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di Nicolò Atzori
La funzione della fotografia è quella di strappare un momento irripetibile all’egida inesorabile del tempo, dando prova della fallace capacità umana di controllarlo. A modo suo, quindi, una foto è sempre un atto di resistenza finalizzato a combattere il cambiamento, che dell’uomo è nemico ed alleato.
Questa modesta antologia di immagini intende riunire, in misura non certo esaustiva, gli elementi che mi sembra consentano di apprezzare il processo di cambiamento che ha forse investito la quasi totalità dei gruppi umani. Il primo scatto, Attesa, vuole essere rappresentativo di questa selezione e riassumerne gli afflati: la solitudine, l’attesa, il timore, il confine, la speranza.
Scattai questa foto il 10 marzo del 2020, giorno in cui è cambiato definitivamente il nostro modo di concepire il mondo ed esperirne i meccanismi regolatori, della cui effettiva entità ci siamo scoperti ignari. Abbiamo realizzato di avere dei confini individuali, locali e nazionali, e le insidie della tanto decantata liquidità del reale. Alle epidemie, infatti, poco importa dei confini, che travalicano seminando terrore e morte. In Sardegna ebbe un ruolo cruciale, fino dalla grande peste del Trecento e poi durante quella seicentesca, il santuario di Nostra Signora di Bonaria, su cui incombe un cielo cupo e minaccioso che si contrappone al suo nome, scelto dai catalani appena arrivati a Cagliari: Bon Aire, “Buona Aria”, Bonaria. Rivolto verso il mare, da secoli osserva e rassicura i naviganti quale custode della loro protettrice e patrona massima della Sardegna.
Nei paesi, il paradosso del restare risiede nel venire a patti con l’assenza. Questa, concentrata soprattutto in quelli che volgarmente chiamiamo “centri storici”, appare sotto forma di fatiscenza ed abbandono, decadenza e vuoto, resti e macerie. Sono vuoti pluridecennali, di chi manca da tempo, come ci insegna Vito Teti.
Il tempo della restrizione e dell’impossibilità ha messo in luce la qualità dei nostri spazi di vita, che abbiamo imparato a conoscere esplorandone pregi e difetti. Durante il lockdown, la gran parte del nostro tempo si è consumata fra le mura dell’ambiente domestico, ponte sensoriale con l’esterno per lungo tempo. I più fortunati, soprattutto nelle realtà paesane o rurali, hanno potuto passeggiare in un giardino o lontano dal costruito urbano e godere del primo sole primaverile, ma così non è stato per gli abitanti delle città, vittime di un’alienazione molto più intensa e incolore. La campagna ha invece continuato a custodire la sua ricchezza cromatica, anche per noi. Prive di qualsiasi opposizione artificiale, piante e animali avanzavano dove l’uomo arretrava.
La Piazza Libertà del mio paese, cuore storico dell’abitato spazio di lentezza, è il regolare punto di ritrovo dei numerosi gatti del rione, quello della Beata Vergine Assunta, titolare della parrocchia che vi si affaccia.
Anche stavolta, l’emergenza ha impedito le manifestazioni collettive di carattere folklorico. Le feste, se segnalate, sono ora visibili dagli orpelli di maniera, striscioni o gagliardetti. Il rito è solo congelato: la sua valenza quale spaccato di pratiche, immagini e consuetudini resiste nel senso comune e prosegue nell’individualità domestica, fra ceri e rosari, attese e auspici. Gli ex voto proliferano nuovamente ai piedi dei simulacri o appesi ad essi, chiamati a restituire senso, ordine e speranza.
Nei nonluoghi, spazi del transito e della sospensione, la maggiore evidenza di vuoto e assenza si declina simmetricamente. La mancanza dell’uomo collide con lo scopo di questi spazi, creati per accoglierlo costantemente, essendo ora ponti verso l’altrove e ora contenitori di attesa.
La rigidità formale e funzionale della stazione rimanda all’idea della vita in quanto organizzazione, controllo delle conseguenze, misura; e l’organizzazione è simmetrica. La vita, dunque, è simmetria, e all’antropologia si chiede di dare conto dei nessi e delle corrispondenze che legano in un equilibrio armonico la sua complessità.
«Ogni progresso dà una nuova speranza, sospesa alla soluzione di una nuova difficoltà» (Claude Lévi-Strauss). Con la libertà, anche guardare il cielo, altri cieli, acquista un altro sapore. Camminare, viaggiare, suonare, incontrarsi: a poco a poco, il vivere complesso si rende nuovamente disponibile con il garbo della leggerezza e della fiducia. Un brulichìo di voci e persone riprende, seppure timidamente, a scandire il tempo cittadino, e nei centri storici cominciano a risuonare più intense le musiche delle comunità straniere abitanti queste isole etniche.
Gli artisti di strada, ad esempio, sono un connotato sociale essenziale delle grandi città, dove la pluralità di forme espressive da essi offerta abbraccia l’interezza delle prerogative umane, con i suoi infiniti modi di essere, di stare, di sentire.
Il ritorno ai luoghi della cultura ha significato il rinnovarsi di un confronto col patrimonio in quanto bacino di significati e valori su cui (ri)focalizzare il proprio senso nel mondo, minato da due anni di sospensione forzata. Altresì, sembra averne suggerito una riflessione più profonda, alla quale gli stessi antropologi sono chiamati a dare un contributo.
Da tempo gli studiosi sono concentrati su uno sforzo di scrittura etnografica nell’opera di analisi del patrimonio, in cui individuano alcune delle nozioni centrali per la disciplina – come tradizione, cultura e identità – vigorosamente ritornate in auge, dopo la sosta pandemica, nei processi di riancoraggio degli individui al normale corso della vita; come anche di risemantizzazione di un presente in rapido cambiamento dove, perciò, è importante ri-conoscere delle àncore di senso e radicamento.
La familiarità della liturgia garantisce all’uomo di riconoscere i suoi confini morali e, certo, pratici.
Riguardo al recente ritorno alla festa e alla sua rigorosa stagionalità (soprattutto nei contesti locali), mi ha particolarmente colpito il sentore di speranzosa ritrosia tradito dagli sguardi di chi, nuovamente fiducioso e presente, ha ripreso a percorrere il tempo del rito e quello della condivisione.
Questi ultimi due anni hanno disvelato, certo brutalmente, le grandi contraddizioni che marcano la nostra modernità sociale. Allo stesso tempo, hanno suggerito nuove possibilità e vecchi stigmi che mai abbiamo avuto il coraggio di valutare o contenere.
Abbiamo vissuto l’importanza del rallentare. Infine, siamo stati proiettati in un mondo nuovo, irrimediabilmente mutato nei fondamenti delle sue strutture (e nella nostra percezione) e mai così intricato e multiforme, in linea con quello che è forse il destino ineludibile della nostra specie: generare complessità. Quello stesso spazio disciplinare in cui l’antropologia, scienza delle differenze, intende, da sempre, immergersi.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
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Nicolò Atzori, consegue una laurea triennale in Beni Culturali (indirizzo storico-artistico) con una tesi in Geografia e Cartografia IGM e una magistrale in Storia e Società (ind. medievistico) con una tesi in Antropologia culturale, presso l’Università di Cagliari, ottenendo in entrambe il massimo dei voti. Altresì, è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Cagliari. Dal 2017 lavora, per conto di CoopCulture, come operatore museale e guida turistica presso il Museo Villa Abbas e il sito archeologico di Santa Anastasia di Sardara (SU), luoghi dei quali, fra le altre cose, cura la comunicazione e, nel primo caso, gli aspetti museografici.
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