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di Clarissa Arvizzigno
Una poetica della traccia inonda uno spazio chiaro-scuro e lo avvolge sospendendolo in un tempo di stasi, di meditazione: il tempo lineare si sloga in un tempo laterale, dove la cosa emerge in un silenzio di sbieco che sussurra, copre, accenna; ed ecco che emerge ancora una cosa: si lascia osservare, osserva, da un angolo, da una prospettiva moltiplicata e mutevole nel suo definirsi.
Massimiliano Camellini è un fotografo di oggetti, lastre, superfici disposte in luoghi in cui gli stessi oggetti fungono da identificatori: la sua poetica pare esprimere una fenomenologia dell’oggetto e delle forme che prendono vita nel paesaggio dello spazio vissuto dagli stessi oggetti, quali fossero inviti, affordances [1], che chiamano lo spettatore della scena a parteciparvi e ad usufruirne.
Al di là dell’acqua è il titolo della mostra di fotografia tenutasi tra dicembre e gennaio presso lo Spazio Arte Contemporanea ubicato a Venezia, in Campo Santo Stefano. Una mostra che sembra scorrere su temi acquatici in una città fatta anch’essa d’acqua, anzi che prende forma proprio a partire dall’acqua, quasi come se le forme si svincolassero da un’idea, anch’essa acquatica, che costituisce un continuum materico avvolgente.
A proposito di questa fotografia, Andrea Tinterri scrive che può essere concepita quale un ossimoro, dal momento che la fotografia stessa:
«Sale su navi cargo che resteranno sospese sull’acqua per mesi, entra nelle stanze del lavoro, cerca gli spazi del capitano di bordo, osserva le stanze del riposo, quelle dell’ozio temporaneo. Esclude dallo scatto l’uomo che ritroviamo negli oggetti, nei piccoli totem o amuleti utili per ricreare una stabilità terrena. L’ossimoro sta nel restituire quella condizione di quotidiana normalità fatta di piccoli rituali in uno stato di viaggio costante, un moto continuo e permanente. Camellini fotografa isole che racchiudono regole interne come fossero città-stato in attesa di nuove geografie» [2].
Ci troviamo, nella fotografia di Camellini, in presenza degli spazi chiusi delle grandi navi cargo avvolte, come in un principio di sospensione, in una grande distesa marina amorfa e aperta su un interno, dove stanze squadrate e scabre trovano spazio tra oggetti, narrazioni di oggetti che si apprestano a raccontare di chi abita la nave.
Proviamo a rileggere l’opera di Camellini in chiave fenomenologica per osservare come la fotografia stessa prenda vita, organizzi le sue forme e i suoi spazi a partire dall’idea dell’acqua.
Nella foto sopra, possiamo osservare degli oggetti che evocano una presenza-assenza dell’uomo nello spazio: delle ciabatte lasciate su un tappeto disposto lungo un corridoio, il quale trova il suo punto di fuga in una porta, sulla quale un’apertura tonda sembra suggerire un esterno. Ai lati del lunghissimo corridoio, tantissime porte di cabine sembrano richiamare l’idea di una serie identica che si ripete, uguale a se stessa, in uno spazio che funge da catalizzatore del modulo-ripetizione.
Il bianco e nero dell’immagine contribuisce a rendere questa spersonalizzazione dello spazio composto da moduli che si ripetono, con le loro forme, in sequenze: le piastrelle rettangolari del pavimento, i rettangoli delle porte delle cabine, i rettangoli del soffitto su cui si innestano i rettangoli dei neon. La foto sembra essere una ripetizione-riproduzione del modulo del rettangolo che squadra lo spazio e lo rigenera a partire dalla sua stessa idea-forma. Unica forma che pare contrastare con le altre è, dicevamo, il tondo-finestra sulla porta che funge da fuga prospettica, unico centro da cui si irradia una luce naturale, esterna, estranea rispetto allo spazio interno e vissuto.
Osserviamo questa fotografia e soffermiamoci sul casco che pare guardare fuori, attraverso l’oblò che riflette un’immagine composita: un cantiere, un luogo atto al raccoglimento di merci, un approdo di terraferma. Osserviamo come, anche in questa foto, manchi la presenza umana e come, allo stesso tempo, vi siano tracce del suo passaggio, della sua assenza-presenza nello spazio. Camellini non ha bisogno di inserire una presenza umana nello spazio dal momento che, diremo, esso è, fenomenologicamente, spazio vissuto, percorso da un Leib, da un corpo proprio [3] che ha lasciato la scia di un avvenuto passaggio.
Gli oggetti che ora animano questo spazio del vissuto (cartografie, cannocchiali, bussole, mappe) riorganizzano quella che è una narrazione, come ci ricorda Tinterri, di un processo ossimorico: lo svolgersi di un movimento liquido (attraverso l’acqua) in un interno statico e solido (le cabine della nave), intriso di una certa stabilità quotidiana, costituita da utensili atti, appunto, ad essere usurati, affordances utilizzate da un qualche soggetto fantasmico che ne ha fatto, ne fa uso, anzi ri-uso, che le riutilizza in virtù di quella che è la loro pregnanza: la quotidianità. L’oggetto vissuto si svolge all’interno di una narrazione continua e fluida, una narrazione acquatica i cui collanti sembrano essere proprio gli oggetti, le cose che spazializzano il campo percettivo di chi le osserva. Qui l’occhio deve farsi telescopio, deve circumnavigare lo spazio di immersione degli oggetti, carpirne le geometrie, ri-definirle a partire dal contesto che esse stesse disegnano, tracciano.
Soffermiamoci ora su tre elementi guida che ci aiuteranno a leggere fenomenologicamente la fotografia di Camellini: il telescopio, la traccia-affordance, la narrazione acquatica. Partendo dalla prima parola, possiamo supporre, come dicevamo, che ci sia un occhio-telescopio atto ad osservare, fissare, zoomare ciò che sta al di fuori dei grandi oblò delle navi cargo. L’occhio, che dovrebbe essere parte di un corpo umano, è ora scorporato e installato dentro oggetti che, come nell’esempio del casco o del cannocchiale alla finestra, osservano un al di là il più delle volte vago ed indefinito.
L’oggetto, spazializzando e connotando emotivamente lo spazio, ne partecipa misurando la distanza che separa l’uomo da ciò che sta al di fuori della nave: lo spazio aperto, infinito, inesauribile. Esso è il punto di partenza che denota e, allo stesso tempo, connota una distanza, è misura fisica e misura sentimentale, atmosfera [4] dello spazio stesso. Gli oggetti effondono così la loro pregnanza nello spazio saturandolo di atmosfere e facendo sì che si crei una dialettica interno-esterno data dalla loro posizione situazionale nello spazio stesso.
Osserviamo come nelle immagini vi sia una costante: l’elemento della finestra e degli oggetti che vi si affacciano. La dialettica interno-esterno, dicevamo, è data proprio dall’oggetto interno allo spazio che crea una relazione tra sé e gli altri elementi dello spazio stesso compiendo un’operazione di spazializzazione, di resa dello spazio, di creazione di un ambiente, di un contesto senza il quale sarebbe difficile identificare i luoghi.
Merleau-Ponty [5], ricordiamo, distingue tra posizione di un oggetto nello spazio alludendo allo spazio materiale, geometricamente misurabile, e la situazione dello stesso sempre in uno spazio che non è solo oggetto matematicamente perimetrabile, ma oggetto avente una sua pregnanza, un suo colore, un suo sentimento che effonde nel suo dentro. Fenomenologicamente diremo che la situazione è sempre avvolta da un alone, da uno sfondo con cui si confà, si fa-con, ovvero con cui si con-fonde. La posizione, invece, allude alla collocazione fisica e geometrica occupata da un oggetto in un determinato spazio.
L’oggetto ci dice anche del sentimento che permea lo spazio, della sua esperienza con [6] lo spazio, della sua interazione con esso. L’oggetto partecipa dello spazio nella misura in cui, attivamente, lo spazializza, ovvero gli dà significanza, pregnanza, funzione attraverso il suo corpo e, allo stesso tempo, vi entra in rapporto dialettico differenziandosene pur colludendovi. L’oggetto-spazializzante è una porzione dello stesso mondo di cui fa parte anche lo spazio altro, lo spazio che si crea per differenza, differenza che tuttavia non è mai da intendere come netta demarcazione tra punti di spazi, ma come stesso spazio fenomenologico che ricopre funzioni diverse.
Ciò che crea la differenza è quest’oggetto-affordance che abita lo spazio dando indicazioni circa il suo utilizzo, qualitativamente diverso, a seconda dei punti dello spazio che combaciano/ si oppongono all’oggetto stesso. Tale differenziazione non è pertanto in contrasto con le teorie fenomenologiche che vogliono che non vi sia scarto tra esterno/interno, percipiente/percepito tipico invece della dicotomia cartesiana soggetto/oggetto. Tale differenziazione serve, invece, a distinguere qualitativamente gli spazi che assumono una pregnanza grazie all’oggetto che ne indica l’usus. Gli spazi sono parte di una stessa matrice che si differenzia, qualitativamente, circa il suo utilizzo dato dall’affordance che l’oggetto stesso esercita.
Analizziamo un altro punto: la posizione situazionale dell’oggetto nello spazio. Ricordiamo, appunto, come un oggetto possa essere considerato occupante una posizione o una situazione in uno spazio e osserviamo che nelle fotografie di Camellini l’oggetto appare posizionato con attenzione e con occhio geometrico all’interno di uno spazio, anch’esso, denotato geometricamente. Premesso ciò, rimaniamo colpiti come, al contempo, l’oggetto stesso partecipi dello spazio caricandolo connotativamente di senso, situazionandolo. Osserviamo la fotografia in cui sono presenti le bottigliette adagiate dentro un contenitore rettangolare posto su un tavolo. Esse sono posizionate in uno spazio fisico, la stanza di una nave, sopra un oggetto definito: un tavolo e posizionate all’interno di una nave. Le bottigliette ci dicono circa l’utilizzo (affordance) del tavolo, del contenitore che le ospita, del loro essere contenitori contenenti liquidi vari intuibili dalla consistenza; sono sì site su un tavolo, ma è interessante notare come lo siano: con estrema minuziosità, precisione, geometria, al centro del tavolo, spazialmente comprese tra i due oblò che si affacciano in direzione di un esterno. Vi è sì, pertanto, una posizione specifica, millimetrale dell’oggetto, vi è certamente una posizione, ma essa è, allo stesso tempo, indice di una cura per il dettaglio della mano fantasma che pare averle posizionate in virtù della loro affordance spaziale.
Così lo spazio cessa di essere semplicemente posizione e diviene situazione di flussi percettivi: l’ordine, l’allestimento della scena quasi fosse un sipario di una scena teatrale in cui l’oggetto contiene un contenuto già in parte saturato circa il suo utilizzo. Lo spazio quindi si connota di un contrasto percettivo tra un senso di ordine, come se tutto fosse stato disposto e mai toccato, e un senso di usura di un passaggio umano che suggerisce una presenza quasi fantasmica passata da lì in un tempo indeterminato, come è indeterminato l’alone, il flusso denso (perché manca una distinzione precisa tra i qualia della relazione stessa) della situazione percepita.
Potremmo dunque supporre che il significato dell’affordance sia un meccanismo operativo che catalizza l’aprirsi di spazi-situazioni connotati emotivamente attraverso tinte tonali rivelanti l’atmosfera del luogo stesso, atmosfera che altro non è che un sentimento effuso nello spazio a partire da un oggetto. L’oggetto-affordance chiede di essere utilizzato e, indirettamente, ci dice come viene utilizzato rivelando le relazioni del suo utilizzo, apertura all’estetico. L’oggetto-affordance satura quindi lo spazio di significazioni abitando lo stesso spazio, indossandolo, rivestendolo di un velo emotivo in attesa che l’osservatore della fotografia l’oltrepassi relazionandovisi-con senza tuttavia toglierlo, svelarlo. La perdita del velo emotivo dell’oggetto stesso porterebbe, infatti, ad una perdita dell’atmosfera stessa che dà significazione situazionale allo spazio: gli spazi di Camellini sono abitati soltanto in quanto spazi situazionali nonostante la presenza umana sia assente.
Essi sono atmosfere dal momento che abitare non è altro che coltivare atmosfere [7] e la casa, l’ambiente domestico, altro non è se non una resa tangibile di questo processo. Una casa, un luogo, una stanza possono essere intese, pertanto, quali serre di sentimenti spazializzati, ed esse li nutrono, allevano il loro nidificare presso le loro nicchie interne caratterizzandoli. L’oggetto, da parte sua, si comporta come un’affordance invitando all’utilizzo o, faremo meglio a dire, al ri-utilizzo (dal momento che si tratta di oggetti quotidiani di routine) e comunica umanizzandosi, facendosi esso stesso corpo-proprio che sente lo spazio, lo inala, lo riutilizza istituendo un dialogo con lo spazio in base a quelle che sono le sue caratteristiche.
Altra caratteristica dell’oggetto da tenere in considerazione è la sua estasi che
«conformemente al senso letterale del greco ekstasis, il termine deve indicare questo uscire da sé della cosa, intendendo così l’uscire-da-sé in senso assolutamente spaziale. È il modo e la maniera in cui una cosa esce nello spazio della propria presenza, della propria sphaera activitatis, ivi diventando percettivamente presente»[8].
Accosteremo pertanto all’oggetto-affordance anche l’oggetto-ekstasis. Si tratta sempre, come spiegato da Böhme, di una sphaera activitatis, di un oggetto operativo, dinamico non circa il suo utilizzo, bensì circa la sua capacità di prolungare nello spazio le sue qualità per emanazione: l’oggetto-ekstasis genera direttamente spazi situazionali per emanazione delle sue proprietà, a differenza dell’oggetto-affordance che genera indirettamente spazi situazionali dal momento che ha bisogno di ulteriori mediazioni. L’oggetto-affordance, infatti, dicendo qualcosa circa il suo utilizzo, crea indirettamente delle situazioni: la bottiglietta di olio mezza vuota, ci dirà qualcosa circa l’utilizzo che si è fatto della bottiglietta che, in relazione alle altre bottigliette poco, semi, completamente vuote, ci farà percepire, infine, quell’atmosfera fantasmica, quella situazione di cui parlavamo.
Tuttavia, affinché questo avvenga, c’è bisogno di mettere in relazione le bottigliette e il loro utilizzo, c’è bisogno di operare una mediazione, quasi ci trovassimo di fronte a un processo allegorico. Di contro, il materiale di cui è costituita la bottiglietta, la sua forma o il suo colore, si comporta come un’estasi che invade, direttamente, della sua pregnanza la stanza, lo spazio situazionale della stanza, conferendogli un valore come metaforico: non abbiamo bisogno di un procedimento di tipo razionale-associativo per comprendere che il vetro della bottiglietta ci suggerisce, ad esempio, una sensazione di freddezza, lo percepiamo direttamente.
La fotografia di Camellini sembra contenere al suo interno proprio questa doppia pregnanza: quella di contenere oggetti-affordance ed oggetti-estasi in cui talvolta si realizza la compresenza delle due caratteristiche dando vita ad oggetti affordance-estasi. Guardiamo, ad esempio, la fotografia che raffigura alcuni passaporti disposti su un tavolo, presumibilmente un ufficio. Il fotografo rende la bellissima pelle di cui sono composti i passaporti ponendoli in parte alla rinfusa, uno sull’altro. L’oggetto-ekstasis prende vita, una qualità esce dall’oggetto, la morbidezza del pellame si irradia per la stanza, quasi in contrasto con la superficie marmorea e rigida del tavolo sopra il quale sono posti, anch’esso un oggetto-ekstasis che irradia i suoi qualia per lo spazio.
I passaporti sono oggetti atti a, utili a compiere un’azione, un viaggio, un passaggio, un transito; essi suggeriscono pertanto una significazione circa il loro utilizzo di un processo (il viaggio) che intuiamo cognitivamente. Il loro essere disposti alla rinfusa sul tavolo, in primissimo piano, ci suggerisce un rovistare, un cercare qualcosa al loro interno dato da un’urgenza, forse da una partenza imminente: tutto sembra suggerire un’atmosfera di subbuglio. Ecco quindi un’altra situazione generata da un oggetto-affordance che innesta un’atmosfera di secondo livello, indiretta, data da un processo di tipo allegorico-razionale che contrasta con l’atmosfera creata, invece, da un processo di tipo intuitivo-metaforico proprio dell’oggetto ekstasis, il quale genera, invece, atmosfere dirette, potremmo dire, di primo livello.
Lo stesso può dirsi se osserviamo la fotografia che contiene le bandierine inserite dentro una bacheca atta a contenerle. Esse ci dicono qualcosa di uno spazio semi-utilizzato, semi-vuoto. Esse ci dicono dell’utilizzo dello spazio stesso che funge, pertanto, da oggetto-affordance e, allo stesso tempo, ci suggeriscono qualcosa del loro materiale che possiamo intuire, palpare, sentire, stropicciare o, per meglio dire, sentire stropicciato o meno in base alla loro disposizione in una configurazione di insieme del campo percettivo che suggerisce ora ordine, ora disordine: ecco il tracciamento operato dall’affordance che funziona come una vera e propria traccia di senso all’interno di un circuito cognitivo.
In tal modo, è come se le atmosfere geminassero le une dalle altre: se un’estasi suggerisce la percezione della qualità della morbidezza, a questa si può associare la percezione di un’atmosfera di disordine data dalle pieghe del tessuto e, ancora, si potrebbe continuare in un circuito ermeneutico dato a partire dalle qualità sensibili degli oggetti al fine di pervenire ad una descrizione emozionale dello spazio, a una sua configurazione di insieme che si dispiega come già data, senza tempo, agli occhi dell’osservatore ma che, in realtà, possiede una sua diegesi interna, un suo processo, una sua storia che deve essere percorsa ermeneuticamente ora attraverso l’oggetto-affordance, ora attraverso l’oggetto-estasi.
Questa natura anfibia, questa anfibologia dell’oggetto, sembra essere la cifra caratteristica di Camellini. Osserviamo ancora un’altra fotografia. Lo scintillio delle monete che permea una stanza: esso emana estaticamente dall’oggetto e vi ri-posa dentro, quasi a voler farne percepire il suono metallico. Siamo in presenza, sinesteticamente, di una luce di suono di un sentire fulmineo, di lampo, metallico e brillante, proprio di un materiale già di per sé sinestetico in cui agiscono delle comproprietà estatiche che lo dispiegano al senso.
Passiamo ora a descrivere la terza caratteristica della fotografia di Camellini: il suo essere una narrazione acquatica. Riflettiamo, prima di tutto, sull’idea della narrazione: Camellini sembra voler rendere la diegesi di un movimento attraverso una serie di scatti fissi e particolareggiati, volti a vivisezionare una trama, un tessuto fatto di sequenze filmiche giustapposte e continue. Per citare Deleuze, potremmo definirle, delle vere e proprie immagini-movimento [9], delle sezioni immobili che acquisiscono movimento una volta divenute configurazione di un processo continuo e sequenziale, scattante e analogico. Ogni narrazione implica, quindi, un flusso, un’azione processuale ed operativa che sembra richiamare l’idea dell’acqua, acqua attraverso la quale, tra l’altro, si svolge quella che è la navigazione delle navi cargo attraverso l’informe acquatico. L’acqua avvolge, definisce l’oggetto che conduce e lo rilascia nel suo spazio lasciandolo appunto fluire.
Su questa fluidità delle cose, su questa idea fluida dell’acqua, si innesta il problema dello spazio: di che tipo di spazio si tratta? È esso molteplice o singolo? Limitato o continuo? Ci troviamo, come scriveva Tinterri, in quell’ossimoro che è la navigazione, la quale fa sì che uno spazio che dovrebbe essere movimento, in movimento, sia in realtà immobile quotidianità? Proviamo innanzitutto a distinguere lo spazio interno ed esterno della nave: questi sono spazi contigui ma diversi e sembrano, allo stesso tempo, richiamare l’idea di spazio liscio e striato di Deleuze:
«la differenza di fondo tra spazio liscio e striato è rappresentata dal fatto che il primo offre all’uomo la possibilità del disorientamento, della libertà nomade, del girovagare tra le significazioni, mentre il secondo è espressione dell’intervento dell’istituzione, è uno spazio pre-orientato, costruito su tragitti predeterminati, da cui l’uomo non può uscire: le significazioni sono già impostate nello spazio striato, mentre nello spazio liscio è lo stesso nomadismo del soggetto a far emergere le differenze di senso»[10].
Nella prospettiva di Deleuze potremmo indicare con il termine “spazio liscio” il mare, la narrazione fluida in cui sono immerse le navi cargo e immersi con esse, ermeneuticamente, gli uomini che le abitano, gli oggetti che abitano presso gli uomini, le atmosfere che abitano da e a partire dagli oggetti: tutto fluisce nell’acqua e prende forma proprio in quanto opposizione all’acqua stessa che è oggetto a-vettoriale, informe, che chiede di essere navigato in una direzione.
E ancora: la nave, le sue cabine, la loro geometria, altro non sono che spazi striati, quasi fossero una griglia di significazioni già imposte che possono essere descritte, circoscritte, circumnavigate a partire dallo sguardo. Si tratta sicuramente di spazi vissuti da un Leib che orienta la significazione situazionale e che, merleupontyanamente, è a sua volta riorientato dall’operatività degli spazi stessi che balzano fuori quasi per un meccanismo di autopoiesi dello stesso spazio, il quale si riproduce a partire da se stesso, facendo esperienza di se stesso.
L’acqua si propaga dagli oblò della nave a partire dalla sua non-forma, facendo esperienza di se stessa e, nell’attraversamento che ne fanno le navi, si esplica il suo attraverso, la sua storia, la sua narrazione autodiegetica. Percorrere uno spazio liscio come l’acqua implica, quindi, un girovagare tra significazioni potenziali ed essa è, allo stesso tempo, spazio operativo in quanto creatrice di significazioni. Nave ed acqua non si oppongono, sono piuttosto in una dialettica fluida e costruttrice di senso e percezioni: gli oblò della nave si prolungano verso un esterno e la grande distesa marina gli si rispecchia-ripiega dentro; entrambi gli oggetti sono, fenomenologicamente, in una relazione con-: la nave attraversa lo spazio e lo spazio le si riavvolge dentro. Ciò che avviene, allora, è un traslocamento posizionale di un oggetto-spazio striato (la nave) in uno spazio liscio, in se stesso operativo (l’acqua), e un traslocamento situazionale dello stesso spazio liscio nello spazio striato.
La nave, con il suo essere spazio striato, si muoverà per mare (spazio liscio) cambiando di posizione nello spazio fisico e la grande distesa d’acqua, in questo scambio osmotico tra le parti, invaderà, metaforicamente, lo spazio della nave saturandola dal di dentro situazionalmente: andrà a creare o, faremmo bene a dire, ricreare (a partire cioè da un materiale preesistente, quello dell’acqua) uno spazio situazionale, un’atmosfera.
Entrando dentro la nave, infatti, intuiamo come un movimento meditato degli oggetti che riposano in un movimento sotterraneo e informe, quasi come se l’acqua gli fosse entrata dentro rendendoli permeabili alla sua atmosfera, alle sue estasi. Leggiamo quindi come spazio liscio e spazio striato si intersechino in maniera chiastica, fruendo delle loro estensioni [11] proprio-corporee secondo Deleuze:
«Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario – [...] non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo indicare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato; lo spazio striato è costantemente trasferito, restituito a uno spazio liscio» [12].
Spazio liscio e spazio striato, quindi, non sono che traduzioni, trascrizioni, intersezioni reciproche, atmosfere che si comprendono e completano a vicenda definendo, di volta in volta, la materia fotografica di Camellini: un trasferimento di caratteri è continuamente in atto da uno spazio ad un altro in cui oggetti paiono continuamente slogarsi, dislocarsi da una posizione, da una nicchia atmosferica a un’altra.
Sarebbe interessante ora chiedersi se le atmosfere che irradiano dalla fotografia producano spazi lisci o striati, se il loro essere meccanismi operativi di sentimenti effusi nello spazio non sia già circoscrizione di uno spazio striato, che immette chi lo percepisce in una griglia di significazioni tra cui il soggetto stesso resta imbrigliato.
Se consideriamo, come ci suggeriscono i neofenomenologi, che le atmosfere hanno un carattere oggettivo, si opterebbe per l’ipotesi che lo spazio che esse emanano sia striato e che, a questo, il fruitore non possa sfuggire. Tuttavia, bisogna anche considerare che le atmosfere fungono da casse di risonanze rispetto a sensibilità che modulano, di volta in volta, la loro capacità ingressiva di fronte alla permeabilità emotiva del percipiente. Da questo punto di vista, esse possono essere considerate anche spazi lisci nella misura in cui chi le percepisce, modula la loro carica atmosferica in spazi che sono riconfigurati nel loro significato a partire dalla sensibilità del percipiente che ora, nomade, si ritrova girovago tra significazioni da attribuire divenendo, anfibologicamente, un fruitore-creatore delle atmosfere stesse. La fruizione-creazione di questo spazio avviene in modo simultaneo e non sequenziale: chi le crea, ne fruisce al tempo stesso istintivamente, percettivamente.
Osserviamo infine la foto sopra: è avvenuta un’intersezione di moduli lisci-striati, si è ricreato uno spazio ed ecco ancora una fotografia, ancora un interno, una stanza, un oblò rettangolare, una finestra estesa su un galleggiamento delle forme, in un continuo riposare sul letto disfatto di una nave, le cui striature della stoffa, l’usura del lenzuolo, il disfacimento di un’azione già avvenuta si aprono sullo spazio al di là dell’oblò, su uno spazio da definire, ancora, al di là dell’acqua.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] Per il concetto di affordance si veda D. A. Norman, La caffetteria del masochista, trad. a cura di G. Noferi, Giunti, Firenze, 2019.
[2] A. Tinterri, 2016, http://www.massimilianocamellini.org.
[3] Si veda Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, cit.: 30-31: «Il corpo fisico (Körper) è stabile esteso, dotato di una superficie e divisibile in parti occupanti uno spazio locale relativo, quindi un legittimo oggetto delle scienze naturali (anatomia in primis), il corpo proprio (Leib) è viceversa privo di superfici e occupa un luogo ‘assoluto’ e non geometrico, è capace di autoauscultarsi senza mediazioni organiche e, siccome eccede il contorno cutaneo, solo occasionalmente coincide con il corpo fisico. Manifesto della sfera affettiva e, in modo totalmente diverso dal corpo fisico, secondo un ritmo polarizzato (contrazione o angustia/espansione o vastità) i cui estremi, entrambi incoscienti, sono il terrore paralizzante (incorporazione) e il rilassamento totale (decorporizzazione), esso si articola non in parti discrete, ma ‘in isole proprio corporee’»
[4] Si ci riferisce qui, in particolare, al concetto di atmosfera dal punto di vista neofenomenologico: le atmosfere sono i sentimenti effusi nello spazio circostante, con le quasi-cose da cui sono costituite ed espresse. Si legga a tale proposito Schmitz, Nuova Fenomenologia, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011; T. Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari, 2010; T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, Mondadori, Milano, 2013; T. Griffero, Il pensiero dei sensi, Atmosfere ed estetica patica, Guerini e associati, Milano, 2016; G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2010.
[5] Si legga M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003.
[6] A tal proposito si veda la differenza tra “esperienza-con” ed “esperienza-di” dal punto di vista fenomenologico, illustrata da G. Matteucci in Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma, 2019.
[7] Si veda A home is not a house. Abitare è “coltivare” atmosfere, in S. Pedone/M. Tedeschini (a cura di), Abitare (Sensibilia 8-2014), Mimesis,Milano 2016: 133-154
[8] G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti edizioni, Milano, 2010: 193.
[9] Si legga G. Deleuze, L’immagine-movimento, Einaudi, Torino, 2016.
[10] M. Antoniel, Lo spazio nel pensiero di M. Merleau-Ponty e Deleuze: 76.
[11] Si veda il concetto di mente estesa in Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione, cit.
[12] G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, Éditions de Minuit, Paris 1980; ed. it., G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizzofrenia, Castelvecchi editore, Macerata 1997: 92.
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Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia on line: www.liberainformazione.org , www.antimafia2000.com, www.corleonedialogos.it.
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