatare la diffusa indifferenza sociale, il cinismo da parte dei manovratori politici, come operare per instaurare prassi utili. Più ampio spazio è dato alle forme dell’operatività nuova da instaurare. I brevi appunti si dispongono in due parti essenziali del libro, la prima che modula il tema Cessate il fuoco, la seconda sul Diritto alla salute. La frase – mantra del medico è ripetuta anche qui: Strada si è conosciuto non tanto pacifista, quanto «semplicemente contro la guerra». C’è insieme la data, 7 ottobre 2001, quella dei primi bombardamenti americani a Kabul, seguiti all’attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre.
«La guerra non funziona», titolo del penultimo capitolo della prima parte, è qui per noi focus specifico. La frase ha un tono sommesso, ma convincente: riconosciamo il valore teorico, da scienziato-filosofo, di Strada. La guerra è la risposta pressoché costante, egli ci dice, a offese evidenziate su grandi gruppi o popoli, attuata però, una volta in essere, senza verifiche né dell’efficacia, né delle devastazioni provocate: ritenute «argomenti minori, sostanzialmente marginali» per politici e militari che si assumono «l’arduo compito di sovrintendere i destini del mondo». Nella cronaca si verificano, certo, situazioni di crisi: ma, dice Strada, non è la guerra che dà forza alle ragioni, la guerra essendo «negazione di ogni diritto».
La frase che, letta nel libro, rilanciamo, non è detta per ostinatezza: scaturisce dal puzzle d’informazioni che Strada consegue sui danni volutamente cercati in guerra, contro i civili. Fu questa la constatazione che nel 1994 spinse il chirurgo Strada, con un gruppo di operatori affiatati e esperti, a fondare la onlus Emergency, organizzazione medica che si caratterizza proprio per curare in primis la popolazione civile. Una specificità, appunto, che giustifica l’esame esteso, nella seconda parte del libro, dei modi e dei limiti della cura.
Dalla sua opera sul campo, erogate le cure, Strada rivisita i luoghi in cui si insediano le fabbriche della morte contro l’umanità. Mine-giocattolo fabbricate in tutti i Paesi: «in Cina, in Russia, negli Stati Uniti, in Italia», guerre inscenate a ripetizione: in Pakistan, in Afghanistan, accompagniamo Strada in Perù, Somalia, Bosnia, Etiopia, Corno d’Africa, in Cambogia. Una volta fondata Emergency, seguiamo Strada in Ruanda, il primo insediamento, poi in altri luoghi, nella seconda parte del libro, sul tema del “Diritto alla salute”: Ruanda, Iraq, Cambogia, Eritrea, Palestina, Algeria, Libia, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, e ancora Sudan, Guinea, Liberia, Sierra Leone.
L’Afghanistan è il luogo precipuo nell’esperienza di Strada, il laboratorio dove il chirurgo diventa filosofo e maestro di vita. Pur desiderando usare bene la testa, è normale che ci fidiamo di racconti storici ricchi di nomi, politici e geografici, che riteniamo metodici. Bene, Strada constata che tali narrazioni sono diventate obsolete di fronte a come è cambiata la guerra: a come gli Stati la progettano e la indirizzano agli effetti desiderati. Il dato di fatto, vera scoperta imprevista per Gino Strada nel primo viaggio in Afghanistan, ma poi confermata nelle successive osservazioni in tutti i continenti, è che la guerra è cambiata: «Non si dovrebbe nemmeno chiamarla tale.…I capitani coraggiosi in tuta mimetica o con il turbante … seminavano mine come fossero grano, per mutilare i bambini del nemico».
Preso atto della atrocità di quel metodo di relazioni, convintosi che la guerra non ha alcun effetto utile, se non per i produttori di armi, il concetto di guerra, ripercorso quasi sfogliandone la retorica, è ora ribaltato, macchina composita che cresce in potenza distruttiva: «Le vittime non combattenti, una su dieci all’inizio del Novecento, erano diventate nove su dieci alle soglie del Duemila». Lo hanno verificato, prima di Strada, alcuni gruppi di scienziati, tra il 1932 e il 1955, Einstein in particolare. Con questi scienziati, Strada è convinto che la guerra non si può umanizzare: «Si può solo abolire … la guerra è di per sé antitetica alle ragioni che la sostengono… la guerra è la negazione di ogni diritto». Occorre allora imparare a pensare «un mondo senza guerra»: un’utopia, riflettiamo qui ora, per la quale si dovrebbe e potrebbe impegnarsi, come nella storia epocale si è verificato, su altre prassi, con successo.
Eppure l’argomentazione di Gino Strada nella cronaca della nuova guerra odierna non è risuonata in pubblico. Nella quasi primavera 2022 è deflagrata sui media la notizia: il contrasto annoso tra Russia e Ucraina, per la ridefinizione statuale e culturale, diventava campagna bellica della prima sul territorio di quest’ultima, parte sensibile della pianificazione mondiale in aree d’influenza, riguardante anche il confine a oriente della NATO.
L’informazione dei media attuali, con una ampia convergenza tra pubblico e privato, si è distesa sulla guerra in modo univoco: pur ricorrendo ad un fiume variegato di esperti, gli spettatori, quasi coro nella tragedia, sono stati inscritti nella mera funzione emotiva: irraggiungibili i propositori del processo di trattative, i media assicuravano saggi di visibilità possibile. Tali media, avvalendosi di molte squadre di giovani freelance o inviati sul terreno ucraino, hanno riproposto la tesi della guerra per la difesa dei confini nazionali secondo il sentire plebiscitario della popolazione, sul modello che presiedette alla individuazione degli Stati nella conduzione della Prima guerra mondiale e al disegno della carta politica nelle trattative seguite, ai vari tavoli intorno a Parigi, nel 1919. Il collage di immagini ha tenuto invece presente la narrazione consolidatasi per la guerra di Liberazione in Italia ’43-’45: cittadini maschi che con le armi rudimentali preparate ai crocicchi proponevano la loro giusta sfida, mentre bombardieri potenti devastavano quartieri e quinte cittadine. Informazione convergente era la documentazione di un imponente sfollamento dall’Ucraina di donne e bambini: non come onde interne, come mostrano i repertori di immagini sul ’43-’45, ma in direzione dei Paesi europei, questa volta unanimi a fornire aiuto ai rifugiati. Sul complesso dell’iconografia, però, occorrerebbe una sintesi, qui impossibile, che considerasse i molti media in uso, in particolare i social.
È stato piuttosto il no alla guerra di papa Francesco, ripetuto con fermezza e continuità, che più è riuscito a farsi sentire. Guerra definita «bestiale, barbara, sacrilega, fratricida, folle», in quanto mirata a distruggere: l’ossimoro più grave, dunque, avere come piano di sviluppo la distruzione. L’impegno di questo papa contro la guerra è coerente. Sua la sintetica immagine, ripetutamente proposta, della «Terza guerra mondiale in corso, a pezzetti», indicativa di come questo pontefice interpreti con grande indipendenza il quadro che deduce dall’osservazione, di conflitto collegato tra gli episodi d’arme, considerati tutt’altro che isolati e dispersi. La realizzazione delle sue visite su itinerari spesso ardui, ha contrastato la logica che si possa essere indifferenti alle guerre in quanto “locali”: il papa scuote il disinteresse di chi ascolta con estraneità, non ricostruendo i piani geopolitici e di armi in corso, che invece sono il motore, dando senso e prospettiva ai fiancheggiatori, avidi di denaro e potere.
Sminuendo il suo intervento, molti giornali hanno detto di Francesco che «fa il mestiere di papa»: con disinvolta superficialità, anche appena ricordando le molte istituzioni tuttora in vigore dal passato – viene subito a mente, per esempio, la sussistenza nell’organizzazione vaticana dell’ordinariato militare –. Non affronterò io un mare così arduo, che richiede apposita preparazione. Esprimo però la convinzione che, partecipando ad un dialogo che si è fatto multilaterale e in continuo modificarsi, risalta come nella lunga storia della Chiesa la centralità del soggetto “popolo”, da assumere in divenire, ha avuto e ha precipua considerazione. L’enciclica di Paolo VI Populorum progressio, del 1967, offre riferimenti essenziali per accettare l’accreditamento di nuovi soggetti statuali.
Il papa Bergoglio si è caratterizzato per richiamarsi a san Francesco nell’attendere alla relazione uomini- creato: ha ben segnalato questa impronta l’enciclica Laudato si’, nell’esordio del 2015. Dal 2020 – si veda la lettera enciclica Fratelli tutti – è il concetto di “fratelli” che egli ripropone, focalizzando lo sguardo sulla condizione e le responsabilità degli uomini specialmente nei conflitti: più volte, d’altronde, ha incontrato, definendoli “popoli”, anche se non hanno il riconoscimento diplomatico, i gruppi residuali delle invasioni continentali. Ora, dal 2021, con la Lettera enciclica emanata, il papa riflette sulla ricomposizione pacifica nel mondo, appellandosi particolarmente ai popoli: «Popoli fratelli» è il suo appello, esortando a sciogliere i conflitti, considerando che «la guerra è sempre interesse dei potenti». I suoi accenti si avvicinano a quelli di Gino Strada, quando considera che particolari vittime sono i bambini «intrappolati nelle guerre, privati della spensieratezza di un’infanzia di giochi». Il riconoscimento dato ai popoli è specifico sullo sfondo della risoluzione di conflitti, che dei popoli non fanno l’interesse: «Con la vita dei popoli e dei bambini non si può giocare».
La narrazione deflagrata sui media negli eventi attuali può dirsi costituita da due strumenti culturali: una iconografia frammentata mirata all’emozione da una parte, dall’altra una ragione storica afferente alla nascita di uno Stato in quanto popolo. È lo schema interpretativo rivestito di ufficialità, calzato sul diritto alle armi di un popolo, la ragione per cui l’informazione generalista ignora l’argomentazione contro la guerra di Gino Strada? Ignora forse la nozione di popolo Gino Strada, nel suo libro-testamento? Le constatazioni che portano il filantropo a escludere la guerra in effetti non citano il termine. Tuttavia egli fa specifico e ampio riferimento ai grandi processi storici che hanno fornito assetti e poi successive modifiche. Questo è compatibile con il riferimento all’autodefinirsi dei popoli: non è la specifica vicenda con cui si accreditano i soggetti statuali che mette a rischio la convivenza. È proprio sulla guerra come strumento che Strada verifica un potenziale distruttivo antitetico alla vita: cioè, alle convivenze, in ogni forma e in ogni interconnessione.
Di popoli Gino Strada non parla, ma nella intercettazione dei fatti gravi che accadono con distruttività crescente, i popoli fanno parte del suo sguardo: in tutta evidenza, non è, il suo, un trattato né politico né di diritto, ma l’attenzione mira alla convivenza. Pure i popoli si presumono sullo sfondo, in un processo che gli scienziati più brillanti e solleciti del bene universale hanno cominciato a osservare a un’altezza temporale precisa, dopo la prima delle Grandi guerre, mentre la seconda risulta la débacle delle modalità assunte nell’impegno e insieme la spinta a confermarlo in altro modo. Anche dei militari caduti Gino Strada parla: e l’episodio della visita del cimitero in Normandia, con le 9387 croci, dimostra tutta la pietà dell’autore per questo ruolo. Ma il potenziale distruttivo è stato progressivamente spostato verso i civili: dunque, la “popolazione” non può essere ignorata in nome del “popolo”.
L’attenzione del filantropo si estende alla intera comunità civile, implicitamente con le sue possibili associazioni e la sua autodeterminazione. I dati storici disseminati nel libro sono precisi, carichi di significato se convogliati nella tesi sostenuta: la messa al bando di quel concetto, mutato nel tempo, nello spazio, nelle lingue, che è “guerra”. «La grande carneficina della Prima guerra mondiale» rivela a conti fatti quale ampio disastro sia stato, per milioni di arruolati, ma anche per le popolazioni distrutte con armi chimiche, secondo il potenziale tecnologico e chimico dell’epoca. Si induce dunque che l’ambito di ricerca e applicazione designato come “seconda rivoluzione industriale” che afferì a quella guerra già fosse un orizzonte diverso rispetto alla cultura romantica che, con un forte accompagnamento della cultura, dalla filosofia al diritto, sosteneva i moti costituzionali e anti-imperiali dell’Ottocento. Lo sguardo resta comunque sui civili, confermando la guerra come “carneficina”, dalla Prima grande guerra alla Seconda, che ha alla fine usato sui civili l’atomica, passando dal fallimento della “umanizzazione”.
La tesi che la Prima grande guerra sia l’evento-soglia verso la potenza tecnologica disumana, di lì in poi potenziata contro i civili, non è frutto della mera riflessione individuale di Gino Strada. Remo Bodei, filosofo e intellettuale di grande esperienza, si è espresso in modo del tutto analogo in una pubblicazione di qualche anno fa: Limite (il Mulino, 2016): «La Grande guerra rappresenta …lo spartiacque tra due epoche della civiltà occidentale, l’incubatrice dei grandi totalitarismi del secolo scorso». Ulteriore accelerazione registra la Seconda guerra mondiale. Allora sono infranti «confini morali e tecnologici fino ad allora impensabili», come indicano i due eventi precipui: l’Olocausto dei campi di sterminio nazisti, l’invenzione della bomba atomica sperimentata su Hiroshima e Nagasaki. L’indicazione serve da caposaldo di un elenco che lo studioso traccia di seguito: vicende analoghe a Auschwitz sono il massacro degli Armeni nel 1915, i Gulag sovietici dal 1926 in poi, le vittime dei khmer rossi di Pol Pot tra il 1975 e il 1979, quelle del conflitto tra tutsi e hutu nel Rwanda del 1994, mentre dall’invenzione della bomba atomica è proceduto l’accumulo di armamenti nucleari disseminati, «potenzialmente capaci di annientare quasi interamente la vita nel pianeta».
L’estesa convergenza delle tesi che il pamphlet presenta con quelle di Gino Strada induce a osservare più precisamente l’indagine complessiva. Nel pamphlet, inserito nella collana Parole controtempo, Remo Bodei riflette sulla parola che è anche il titolo, “limite”: concetto connotante per la comunità umana, in ogni plaga e tempo della sua diffusione, qui enucleato dalla storia culturale greco-latina per proposte e variazioni essenziali, nella continuità della documentazione reperita. L’autore privilegia la consistenza prescrittiva del concetto, rispetto alla costellazione dei termini e agli etimi, cui però si approssima all’inizio del secondo dei tre capitoli, Natura e civiltà. È qui che avverte che “modernità” è concetto non previsto in antico. È tra Quattro e Cinquecento che la nuova proiezione mentale prende a sostenere l’andare oltre la navigazione verso l’ignoto e il pathos per il progresso. L’Antico invece ha difeso in modo evidente il senso della misura, il “niente di troppo” richiesto da Apollo come l’avversione alla hybris, la “tracotanza”, nel mondo greco, in accordo con l’avversione espressa in ambito romano contro le res novae, “rivolgimenti-innovazioni”: dove il “nuovo” è profondamente negativo.
Gli scandagli che Bodei fornisce saggiano letture di testi filosofici, scientifici, letterari, provenienti da tempi diversi, e accostati con liberi confronti che, evitando schemi standard, mostrano ricadute su piani diversi, da una parte quella spaziale attinente alla geografia, dall’altra quella mentale, tanto della proiezione utopica come della riflessione filosofica. La morale, intesa come costumi trasmessi per tradizione, ha grande e diverso rilievo nel tempo: nel passato più che nella contemporaneità ha conformato le età, nella curva della vita, separate per soglie, imposte con valore pressoché sacro – ma anche il tempio, lo spazio precipuo del sacro ha “limiti”, con diversificazioni cultuali: e nell’oggi pure lo spazio sacro è ben distinto.
Da altro punto di vista il “limite” ha avuto e ha anche rilievo giuridico-politico, ritagliando e difendendo la proprietà privata: un insieme di valenze che si ritrovano nella contemporaneità, pur in un orizzonte che appare meno prescrittivo: lo studioso osserva il periodo contemporaneo nel terzo e ultimo capitolo, Imparare a distinguere. Nella collettività “limite” sostanzia il concetto di frontiera, e oggi, benché rispetto al passato esistano «molti più confini cancellati o incerti», le collettività si determinano comunque politicamente secondo un profilo formale evidente, con le costituzioni, prescrittive dei principi che regolano la vita associata di uno Stato. Se nel complesso la realtà odierna risulta meno formale, è per altro vero che gli schemi della vita associata possono entrare nella dimensione mentale, come biopolitica che «si serve dei desideri come di “catene di seta”, resistenti quanto le catene di ferro, per persuadere, orientare, e condizionare i cittadini».
Dalla succinta esposizione del libro, si osserva come cambi il ritmo del fraseggiare con cui Bodei si esprime, agile per gran parte, fino ai paragrafi che abbiamo anticipato, sulla piegatura che la storia umana sta conoscendo a partire dalla Grande guerra. Incombe tuttora, dice il filosofo, «il problema di sapere se siamo sufficientemente “vaccinati” contro nuove catastrofi politiche e morali …o ci illudiamo, grazie alla relativa sicurezza offerta dai regimi democratici, che gli orrori del passato non ritornino più». Il tono di fronte all’attualità si fa discontinuo, tra valutazioni discordanti degli autori proposti – filosofi, letterati, sociologi contemporanei – su costumi e aspirazioni che appaiono incostanti o di difficile interpretazione. È certo appropriato esemplificare l’aria interrogativa con cui l’autore guarda al futuro, cogliendo, quasi al termine della disamina, una frase di sfumatura pessimistica: «Il frequente superamento dei limiti sembra risvegliare in molti sogni di onnipotenza».
Soglie dunque si aspettano nel costruirsi degli eventi odierni, e lo stesso fermo rifiuto di Gino Strada, la sua espressione: “Contro la guerra”, può considerarsi in tale ambito. Anche questo imperativo di Strada, cioè, può ipotizzarsi come l’ultimo, in ordine di tempo, dei “limiti” da affrontare tra quelli che Remo Bodei sintetizza.
È, quella di Strada, una prospettiva di ampio respiro, da affrontare con buona lena e attivando molti “tavoli tecnici”, per accumulare una cultura anticipatrice rispetto all’obiettivo. Utopica dunque, una tale cultura, “pre-liminare”, per attingere ancora all’immagine di “linea, limes, limen”, capace però di trasformare quanto è bruto, quasi “limo”, nella convivenza legale. Pensieri e narrazioni “ucronici” e “utopici”, luoghi immaginati fuori dei confini dello spazio e del tempo, sono stati convergenti con la modernità: Bodei, dopo averlo mostrato per il periodo storicamente definito “moderno”, ne conferma la ricezione perdurante nell’oggi, e ne rimisura con titubanza l’energia propagata proprio nel congedo del pamphlet, tra Max Weber che incoraggia a «sostenere l’impossibile» e Marco Aurelio che preferisce dimensionare le sue attese, disponendosi a «un po’ di miglioramento, anche minimo».
Ma se torniamo a pensare alla responsabilità che dovremmo assumerci, fin dai temi preliminari e quindi utopici, per dare processo e sbocco all’imperativo di Gino Strada, è evidente che dovremmo disporsi su quell’orizzonte globale e totale che oggi si propone, ma anche interrelarsi profondamente, con rispetto attento a tradizioni e culture, difendendo ma anche correggendo la faticosa costruzione che ha prodotto prima la Lega delle Nazioni e poi l’ONU, e avendo, come orizzonte da difendere, non solo i popoli – e le loro crisi e evoluzioni –, ma anche quei laboratori eccellenti che costituiscono oggi generale protezione e il pianeta Terra, sia sotto il profilo delle “risorse” che interagiscono con gli uomini sia sotto il profilo del rispetto di quanto precede e prosegue oltre la conoscenza umana.
Utopia, per esempio, può dirsi – ma non lo sarà se diventerà dottrina e azione condivise – quella che propone il gruppo “Costituente Terra”, formatosi di recente intorno a studiosi e filantropi di varie parti del mondo. Fra questi il premio Nobel argentino Adolfo Perez Esquivel, argentino di madre guaranì, che ha difeso i diritti umani e avversata la dittatura nel suo Paese, subendo carcere e tortura, e successivamente è divenuto riferimento per i diritti umani e la determinazione dei popoli. Molti gli italiani, tra cui Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida. Il gruppo, allarmato per la condizione ambientale, sociale e politico della terra, dove crescono disuguaglianze e corsa agli armamenti nell’indifferenza verso le emergenze osservate nella natura, di recente ha attivato un progetto di regolamento internazionale della convivenza, sul modello di una costituzione ideale, che ha offerto ora una pubblicazione interessante: Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio (Feltrinelli, 2022). Il proclama che il gruppo ha lanciato si inscrive nell’atto di volontà che esplicitamente, volendo uscire dall’utopia, si propone attivamente, come gruppo di proposta e di azione incisiva.
Il trattato ha molti aspetti che richiamano il punto di vista e l’opera di Gino Strada: in primo luogo in quanto si constata il dilemma, qui attribuito a Thomas Hobbes, di scegliere o «la generale insicurezza determinata dalla libertà selvaggia dei più forti, oppure il patto razionale di convivenza pacifica basato sul divieto della guerra e sulla garanzia della vita». Come nell’elaborazione di Gino Strada, si guarda alle istituzioni internazionali con animo ancipite, di riconoscimento da una parte e di contestazione dall’altra: Fallimento e grandezza dell’Onu si legge nel titolo posto alla pagina appena citata. L’attenta ricostruzione storica e l’analisi giuridica esperta, raccolti gli elementi di attenzione e sapienza profusi ma insufficienti, rilevano le ragioni del fallimento, concentrandosi infine su una assenza precipua da riparare: «Sono…le funzioni di garanzia che devono essere create a livello globale, in attuazione del principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani, del principio della pace e dei diritti e dei beni fondamentali costituzionalmente stabiliti». La trattazione dei vari aspetti giuridici prelude al vero e proprio Progetto di Costituzione della Terra, presentato in 100 articoli.
Questo testo pensato, profondo, mirato, darà davvero specifico impulso a cercare la strada, tutta da costruire, e da costruire insieme, per uscire dall’aporia che diffusamente si avverte, tra problemi cui si stenta a dare il nome, come si stenta a osservarli con sguardo condiviso?
Il mondo di immagini che i media dedicano all’esperienza in corso, della guerra sul territorio ucraino, non sembra alimentare la scoperta e la valorizzazione di esperienze culturali che incrementino la partecipazione a una nuova diplomazia delle interrelazioni complesse, per dar vita a percorsi alternativi alla guerra. La cultura non sembra propensa a rinnovarsi, nelle circostanze attuali, ponendosi accanto al fruitore per alimentarne impressionabilità e intima finzione a sostegno della narrazione. Constatiamo come l’emotività viene dilatata, mentre trasmissioni che si qualificano come “servizio pubblico” accostano angolature di vari operatori, distanti e localizzati, come fossero la prospettiva generale. Perfino l’operazione di “verificare” le notizie viene dichiaratamente saltata. È da presumere dunque che nel fruitore al di là dello schermo del suo ricettore la prudenza si muti in ardimento, il raggio della visuale danzi in modo elastico, il riepilogo delle memorie si focalizzi su singoli particolari. Questa pluralità di gamme è per altro il fascino crescente della partecipazione mediatica, a mano a mano che si personalizzano i mezzi di produrla e socializzarla.
Difficilmente le informazioni assemblate che vediamo ora saranno di reale utilità per gli storici: è esperienza la molteplicità dei riusi e delle riproposte dei frammenti culturali e un classico il ritardo della storia nella formulazione di valutazioni affidabili – e del resto le regole osservate per l’apertura degli archivi sensibili impongono tempi lunghi.
Ammetto di essere sensibile alla questione della memoria condivisa, da sempre parte importante del costituirsi in popolo o in unione di popoli, come l’Unione europea, oltre cioè l’arco particolare delle sezioni minime di convivenza, quali si ricostruiscono nella documentazione. Mi aiuta consultare saggi d’impianto giuridico-storico che tengo in promptu. Tra questi segnalo un’opera collettiva: Giorgio Resta e Vincenzo Zeno-Zencovich (a cura di), Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi (Editoriale scientifica, 2012), che, con i vari interventi, segue gli aggiornamenti interni all’Europa e all’Italia, in particolare dalla fine della guerra fredda con il 1991 e l’allargamento dal 2004 ai Paesi dell’Europa centrorientale. L’Italia ha partecipato al percorso, verificando però qualche polemica, non solo nella sponda politica, ma anche in quella degli storici professionisti, critici anche per l’insistente ricorso a racconti a contenuto emozionale.
Nell’insieme, tali letture attualizzano la personale impressione di una ricostruzione della memoria che non solo è oggettivamente problematica, ma che è contenitore plastico di narrazioni rivisitate, di cui alla fine è difficile stabilire le circostanze: la propensione a emozione e analogia moltiplicano le atmosfere possibili, e la proliferazione dei testi. Alla fine il credito di questa produzione va più sul piano estetico che su quello documentario. Ci sono esempi illustri: l’ode Marzo 1821, in realtà pubblicata nel 1848, di Alessandro Manzoni, o il reportage Cristo si è fermato a Eboli, riferito al 1935-36, ma pubblicato nel 1945, di Carlo Levi. Non sarà da stupirsi dunque se dal reimpiego dei materiali circolanti anche su questa dolorosa vicenda di guerra combattuta in Ucraina fioriranno più spesso esercizi di intrattenimento che di interpretazione acclarata.
Personalmente, essendo la mia esperienza di vita inscritta in Toscana, in un periodo che ha portato segni e tracce del fronte mutato nel conflitto mondiale, sono stata sensibile al racconto dei superstiti, verificando come sia stata imperfetta la ricostruzione dei fatti. Ricordo per esempio di aver avuto colloqui e materiali da una famiglia, sulla vicenda del loro parente Edgardo Sovali, tecnico del vetro e studente di chimica, operatore di Radio Cora a Firenze, poi qui catturato dalla banda Carità, torturato e ucciso dopo il sequestro a Villa Triste, ma di cui non sono ufficializzate ricerche e celebrazioni. Gli storici, passo dopo passo, hanno ricollocato molte tessere dello scenario dominante. Tuttavia nella ricostruzione storica restano vuoti, che la narrazione ripropone in tentativi approssimati e ripetuti.
Le stragi nella mia terra toscana, tra monte Amiata, costa tirrenica, valle d’Arno, Appennino, nell’estate 1944, passando il fronte di guerra – poi, con l’inverno, bloccato poco più a nord, nella “Linea gotica” – hanno coinvolto in modo profondo e lacerante la popolazione. Nello scardinamento di ruoli civili, parentali, consuetudinari si determinarono lacerazioni profonde e diffuse, che non si sono mai ordinate in una narrazione coerente. Sono ferite rimaste vive piuttosto che dati fissati in modo incontrovertibile. Così, le rivisitazioni sulle stragi in Toscana al passaggio del fronte sono materia di narrazione, di riattualizzazioni dolorose, di disputa infinita. Talora diventa anche opera creativa importante, che trova nel linguaggio artistico una cifra più profonda, intima, più universale di una trattazione storica.
Sono ambientati qui, in questi luoghi allora vocati al lavoro dei campi e alla modesta economia della pesca, film importanti, che presentano la loro interpretazione anche sulle comunità locali. Parla essenzialmente di San Miniato, chiamata però San Martino, La notte di San Lorenzo dei due fratelli Taviani (1982), originari di questa città, mentre il recente film tedesco, Il caso Collini (Der Fall Collini), di Marco Kreuzpaintner (2019), parte da un caso giudiziario, per toccare memorie che i personaggi dissimulano, dando luogo a analisi psicologiche, fino a risalire a una strage tedesca in Toscana che, pur fatto storico, ricrea con qualche arbitrio e indeterminatezza più situazioni. Diventa qui espressivo il contrappunto delle espressioni nei volti e il contrasto, tra chi usa l’arte della parola con raffinatezza che dissimula la reticenza e chi ha rifiutato la parola, non essendoci corrispondenza con la “cosa”, con la vicenda patita.
I Taviani proiettano sulla loro storia memorie realmente vissute, ma in una personale interpretazione e ricreate secondo una cifra iconica e poetica. Nella situazione catastrofica, la comunità si sgretola, tra pericolo e sospetto, uno sbandamento che è reso visivamente: i percorsi incrociano spesso lo schermo, correggendosi senza apparente motivo, mentre i personaggi diventano vulnerabili, trasparenti nei sentimenti che si fanno estremi, l’odio, l’amore, la codardia, la protezione. Nuovi impulsi erompono nel verificarsi di gesti estremi d’amore come d’odio, e anche nei sogni, che affiorano e si svelano, come realtà estrema da far valere. Vi sono due piani temporali nella storia costruita dai due registi, intorno alla memoria di una donna adulta, che si ridesta e si fa narratrice, mentre presso la figlioletta guarda le stelle cadenti la notte di san Lorenzo: è questa, appunto, la ragione del titolo. Ma le immagini che si destano in lei, inserendosi nel cerchio della memoria, fanno scolorire il presente, rivitalizzando del tutto l’antica vicenda: il passaggio del fronte nella sua terra. Lei bambina è nel gruppo dei paesani, nella drammatica estate del ’44, che vede, che è testimone, che difende la sua vita sotto il peso del rischio, di cui ben vede l’entità. Ha una sua difesa, per alleggerire questo essere in balìa, testimone impotente dell’estremo: una filastrocca infantile, cucita di suoni ritmici tra immagini guidate dalle assonanze, un non-senso, come accade, eppure efficace a schermare l’orrore esterno e la paura interna, spingendo avanti il tempo, così da dissimularlo:
«Mardocchio e mardocchiati / san Giobbe aveva i bachi // medicina medicina / un po’ di cacca di gallina // un po’ di cane un po’ di gatto / domattina è tutto fatto // singhiozzo singhiozzo / albero mozzo // vite tagliata / vattene a casa // pioggia pioggia / corri corri // fammi andare via i porri».
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Riferimenti bibliografici
Bodei, Remo, Limite, Bologna, il Mulino, 2016
Ferrajoli, Luigi, Per una Costituzione della Terra. L’umanità a un bivio, Milano, Feltrinelli, 2022
Resta, Giorgio e Vincenzo Zeno-Zencovich (a cura di), Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, Napoli, Editoriale scientifica, 2012
Strada, Gino, Una persona alla volta (a cura di Simonetta Gola), Milano, Feltrinelli, 2022
Sitografia
Francesco, enciclica Laudato si’, (24. 5.2015),
https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
Francesco, lettera enciclica Fratelli tutti (3. 10. 2020),
https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html
Paolo VI, enciclica Populorum progressio, (26. 3. 1967),
https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum.html
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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