Il dramma della guerra in Europa ci ha travolti. Gli esperti di politica internazionale se lo aspettavano. Gli studiosi di geopolitica lo avrebbero potuto prevedere. Io, confesso, sono ancora tormentato dal ricordo di quella mattina quando, come al mio solito, ancora fra le coperte ho preso il cellulare in mano, sveglio da poco, per controllare le notizie del giorno. E la prima pagina. Quella prima pagina di quel quotidiano che di solito sfoglio per primo. Immagine fissata in alto. Nera, di notte e luci sparse. Poteva essere ovunque. Si distinguevano soltanto degli edifici in fiamme nell’oscurità. Bombardamenti sull’Ucraina. La didascalia. La semiotica del terrore è la più semplice ed essenziale. Non basta altro.
Sì. Nei giorni precedenti tutti avevamo letto delle truppe russe ammassate al confine. Delle esercitazioni Nato dall’altro alto. Dei malumori di Putin. Degli avvertimenti. Sembrava il classico gioco delle parti. Ricordo anche che quelle truppe sembravano essersi ritirate. Tutto sembrava il solito avvertirsi fra le superpotenze. Invece no. Sette del mattino. Inizia una storia diversa. Un mondo diverso. Non inaspettato. Non imprevisto. Ma una cosa è leggere, studiare, prepararsi all’Antropocene dei deserti, dei conflitti, delle diaspore. Un’altra cosa è ritrovarcisi dentro. Non puoi scappare dalla geografia. Perché, al di là di ogni ipocrisia, seppur le nostre attenzioni verso il mondo non-eurocentrico, verso le altre culture, sia alta, è innegabile che questo conflitto ci spaventi di più, ci tocchi più direttamente, anche solo per una questione di vicinanza geografica.
Non posso pretendere – e questa è una dichiarazione poetica ed epistemologica – di ragionare su un fenomeno se prima non analizzo come il me persona ne fa esperienza dal punto di vista emotivo, intimo, irrazionale. Magari non ne condivido l’esito, ma l’analisi va fatta. La propria posizione va messa in discussione prima dei concetti. E quindi. Seppur io sia di certo attento ai fenomeni umani più drammatici della storia recente, questo conflitto mi ha procurato, mi ha causato, un cosiddetto shift cognitivo. Per me esiste un mondo prima e un mondo dopo. Nulla di inatteso, ripeto. Ho letto e studiato abbastanza finora. E allora perché? Per una ragione su tutte: da oggi si comincia, o meglio, si ricomincia. La bolla di pace e benessere in cui ha vissuto l’Europa – eppure io ricordo, ho un vago ricordo, del conflitto nei Balcani nei primi anni Novanta, ma tutti dicono che quello era diverso, che si sapeva che fosse una cosa che sarebbe rimasta lì, entro quei confini geografici – è scoppiata.
E allora che si fa? Sì scava a ritroso. Si comincia a osservare il mondo attorno a noi in retrospettiva. Capire le cause del conflitto per leggere il contemporaneo nel modo migliore possibile. Dare il giusto peso e le giuste misure agli eventi, anche se è difficile poiché nel frattempo ci si vive dentro, anche se non proprio all’interno per fortuna nostra e per immane e inumana sfortuna per il popolo ucraino. Questo possiamo fare. Non siamo altro che spettatori passivi. E poi possiamo fare un’altra cosa, l’unica: accogliere. Accogliere i rifugiati e le rifugiate. Questo possiamo e dobbiamo fare, e avremmo sempre dovuto fare. Questo il punto cruciale. Da un lato ci sono esseri umani vittime di un conflitto. Dall’altro esseri umani che ancora hanno la fortuna di vivere in uno stato di benessere di cui troppo poco spesso ci ricordiamo di godere. Così l’Italia e l’Europa stanno accogliendo. Non tutti allo stesso modo, non tutti nelle stesse quantità, ma ci siamo accorti di essere capaci di accogliere [1]. Al 22 marzo in Italia i profughi ucraini erano già circa 65 mila, 72 mila il 28 marzo e se ne prevede l’arrivo di almeno un migliaio al giorno [2]. Accogliere allora è possibile.
Preso dalla retrospettiva, senza polemizzare, stride allora ai nostri occhi e orecchie il dibattito qui in Italia sull’accoglienza dei migranti africani, siriani, afgani, palestinesi. Perché non possiamo dimenticare la sofferenza di questi popoli così come non possiamo né dobbiamo dimenticare l’orrenda retorica che ha insozzato il nostro Paese e il resto d’Europa sul tema accoglienza. Senza puntare il dito su questo o quel partito, questa o quella fazione – non ce n’è bisogno – questo o quel politico, ci chiediamo però dov’era questo spirito qualche mese fa, qualche anno fa, quando si costruiva sulle vite dei popoli migranti torbida propaganda. É triste, inoltre, che oggi quei politici, quei partiti, quelle fazioni, quelle narrazioni, sono chiamati a rendere conto pubblicamente soltanto delle loro simpatie verso il leader del Cremlino e non di quelle parole inumane, di quella propaganda, di quelle narrazioni che speculavano sul look dei migranti. É triste, inoltre, che il leader del Cremlino, al quale si imputano adesso tutti i mali del mondo, fino all’altro ieri veniva celebrato – e non solo da quei partiti, non solo da quelle fazioni e non solo da quei personaggi – come un grande uomo, un grande politico, una grande figura storica proprio per quell’Occidente che oggi lo dipinge come un demonio sulla terra, il nemico numero uno.
E non possiamo, sempre in retrospettiva, che ingenuamente e amaramente sorridere allorquando ricordiamo altri leader politici di altre nazioni, un tempo celebrati, invitati a cene e gala, di colpo poi trasformatisi in demoni e principi del male. Personalmente, il vero male, se di male dobbiamo parlare, lo vedo proprio in queste narrazioni che ci vogliono raccontare un mondo in cui gli uomini di potere sono buoni solo quando fanno i nostri interessi – nostri dell’Occidente, dell’Europa, dell’Italia. Ma questi non sono solo discorsi, prese di posizione, punti di vista ideologici. Purtroppo è la dura realtà del mondo che ci stiamo costruendo.
In un prezioso articolo di Oiza Q. Obasuyi (thevision.com) [3] ci viene presentato il problema della differenza di accoglienza. L’accoglienza in Ue deve valere per tutti i rifugiati, non solo per i bianchi che “ci somigliano”, titola l’autrice. Viene allora da chiedersi, di fronte ai casi di rifugiati respinti al confine solo perché “non conformi etnicamente” al popolo ucraino, pur provenendo dall’Ucraina, quale sia la motivazione intrinseca a tale diversità di trattamento. La risposta purtroppo è inequivocabile e si proietta nella domanda più generale a cui alludevo poco sopra, cioè perché l’accoglienza, come sentimento, come narrazione, come impulso, come fatti, come politiche, si sia attivata così prontamente e senza dubbi, come è giusto che sia, nel caso del conflitto ucraino mentre sia stata così diversamente applicata, oltre che raccontata, con i rifugiati degli altri conflitti. Non è stato facile, ovviamente, tradurre questa prontezza del sentimento-accoglienza all’accoglienza-come-pratica. Si è fatto ricorso alla
«protezione temporanea per cui ai cittadini ucraini residenti in Ucraina (e ai loro figli e parenti stretti o coniugi e partner stabili) da prima del 24 febbraio 2022 è concesso un permesso di soggiorno valido un anno e rinnovabile di sei mesi in sei mesi fino a tre anni totali – con possibilità di andare a scuola, lavorare, ottenere assistenza economico-sociale e cure mediche. Il medesimo provvedimento vale per i cittadini di Paesi terzi o apolidi che soggiornavano legalmente in Ucraina, quindi possessori di permesso di soggiorno di lungo periodo. Tuttavia, a differenza del caso dei cittadini ucraini, la discrezionalità degli Stati membri prevarrà sul tipo di protezione da concedere (che può essere quella temporanea o un altro tipo di protezione che dipende dal diritto interno dei singoli Stati). Nella protezione temporanea non sono automaticamente inclusi i cittadini di Paesi terzi con permesso di soggiorno breve (si pensi ad esempio agli studenti stranieri che frequentano gli atenei ucraini). Anche qui prevarrà la discrezionalità dei singoli Stati membri che potrebbero optare per concedere una forma di protezione o per non concederla. Il punto critico risiede proprio nella questione inerente ai cittadini non ucraini. In un articolo della giornalista Eleonora Camilli, il giurista Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia, hanno espresso le loro perplessità. Come riporta Schiavone: “La formulazione finale è un compromesso che accoglie in parte la proposta della Commissione. Rimangono dubbi sull’applicazione discrezionale degli Stati. I criteri delle normative nazionali non possono essere più sfavorevoli di quelli accordati dalla direttiva”. E ancora, “alcuni Stati hanno dimostrato di nuovo di avere un’ossessione verso gli stranieri, c’è una dimensione quasi di follia […]. È evidente che questi ragazzi non erano in Ucraina a usufruire di chissà quale vantaggio. Credo che si tema che questi migranti, una volta ottenuta la protezione si possano stabilire regolarmente negli Stati Ue, ma la decisione finale è comunque rimessa alle leggi nazionali. Quello che invece servirebbe è assicurare anche a loro, che scappano dalle bombe, un periodo in cui possano riorganizzarsi e decidere se rimanere in Europa oppure no» [4].
Sono molti i casi documentati di respingimenti sistematici al confine bielorusso-polacco.
«nonostante ora la Polonia si dica pronta e aperta ad accogliere le persone rifugiate, è necessario ricordare che lo stesso Paese sta costruendo un muro anti-migranti e che ha costretto persone, soprattutto afghane e siriane, a rimanere bloccate alle frontiere. A Przemysl, in Polonia, un gruppo di nazionalisti di estrema destra ha anche attaccato le persone rifugiate non ucraine, in base al colore della pelle, perché ritenute una minaccia» [5].
Così, ci ritroviamo, nonostante la devastazione e il dramma umano di una guerra di tale ferocia, a costruire una narrazione in cui esistono “profughi finti” e “profughi veri”. E quei già citati politici italiani, fazioni e partiti, insistono senza pietà su questa dicotomia. Ripescano – non vedevano l’ora – i temi a loro cari, la discriminazione razziale, la discriminazione culturale, religiosa ed etnica, travestendoli dal racconto di come la guerra in Ucraina sia una guerra vera mentre le altre no.
«Questa compassione selettiva risulta ancora più evidente nel momento in cui, come è stato sottolineato dal giornalista Daniel Howden di Lighthouse Reports, se da un lato si è pronti ad accogliere rifugiati ucraini, dall’altro la chiusura delle frontiere europee continua ad applicarsi per tutti gli altri. Si pensi alla violenza della polizia spagnola che recentemente è stata filmata mentre strattonava e picchiava brutalmente diversi gruppi di persone migranti che sono riuscite a oltrepassare la barriera a Melilla, al confine tra Spagna e Marocco» [6].
Obasuyi parla quindi di “compassione selettiva”, e sarebbe interessante chiedere qualcosa in merito a quei politici, a quelle fazioni, a quei partiti, a quei sedicenti intellettuali che popolano i talk show italiani. Ma già immaginiamo la risposta, l’arrampicata linguistica, l’affanno del respiro, lo sguardo altrove, il tono di voce che si alza e così via. Ci dobbiamo arrendere a questo? Dobbiamo accettare che il vivere in democrazia voglia dire tollerare, anzi, pretendere che tali voci ci siano solo perché rappresentano un pensiero “differente”, un “punto di vista diverso”? Possiamo anche farlo, perché è giusto che il prezzo della democrazia vada pagato anche a costo di sentire idee che non condividiamo. Possiamo però, d’altro canto, sicuramente indignarci con quella fetta di società civile che dovrebbe almeno porre queste domande, quei media che dovrebbero mettere alle strette la “compassione selettiva” con inchieste, interviste, dibattiti seri (e non show che puntano a fare visualizzazioni con i brevi estratti pubblicati l’indomani su YouTube), confronti, al fine di svelare quali sono le sue reali motivazioni, se sono davvero di matrice razzista o per un qualche interesse e quale, nel caso, interesse.
«La compassione selettiva, quindi, ha tutti i connotati di un conservatorismo nazionalistico che si fonda profondamente su una discriminazione strutturale e sistemica applicata ai tipi di migrazione» conclude l’autrice, alla luce delle «regole discriminatorie che governano la libertà di movimento – che puntualmente penalizzano le persone provenienti dal sud globale» [7], Sud, Medioriente ed estremo Oriente aggiungerei io.
Personalmente, sono dell’idea che con la crisi climatica, il surriscaldamento globale e il ribilanciamento degli equilibri di potere globale, dobbiamo tutti prepararci a dover riaccettare la guerra come un personaggio che compare a metà stagione della nostra serie tv preferita stravolgendo la storia e diventandone coprotagonista. Uno di quei personaggi scomodi, che odiamo, ma che ci obbliga a interrogarci su noi stessi e sulla visione che abbiamo del mondo e degli altri. Che ci obbliga a riflettere sul peso che hanno le nostre scelte quotidiane, dalle più banali alle più importanti, sul mondo, sulla società, sul prossimo, dal più lontano al più vicino. A riflettere sulle nostre parole, sulle narrazioni che alimentiamo, su quelle che condividiamo e su quelle che combattiamo e come.
La guerra non è più qualcosa che ci ricorda dell’altrove esotico, dei luoghi degli Altri, degli spazi dell’Alterità. Cosa possiamo fare quindi oggi, nel nostro piccolo, dal nostro privilegiato salotto? Accogliere. Prima cosa. Tutti, indiscriminatamente, tutti gli oppressi di tutte le guerre del mondo. Seconda cosa: pretendere dai nostri media, dai nostri intellettuali, una comunicazione efficace, senza paura, senza servilismi, che sia in grado di svelare le sottonarrazioni razziste, le anime etnocentriche, le inclinazioni autoritaristiche, che alimentano certa propaganda, certe macronarrazioni. Perché se davvero, e io ci credo fermamente, l’Europa è il baluardo dei diritti umani e delle libertà, deve allora farsi carico anche di produrre una narrazione che sia libera, umana e plurale, in maniera trasversale, senza ipocrisia, senza il timore di ammettere anche certi interessi, legittimi in seno agli equilibri internazionali di potere, al fine di educare, abituare, spingere i cittadini europei a un confronto, consapevole e giusto, col mondo di oggi e col mondo di domani.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] https://openmigration.org/analisi/ucraina-dalleuropa-17-miliardi-per-laccoglienza-ma-restano-le-incertezze-su-quote-e-ricollocamenti/
[2] https://www.rainews.it/articoli/2022/03/profughi-ucraini-viminale-quasi-72mila-gi-arrivati-in-italia-1100-in-pi-di-ieri-722a4960-ea94-47ed-bc41-090d247c81ca.html
[3] https://thevision.com/attualita/accoglienza-ue-ucraina/
[4] In Oiza Q. Obasuyi, L’accoglienza in Ue deve valere per tutti i rifugiati, non solo per i bianchi che “ci somigliano”, thevision.com, 11 marzo 22; si veda nota precedente.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Ivi.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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